“Se piace al Padrino…”

La storia del salame di S. Olcese è sostanzialmente “cosa loro”, dei Cabella e dei Parodi  le due famiglie che, da oltre un secolo, se ne contendono la paternità.

Nei primi decenni dell’Ottocento la fama di questo salume varcò i bucolici confini della Val Polcevera per invadere sapidamente le tavole inurbate dei genovesi. 

L’abbinamento con le fave divenne binomio imprescindibile di qualsiasi scampagnata primaverile. Ancora oggi infatti, nel genovesato, non si contano le sagre che, da aprile in poi, celebrano il gustoso connubio. Dato l’aumento della domanda i due salumifici estesero la loro richiesta di forniture alle valli limitrofe, Valle Scrivia, Stura, Bisagno e basso Piemonte o, come dico io, alta Liguria, dalle quali approvvigionarsi delle materie prime, le carni.

“Il salame di S. Olcese. Immagine tratta dal sito del salumificio Parodi”.
“Per par condicio, immagine tratta dal sito del salumificio Cabella”.

Il gustoso insaccato è frutto dell’armonica fusione in parti variabili di carne suina (di Piemonte ed Emilia) e bovina del Piemonte (astigiano, alessandrino, cuneense). Il salame, nonostante la scontata evoluzione tecnologica, tuttora viene essiccato a legna, legato a mano e segue fedele l’antica ricetta che prevede l’aromatizzazione a base di aglio e vino bianco del Polcevera.

Entrambe le famiglie vantano documentati diritti di primogenitura. I Parodi hanno fondato l’impresa nel 1890, mentre i Cabella hanno iniziato nel 1911. Secondo i Cabella a fare fede però è la registrazione in Camera di Commercio e la loro risulta essere la prima. Se poi si discute sulla primitiva produzione casareccia tutto è opinabile e ciascuna delle due parti in causa rivendica la precedenza.

“Peter Clemenza, capo regime del clan di Corleone, è interpretato da Richard Castellano (da adulto) e Bruno Kirby (da giovane). Nella foto l’attore R. Castellano”.

L’ultima controversia tra le due famiglie che si rispettano ma non si frequentano, l’una i Parodi a nord del paese, l’altra i Cabella a sud  è proprio legata alla ricetta base. i Parodi e i Cabella hanno tesi diverse, i primi ci metterebbero più suino, i secondi più bovino. Discordi su questo punto focale non hanno trovato un punto d’incontro e quindi il salame di S. Olcese non ha ottenuto la benedizione europea che esigeva una codifica ufficiale della ricetta. Niente ricetta-base nero su bianco, niente benedizione, denominazione e tutela europea.

Pazienza, a S. Olcese ne fanno una questione d’onore .

D’altra parte, all’inizio del capitolo n. 6 del romanzo “Il Padrino”, Mario Puzo così scriveva:

“Il romanzo di Mario Puzo con il titolo originari The Goodfather fu pubblicato nel 1969 ispirando la saga dei vari Padrino (Parte prima 1972, seconda 1974 e terza 1990) di Francis Ford Coppola interpretati da Marlon Brando, Robert De Niro e Al Pacino. Fra gli altri attori non vanno dimenticati Robert Duvall , il Consigliori e Gastone Moschin, nei panni del cinico Don Fenucci”.

“Peter Clemenza quella notte dormì male. La mattina si alzò presto, si preparò da solo la colazione con un bicchiere di grappa, una spessa fetta di salame di Genova, e un grosso pezzo di pane italiano fresco che veniva ancora consegnato alla porta come nei vecchi tempi”.

Da S. Olcese a New York il salame è “cosa loro”, anzi, “cosa nostra”!

A scanso di equivoci l’associazione tra il Padrino e il salame di S. Olcese è una mia licenza poetica. Il salame di Genova citato da Puzo nulla ha a che fare con il nostro insaccato, trattasi infatti di altro tipo di salume.

“Ergiti diga e placa le tempeste”… seconda parte…

Proseguendo in direzione mare si susseguono:

“I Magazzini dell’Abbondanza”.

In Via del Molo n. 2 i Magazzini dell’Abbondanza edificati fra il 1556 e il 1557 su preesistenti costruzioni medievali. Questi magazzini erano deputati alla conservazione di biade, cereali e di tutto ciò che poteva essere accantonato e distribuito in tempo di carestia, a cura di un apposito funzionario che aveva anche il compito di regolare i prezzi delle merci e di punire azioni speculative, il magistrato, appunto, dell’Abbondanza.

“Edicola di S. Giuseppe e il Bambino”.
“Edicola della Madonna del Grano”.

Nel cortile della canonica di S. Marco al Molo, un appariscente tabernacolo barocco con marmi policromi con al suo interno una moderna statua di S. Giuseppe e il Bambino. Trattasi del bozzetto dell’originale scolpito per la tomba del cardinale Siri nell’altare di San Giuseppe, nella navata destra della cattedrale. Di fronte un’edicola della Madonna con Bambinello ed il Battista con un pastorello. Particolari i decori, fra cui una falce per mietere il grano poiché, in origine quest’edicola, era posta sul silos del grano in Ponte Parodi. Sotto il tabernacolo infatti ,una lapide recita:

“I Lavoratori / del Silos Granario / ed / I Cappellani del lavoro / nel 50° di Fondazione / 1943- 1993.

All’esterno della chiesa il bassorilievo del leone di S. Marco preda di guerra genovese della battaglia di Pola del 1380 vinta contro i veneziani. Una lapide posta al di sopra sentenzia:

“Sembra un portone qualunque, invece è l’ingresso della chiesa di San Marco al Molo”.
“Il Leone veneziano bottino di guerra della battaglia di Pola del 1380 durante la guerra di Chioggia”.

“Iste Lapis in quo est Figura Sanc / ti Marci Delatus Fuit a Civitate / Polae Capta a Nostris MCCCLXXX die XIIIII Januarii”.

Sempre da questo lato è esposta una grande lapide del 1513 dal testo molto lungo che, in sintesi, elenca i lavori relativi al prolungamento dei moli.

“La Madonna della Misericordia”.

In Via del Molo, all’angolo con Vico Palla, la settecentesca Madonna della Misericordia che appare al beato Botta. Purtroppo versa in pessime condizioni, scrostata, presenta vistose crepe. L’abraso cartiglio riporta “Moles Esto et Mollias”. Ritorna il monito: “Ergiti diga e placa le tempeste”.

 

“Il modesto accesso all’Asilo Notturno Massoero”.

Al civ. n. 13 l’edificio che ospita l’Asilo notturno Massoero.  La struttura fondata nel 1912 all’interno di un cinquecentesco palazzo che costituiva uno dei magazzini del grano. Il palazzo fu anche sede dell’Annona e della relativa caserma.

La lapide rammenta.

“Notturno Asilo / Hanno i Raminghi Senza Tetto / Questo Edificio Apprestato dal Comune / per Iniziativa di Luigi Massoero / Cittadino Integro. Pio , Operosissimo / Che al Benefico Scopo l’Intero Suo Patrimonio Legava / MCMXXII”.

“La Lapide dei Magazzini dell’Abbondanza”.

Poco distante un’altra lapide che racconta le vicende relative al magistrato dell’Abbondanza.

“Le Mura della Malapaga”.
“Le Cannoniere”.

Dalla piazzetta della Porta del Molo salendo a sinistra, si accede alle antiche mura  che nel medioevo si affacciavano direttamente sul mare. Il primo tratto, detto delle “cannoniere” fa ancora parte del corpo della porta ed era così chiamato perché vi erano allocate le batterie di cannoni della Repubblica.

“Locandina del film il cui titolo originale era: Au delà des grilles”.

Continuando si attraversa il camminamento di ronda e ci si congiunge con il tratto di quel che resta delle Mura della Malapaga. Visto che tali fortificazioni furono demolite per permettere la costruzione della caserma della Guardia di Finanza, posta sullo slargo verso Cavour, proprio al posto dell’antica prigione destinata esclusivamente ai colpevoli di reati a carattere economico e fallimenti dolosi. Nel 1949 questi luoghi ispirarono il regista  francese Renè Clement che scelse Genova come scenografia per il suo il film. Tanto è vero che intitolò la pellicola, con protagonisti Jean Gabin e Isa Miranda (fra gli altri anche una giovanissima Ave Ninchi), vincitrice dell’Oscar come miglior film straniero, “Le Mura di Malapaga”. Al di la dei successi e dei riconoscimenti della critica, il lungometraggio riveste una notevole importanza storica poiché, nonostante alcune false inquadrature causa necessità di copione, costituisce un preziosissimo ed irripetibile documentario della Genova del dopoguerra. 

Sul lato delle scalette di Vico Palla, al civ. n. 1, sopra un portalino si affaccia un inquietante testa ghignante.

“Il Campanile di S. Marco al Molo si affaccia curioso sulle mura del Baluardo”.

In zona ve ne sono altre, sparse qua e la, che scrutano di nascosto. Forse un richiamo al fatto che sul Molo, terminata l’era napoleonica della ghigliottina, avvenivano , per impiccagione,le esecuzioni capitali.

Vico Bottai deve il nome dalle botteghe costruttori di botti che erano ancora attivi ad inizio del ‘900, mentre l’attiguo Vico Cimella fino al 1868 era noto come il Vico della Rosa. Mutò il nome in onore della cittadina francese di Cimiez, vicino Nizza, un tempo territorio genovese, paese natale di San Celso martire, fra i primi predicatori del Vangelo in Liguria.

Sul fondo di Vico Bottai un tripudio di archetti in laterizio che avevano il compito di consolidare ed evitare cedimenti nei magazzini ed erano ingegnosamente utilizzati come condotti d’acqua.

Dalle scalette di Vico delle Vele una piccola edicola con statuetta moderna la cui epigrafe certifica la devozione di cui fu oggetto: “Aedam Hano Bellico / Furore Deletam / Clerus Populusque / S. Marci / Reposuerunt”. La data risulta incompleta si legge solo 1° Nov (…) Anno Sancto. Sotto un rilievo in  marmo con il testo: “Mater Misericordiae / Protege Nos / A. D. MDCCCLXXV – MCMVII.

“Cartolina di Vico delle Vele”.
“Gli archetti di Vico Bottai”.

Vico delle Vele prende il nome dai laboratori che nel ‘600 furono adibiti a tale attività. Prima erano siti in Piazza Sarzano.

Tornati nella piazzetta del Molo si incontra l’edificio del Baluardo che costeggia tutta la via fino ad inglobare anche la chiesa di S. Marco sormontato dal camminamento di ronda che un tempo si affacciava direttamente sui moli. Nel tratto del Baluardo si apre un piccolo varco chiamato “Porta della Marinetta” che collega la Via del Molo con le calate Cattaneo e Mandraccio, proprio in corrispondenza dell’abside della chiesa. Davanti alla chiesa si notano tre archi tamponati retti da pilastrini di pietra, si tratta della trecentesca loggia di S. Marco inglobata nell’edificio nel 1848.

“La Torre dei Greci. Dettaglio del 1520 circa”.

Dato che in questo quartiere i mercanti orientali avevano le proprie attività commerciali, logge, fondachi, abitazioni e luoghi di culto, la zona venne identificata come dei “Greci”. Da qui il nome della scomparsa torre sorella della Lanterna, detta appunto Torre dei Greci che, per circa trecento anni, dal ‘300 al ‘600, protesse il levante cittadino.

Quando passo di lì, ancora oggi, sussurro tra me e me, “Ergiti diga e placa le tempeste”…

In Copertina: Jean Gabin e Isa Miranda.

“Ergiti diga e placa le tempeste”… prima parte…

Il promontorio del Molo ha da sempre rappresentato la protezione naturale ed il rifugio delle imbarcazioni nella rada che ha dato origine al porto.

Nel corso dei secoli il baluardo naturale è stato prolungato a più riprese e munito di poderose mura sia sul lato del mare aperto (Mura del Molo e Mura della Malapaga) che su quello interno (il Baluardo).

Negli antichi documenti dei “Conservatores portus et moduli”, i magistrati adibiti alle attività marittime, il quartiere era indicato con il nome “Contrada Moduli”. Qui si trovava una fontanella, detta del “Bordigotto”, protagonista di un antichissimo episodio avvenuto nel 935 quando, presagio nefasto, cominciò a zampillare sangue. Di lì a poco infatti, Genova avrebbe subito un devastante attacco saraceno, uno dei più terribili che la sua millenaria storia ricordi.

“La cinquecentesca del Molo dell’Alessi”.

In pieno ‘500 vennero rafforzate le mura che partivano da Porta Soprana e proseguivano fino alla punta del Molo vecchio che venne dotato di un’apposito varco, costruito dall’Alessi, chiamato -appunto- Porta Molo Vecchio.

Il quartiere era la sede di tutte quelle attività che ruotavano intorno alle manutenzioni navali: botteghe, fabbriche e laboratori di fabbri, bottai e arredatori marittimi. In particolare vi si costruivano cannoni e proiettili per la Repubblica.

“Piazza Cavour. Prima del porticato di Via Turati Sottoripa continuava con il tratto chiamato Ripa Coltellinaria”.
“I Magazzini dell’Abbondanza. In primo piano lo stemma del Regno sardo”.
“I Magazzini del sale presso il Molo”.

Nel ‘600 la zona divenne destinata ai magazzini annonari (del sale, del grano e dell’abbondanza) e le attività prima elencate si trasferirono in parte di fronte, alla “ripa coltellinaria”, odierna Via Turati, in parte in Darsena.

In seguito alle trasformazioni di fine ‘800, inizio ‘900, la contrada è stata via via isolata dal resto della città, costituendo un’appendice del porto. I bombardamenti del 1942 e la costruzione nel 1969 della sopraelevata hanno cambiato in pochi anni ciò che era rimasto immutato per secoli. Grazie al disegno di riqualifica voluto da Renzo Piano nel 1992, il Molo ha ripreso vita traendo giovamento dalla rinascita del Porto Antico.

“L’Edicola di San Giovanni Battista”.

In Piazza Cavour ai civ. n. 3 e 4, a fianco della caserma della Guardia di Finanza, si notano tre arcate rivolte verso il molo e due verso la piazza che costituivano una duecentesca loggia confinante, un tempo, con il casone delle prigioni della Malapaga.

Al civ. n. 54r ecco una delle edicole più note, quella secentesca di San Giovanni Battista. Si tratta di un’edicola in stucco a tempietto con colonne ioniche in marmo. La statua del santo, ricoverata in una profonda nicchia, è protetta da un’elaborata grata in ferro. Ai lati due coccarde con cartigli e scudi abrasi. Alla base l’epigrafe: “Moles Esto / et Mollias / MDCXXXIIII. (“Ergiti scoglio, (diga) e placa il mare (le tempeste”).

Il tabernacolo è collocato sopra la fontana detta dei “Cannoni del Molo”, una cisterna del 1634 che costituiva una delle stazioni terminali della via dell’acqua.

“La Fontana dei Cannoni del Molo. Ai lati le numerazioni sulle listarelle di marmo e gli attacchi dei cannoni. Al centro l’Edicola di San Giovanni Battista”.

Con il termine cannoni venivano indicati i tubi che fornivano acqua alle fontane pubbliche. A differenza dei bronzini, dotati di valvole, i cannoni necessitavano, per la loro chiusura, di tappi di ferro, bronzo, marmo o ceramica.

A lato dell’edicola del Battista sono visibili due listarelle di marmo incise con numeri arabi e romani, incastonate nelle pietre, con numerose fessure per l’areazione. Una vecchia targa in ghisa riporta la dicitura “Pozzo Pubblico N. 25” con tanto di stemma e corona.

In Copertina: Via del Molo angolo Piazza Cavour. Cartolina tratta dalla collezione di Stefano Finauri.

continua…

“Mamma li Turchi!”…

… storia dell’antica Porta del Molo e della vera Porta Siberia.

Per la costruzione della Porta del Molo o Ciberia l’architetto perugino Galeazzo Alessi si ispirò al progetto della porta di San Miniato di Firenze eseguito da Michelangelo.

“… Fu chiamato dai genovesi con suo molto onore a’ servigii di quella repubblica, per la quale la prima opera che facesse si fu racconciare e fortificare il porto et il molo, anzi quasi farlo un altro da quello che era prima. Conciò sia che allargandosi in mare per buono spazio”… annota il Vasari ( e il molo s’allungò di più di 600 passi) riportando il racconto di Filippo Alberti,” fece fare un bellissimo portone” (la porta del Molo in seguito chiamata Sibaria o Siberia, realizzata fra il 1553 e il 1555), che giace in mezzo circolo, molto a!dorno di colonne rustiche e di nicchie a quelle intorno. All’estremità di quel circolo si congiungono due baluardotti, che difendono detto portone. In sulla piazza poi, sopra il molo, alle spalle di detto portone, verso la città fece un portico grandissimo, il quale riceve il corpo della guardia, d’ordine dorico e, sopra esso, quanto è lo spazio che egli tiene, et insieme i due baluardi e porta, resta una piazza spedita per comodo dell’artiglieria, la quale a guisa di cavaliere sta sopra il molo e difende il porto dentro e fuora. Et oltre questo che è fatto, si dà ordine per suo disegno, e già dalla Signoria è stato approvato il modello dell’accrescimento della città, con molta lode di Galeazzo, che in queste et altre opere ha mostrato di essere ingegnosissimo”.

La porta è collegata con le Mura di Malapaga da un lato e con il Mandraccio dall’altro. Sul fronte mare si presenta a tenaglia con due bastioni laterali mentre il prospetto interno è costituito da un porticato classicheggiante a lesene doriche con fregi di armi e scudi della Repubblica. 

A completare il sistema difensivo insieme a quella principale del Molo, altre due porte minori: della Marinetta o Giarretta e di S. Marco accanto all’omonima chiesa.

“Porta Siberia in versione natalizia con i profili dei bastioni illuminati a festa e sullo sfondo la Ruota Panoramica”.

Legata alla costruzione della porta è la leggenda che narra di una delle versioni più note inerenti l’etimo della parola “massacan”: I manovali che stavano lavorando alla sommità dell’edificio videro in lontananza le navi turche pararsi minacciose all’orizzonte. Non solo furono i primi a lanciare l’allarme ma, al grido di “Ammassae, ammassae i chen”, si scagliarono coraggiosamente contro il nemico respingendo il saraceno invasore.

Sul fornice la lapide datata 1553 proclama:

“Dettaglio della lapide del Bonfadio”.

“Aucta ex s.c. Mole Extructaq / Poreta Propvgnacolo Mvnita  / Vrbem  Cingebant  Moenibvs / Qvacunque Allvitrur  Mari/ ann. MDLIII” (Per decreto del Senato, dopo aver prolungato il  molo , munita con difese, i cittadini cingevano  con mura la città lungo tutta la parte è lambita dal  mare). L’iscrizione è attribuita all’illustre storico ed umanista genovese Jacopo Bonfadio.

Secondo alcuni storici, l’origine del nome  sarebbe legata alla nobile famiglia dei Cybo illustre casata genovese che dette alla città un Papa, Innocenzo VIII e diversi cardinali e che proprio nel ‘500 ebbe il suo periodo di maggior splendore.

“Una delle celebri illustrazioni di Lele Luzzati in cui omaggia la sua Genova”.

Il nome “Cibaria”, storpiato poi nei secoli in “Siberia”, deriverebbe dal fatto che era il varco dal quale transitavano principalmente le merci di carattere alimentare destinate ai vicini magazzini dell’Abbondanza.

“La lapide in Via del Molo”.
“L’ottocentesca vera Porta Siberia”.

In realtà quella che si crede essere  la Porta Siberia corrisponde alla Porta del Molo, così chiamata anche ai tempi dell’architetto perugino. Nelle antiche mappe infatti, il nome Siberia compare solo nel 1869 ed è il varco, come attestato da relativa lapide in Via del Molo, aperto a metà dell’800 nei pressi di Calata Marinetta. Ne resta traccia nella costruzione lato mare che l’ha inglobata tra il Ristorante le Tre Caravelle e il Baluardo.

Da diversi anni la struttura della Porta del Molo, oltre a fungere da degna cornice per il museo e la Fondazione Luzzati intitolati ad Emanuele, il grande artista e scenografo genovese, scomparso nel 2007, costituisce spettacolare accesso al Porto Antico. Varcata la quinta… Genova sale sul palcoscenico…

I lavatoi della Repubblica…

… o della vergogna…

I Lavatoi, attualmente situati nei “Giardini Baltimora”, vulgo “Giardini di Plastica” vennero costruiti nel 1797, anno della fugace Repubblica Democratica, dall’architetto al quale devono il nome, Carlo Barabino.

In origine i trogoli, detti della “Marina”, erano collocati nel contesto di una zona densamente popolata e popolare, la via dei Servi, per soddisfare una reale esigenza di servizio pubblico. Si conservano due versioni del progetto: un bozzetto più lineare a tre luci, e un altro analogo a quello realizzato, ma coi grossi pilastri bugnati arricchiti di teste leonine. Al disegno è aggiunta una curiosa nota autobiografica che appare indicativa dello stato d’animo dell’autore: “Lavaderi delli Servi, fatti da me Carlo Barabino 4 n. 1797 fatto in tempo delli Birboni. Lavoro che mi è costato la perdita della quiete d’animo…”

“I Lavatoi nella originaria collocazione accanto alla scomparsa chiesa di S. Maria dei Servi”.

L’opera, ormai completamente decontestualizzata, sorgeva sul lato opposto della valletta del Rivotorbido, accanto alla chiesa di Santa Maria sulla Montagnola dei Servi, affacciata lungo l’asse continuo Borgo Lanaioli-via dei Servivia Madre di Dio.

“Scene di vita quotidiana nella contrada dei Servi. Incisione ottocentesca”.

 

“Sotto le Mura del Colle i Lavatoi immersi nel verde dei Giardini Baltimora”.

Oggi collocati sotto i resti delle Mura di Sarzano, dove un tempo erano altri truogoli, quelli del Colle, all’interno di un parco urbano concepito negli anni ‘70 del secolo scorso in luogo del preesistente quartiere di via Madre di Dio. Sulle macerie reali e morali di millenarie contrade scolpite nella pietra, sorge l’effimero e, dopo meno di 40 anni, già fatiscente centro direzionale dei Liguri. Il sito non ha mai preso vita rimanendo quotidiana memoria della barbarie commessa. Anzi negli anni ’80 era addirittura territorio tacitamente concesso ai tossicodipendenti, una sorta di ghetto a cielo aperto, in cui le aiuole dei giardini erano disseminate di siringhe e preservativi usati.
I lavatoi vennero infatti smontati nel 1979, durante la realizzazione del Piano Regolatore Generale di via Madre di Dio, un modo elegante per sancire la distruzione del quartiere e ricomposti sotto le mura di Sarzano, da Ignazio Gardella, progettista del parco urbano ivi previsto.

L’edificio, in stile neoclassico, presenta un impianto planimetrico lineare, ottenuto dalla ripetitività del modulo-base a pianta pressoché quadrata, e composto essenzialmente da un vano che ospita la fonte (oggi non collegata ad alcuna rete di approvvigionamento idrico) e da altri due locali accessori. La grande vasca rettangolare è situata al centro di uno spazio voltato a tre crociere; essa consta di un elevato in muratura portante intonacata (originariamente in pietra e mattoni ed in seguito ricostruito in elementi di calcestruzzo) concluso da un piano di lavoro in arenaria incisa a solchi paralleli e di una bocca di erogazione a grottesche di marmo collocata su una delle due testate. Gli altri due vani non attrezzati per il lavaggio dei panni sono coperti da volte a botte e comunicano soltanto con l’esterno attraverso grandi archi chiusi da inferriate. L’asimmetria della disposizione planimetrica è magistralmente bilanciata dalla risoluzione adottata nel prospetto: il ritmo seriale ed indifferenziato dei cinque fornici a tutto sesto, mediato da un fregio a triglifi, trova la sua naturale conclusione nel timpano triangolare. L’impostazione dei pilastri rastremati verso l’alto e trattati a bugnato rispecchia la formazione romana e classica di Barabino, così come l’uso della trabeazione dorica, dove con elegante raffinatezza è collocata la targa marmorea inneggiante al popolo sovrano:

“Le cancellate dei lavatoi”.

“Al Popolo Sovrano / Gli Edili / Libertà / Eguaglianza / l’Anno Primo della Repubblica Ligure Democratica / MDCCXCVII”.

“Sulla trabeazione è scolpita l’epigrafe”.

I lavatoi del Barabino sono rimasti per lungo tempo nel più completo degrado e abbandono, deturpati, sporcati, imbrattati e violentati dall’ignoranza e oblio altrui, talvolta dimora occasionale di qualche senzatetto. Recentemente, dopo insistenti segnalazioni, sono stati avviati i lavori di ripristino che prevedono, fra i vari interventi, la dotazione di grate anti intrusione e la pulizia dei marmi al fine di restituirli al loro primitivo decoro.

Il quartiere dei maiali…

Prima ancora dell’erezione delle mura del Barbarossa (1155) la zona di Soziglia era stata adibita alla macellazione delle carni. L’origine del nome significherebbe infatti “sus” maiale e “”ilium” isola, divenuto poi “eia” quartiere, Suzeia o Suxilia. L’isola prima e il quartiere dei maiali poi. Tale sito venne scelto perché, sia la lavorazione delle carni che l’operato dei fabbri del vicino “Campus fabrorum” in Campetto, necessitavano di parecchia acqua fornita dal sottostante Rio Bachernia.

“Il Barchile di Enea in Piazza Bandiera”.

Al centro della piazza di Soziglia si trovava un barchile del 1578 abbellito con una sinuosa sirena, realizzato da Taddeo Carlone. Troppo ingombrante, a detta degli abitanti del luogo, venne trasferito in Piazza Lavagna e la sirena ricoverata in un magazzino in attesa di essere ristrutturata poiché, causa le sassate dei  monelli del quartiere, si presentava mutila in più parti. La fontana, priva del suo ornamento, nel 1844 venne destinata in Piazza Fossatello. Intanto, nel 1726 lo scultore carrarese Francesco Baratta aveva ricevuto l’incarico di realizzare per la piazza, rimasta sguarnita, una statua con soggetto “la Fuga di Enea da Troia con il padre Anchise e il figlio Ascanio”. Il monumento nel 1870, in occasione dell’ inaugurazione del nuovo mercato della frutta vicino alla Nunziata, venne definitivamente trasferito in Piazza Bandiera, dove resiste tuttora assediato dalle automobili.

Nella piazza s’incontrano locali storici la cui fama si diffuse in tutte le principali corti europee:

“L’elegante vetrina di Romanengo”. Foto di Leti Gagge.
“Dettaglio della cornucopia”. Foto di Leti Gagge.

 Al civ. n.74r la Confetteria di Pietro Romanengo. Non v’era ricevimento infatti in cui non si degustassero, fra le tante celebri preparazioni, le gocce di rosolio e lo sciroppo di viole. Sul portale campeggia una guantiera colma di frutta candita con ai lati due putti. Al centro, fra le due vetrine, una cornucopia con fiori e frutta  sormontata da un elmo di Mercurio. L’azienda venne fondata nel 1780 in Via della Maddalena e si trasferì qui, nella nuova bottega di Soziglia, nel 1814. Preziosi e particolari gli arredi originali di quel periodo, specchiere e legni intarsiati, pavimenti in marmi policromi, lampadari e soffitti affrescati.

Al civ. n. 98r la Pasticceria Klainguti fondata nel 1828 da quattro fratelli svizzeri che erano giunti a Genova provenienti dalle valli intorno a St. Moritz, con l’intenzione d’imbarcarsi in cerca di fortuna oltreoceano. Ma l’America la trovarono a Genova dove esercitarono con profitto e passione la loro arte. La caffetteria è arredata fra il barocco e il liberty e, a testimonianza della propria storia, conserva orgogliosa un biglietto autografo di Giuseppe Verdi che decanta le virtù dei pasticcini “Falstaff” così battezzati dai proprietari in onore del famoso compositore.

“La Vetrina di Klainguti”.
“La dedica autografa di Giuseppe Verdi in cui il celebre compositore elogia i pasticcini, intitolati in suo onore Falstaff, di cui era ghiotto”.
“Madonna Incoronata o Mater Salutis, edicola a medaglione con Vergine in rilievo”.

Al civ. n. 10 ci s’imbatte nell’edicola della “Mater Salutis” un medaglione del 1854  posto a ricordo dell’epidemia di colera che colpì in quell’anno la città ma che risparmiò miracolosamente gli abitanti del palazzo su cui è affissa. Scolpita dal Cevasco si tratta dell’ultima edicola sicuramente datata innalzata nel centro storico.

 “Il Signore e gli Abitatori di Questa Casa / Cui Parve Grazia dell’Augusta Vergine Salutifera / Il Non Aver Compianto Persona  / Tocca Tra Queste Pareti dall’Indica Lue / Con Dispendio Comune il 31 Dic. 1854 / Qui Ne Allogarono La Cara Effige / Condotta da Gio. Batta Cevasco Valente Scultore / Perché Duri Memoria di Tanto Beneficio”.

“Il Palazzo della Dogana con l’Edicola di san Giovanni”. Foto di Leti Gagge.
“L’edicola di San Giovanni sul Palazzo della Dogana”.

Al civ. n. 116r sul palazzo che un tempo fungeva da dogana la grande edicola barocca di “San Giovanni Battista”. Sul timpano spezzato il Padre Eterno benedice i passanti con la mano destra  mentre con la sinistra regge un mappamondo. San Giovanni è invece raffigurato nell’atto di preghiera con ai piedi l’agnello di Dio. Quando nel palazzo si sviluppò un indomabile incendio vennero portate qui dalla cattedrale le ceneri del santo e le fiamme d’incanto si spensero. Ritenuta pertanto miracolosa questa  grande edicola  a tempietto è divenuta nei secoli oggetto di grande devozione. Alla sua base l’epigrafe: “Nostra Tutela Salve”.

“La Madonna della Misericordia”.

 All’angolo con Vico del Fieno la  secentesca Madonna della Misericordia, un’ altra edicola a tabernacolo classico, curvo spezzato con trigramma di Cristo, la cui mensola è sorretta da tre angeli. 

“Rivendita di stoccafisso”. Foto di Leti Gagge.

Proseguendo verso la Via e la Piazza dei Macelli di Soziglia, il “Fossatus Susiliae” sopra il rio sottostante si succedono botteghe alimentari di ogni genere in particolare rivendite di stoccafisso e baccalà, besagnini, drogherie, pescherie e, ovviamene, macellerie. Già prima del X sec. infatti, qui era il cuore di uno dei tre mercati di carne cittadini. Gli altri due si trovavano nel quartiere del Molo e in porto.

“Dettaglio con i personaggi del bancone della macelleria”
“I banconi della macelleria”.

A proposito di macellerie, all’angolo con Vico dei Corrieri, si incontra la rivendita di carni più patriottica d’Italia con un sontuoso bancone marmoreo intagliato con le figure dei personaggi protagonisti del Risorgimento. Da Garibaldi a Bixio, da Mazzini a D’Azeglio, (alcuni dicono Mameli, altri Cavour e La Marmora). In un angolo si notano la figura intera di Mercurio Dio del commercio e  il volto di una giovane donna incoronata a rappresentare l’Italia.

All’incrocio con Vico Lavagna colpisce una particolare rappresentazione della Madonna Assunta. In questo settecentesco dipinto  su ardesia la Vergine è raffigurata in volo sorretta da un gruppo di angeli. Poco più avanti, al primo piano, si possono notare le “mampae” le finestre con pannelli mobili riflettenti, espediente tipicamente genovese utilizzato per ottimizzare l’illuminazione degli interni.

“L’Edicola della Madonna della Città della Corporazione dei Beccai”. Foto di Leti Gagge.

Dal civ. n. 15r  fino al 25r sono ancora visibili sei archi tamponati, sede originaria dei mattatoi. All’incrocio fra via e piazzetta l’edicola della Corporazione dei Beccai recentemente restaurata. Un grande tabernacolo in stucco custodisce la settecentesca marmorea “Madonna di Città” che seduta, porta il Bambinello in braccio con due curiose teste di cherubini che spuntano dai drappeggi. Alla base un cherubino alato sorregge la mensola , ai lati due grandi angeli in soffici vesti, reggono il timpano curvo con la raggiera e lo spirito Santo. Ai piedi l’epigrafe: “Laniorum Ars Huius / Modi Deipare Simula / Crum Posvit Anno / Dni MDCCXXIV (1724)”.

“I colori di un besagnino sotto l’occhio vigile dell’edicola”.
“I palazzi sgomitano il loro spazio al sole”.
“La palazzata della piazza dei Macelli di Soziglia”.

In questa piazza dove le palazzate colorate si arrampicano le une sulle altre alla ricerca di un posto al sole,  non servono spiegazioni, bisogna solo ascoltare i suoni mediterranei delle parlate ed ammirare i  vivaci colori che i besagnini dipingono sui loro banchi, mischiati a quelli argentei pennellati dai pescivendoli. Infine occorre abbandonarsi, “In quell’aria carica di sale, gonfia di odori “ cantava Faber, agli invitanti aromi provenienti delle botteghe e respirare… Genova.

Genova febbraio 2017.

 

Clangore di spade…

Campetto e non Piazza Campetto, come erroneamente si dice, in origine era un rigoglioso orto addossato alle mura dell’antico castrum romano.

Fu nel 1155 con l’erezione delle poderose mura del Barbarossa che divenne snodo cruciale della nuova viabilità cittadina e sede di numerose botteghe artigiane. Il “campus fabrorum”, così indicato nelle antiche mappe, era la zona dei fabbri. Di conseguenza le contrade vicine presero toponimi legati alla lavorazione dei metalli e delle armi: Via degli Orefici, Vico Scudai e Vico degli Indoratori erano le fabbriche dove, fino al ‘600, si forgiavano le spade, gli scudi e le armature della Repubblica, prima che queste attività venissero trasferite nella zona fra la Maddalena e Strada Nuova in Vico del Ferro.

“Panoramica notturna di Campetto”. Foto di Leti Gagge.
“La statua di Ercole di Filippo Parodi”. Foto di Leti Gagge
“Palazzo del Melograno”. Foto di Leti Gagge.

Su Campetto si affacciano diverse prestigiose dimore quali, ai civ. n. 8 e 8a, il cinquecentesco Palazzo di Gio. Vincenzo Imperiale disegnato da Giovanni Battista Castello, detto il “Bergamasco”, una ricca magione patrizia affrescata da Luca Cambiaso e dal Bergamasco stesso; al civ. n. 2 il Palazzo Ottaviano Sauli, poi Casareto De Mari, a tutti noto come “il palazzo del Melograno”. Al suo interno, nell’atrio di un grande magazzino, la secentesca statua di “Ercole”, frutto della superba mano di Filippo Parodi e “la Madonna della Misericordia”, pregevole settecentesca creazione di Francesco Maria Schiaffino che, posta in una nicchia rinvenuta durante un restauro, ornava il “pregadio” privato della famiglia.

Al centro dello spiazzo il barchile con il fauno che suona la conchiglia. La fontanella risale al 1643 scolpita da Giovanni Mazzetti e un tempo si trovava nel quartiere di Ponticello, più o meno nella zona alla confluenza con Via Fieschi, occupata oggi da Piazza Dante. Prima di giungere in Campetto la scultura dal 1936 al 1990 venne spostata nel cortile minore del Ducale quando il Palazzo svolgeva le funzioni di Tribunale.

“La targa che omaggia G. B. Ottone”.

Sopra il civ. n. 1r una lapide marmorea ricorda il prezioso contributo di G. B. Ottone durante la rivolta anti austriaca del Balilla nel 1746. Il commerciante che aveva qui la sua bottega acquistò e distribuì a sue spese le armi e guidò l’insurrezione.

“La lapide in ricordo di Sir James R. Spensley”.

Ai civici n. 3 e 5 palazzi secenteschi i cui sbiaditi affreschi e i ricchi portali sono trascurata testimonianza di glorie passate.

“Antica cartolina in cui si nota, al centro, l’insegna dell’Albergo Unione”. Collezione di Stefano Finauri.

Al civ. n. 19r occupato oggi da un supermercato di alimentari sorgeva dal 1216 la piccola chiesa di San Paolo. Nel 1600 l’edificio fu destinato a convento dai padri Barnabiti poi, a fine ‘700 soppresso dagli editti napoleonici, trasformato prima in stalla, poi in macelleria in ultimo, fino al 1821, in teatro (“piccolo Teatro di Campetto”). Le colonne della chiesa furono smontate e riutilizzate per la facciata neoclassica della basilica delle Vigne. Alzando lo sguardo tra le corsie del supermercato e sbirciando dietro alle colonne è tuttora possibile ammirare brani di antiche pitture, stucchi e decori.

“Affreschi di Lazzaro Tavarone a palazzo Gio. Battista Imperiale”.

Al civ. n. 9 Palazzo di Gio. Battista Imperiale i cui sfarzosi affreschi sono ancora visibili lato Via di Scurreria, a fine ‘800 venne impiegato come albergo, il famoso “Albergo Unione”, allora alloggio privilegiato dai sudditi di Sua Maestà. Non a caso nell’atrio una lapide ricorda che vi soggiornò il Dott. James R. Spensley, fra i fondatori del Genoa CFC nel 1893 e padre dello scoutismo genovese.

Campetto è molto, molto più di una semplice piazza…

La Colonna Infame di Vico Tre Re Magi…

Il Vico dei Tre Re Magi prende il nome dall’omonimo Oratorio raso al suolo durante la seconda guerra mondiale.

L’Oratorio fu eretto nel 1365 e poi ricostruito in forme barocche nel 1611. Nei primi decenni del Novecento venne concesso a privati ed adibito a fabbrica di mobili. Alcune opere d’arte al suo interno sono state recuperate e conservate presso il vicino museo di S. Agostino, altre purtroppo, sono andate irrimediabilmente distrutte: degli affreschi di Lazzaro Tavarone, Luca Cambiaso e di Bernardo Castello di cui parlano gli storici dell’arte, non si ha più traccia.

Le vicende di questo edificio possono essere assurte ad emblema dell’ignoranza e della superficialità con cui i cementificatori del secolo scorso hanno gestito i beni comuni e distrutto interi quartieri dalla storia millenaria, cancellando le contrade dei Lanaioli, dei Servi, della Madre di Dio e della Marina.

Forse per questo gli abitanti del centro storico proprio qui, nel cuore di Sarzano, dove tutto un giorno ebbe inizio, hanno collocato la loro “Colonna Infame”.

Posta all’angolo con Via del Dragone (nello spiazzo dietro l’abside di S. Agostino) nella prima parte omaggia la più celebre descrizione della nostra città:

“… Arrivando a Genova / Vedrai Dunque / una Città Imperiosa, / Coronata da Aspre Montagne, / Superba per Uomini e per Mura, / Signora del Mare/ Francesco Petrarca 1358, a Cura dei Genovesi / del Centro Storico / Giugno 1990

Sotto prosegue…

“Male non Fare / Paura non Avere”. 1945 1981 – A Vergogna dei Viventi e a Monito / dei Venturi Come Usava ai Tempi / della Gloriosa Repubblica di Genova / Dedichiamo Questa / Colonna Infame / all’ Avidità degli Speculatori / e alle Colpevoli Debolezze / dei Reggitori della Nostra Città. Con Vandaliche Distruzioni Hanno / Cancellato Tesori di Arte e di Storia / Eliminando Interi Quartieri / del Centro Storico Marinaro ed Artigiano / Deturpando per Sempre la Fisionomia / della Città fino all’Inaudito Gesto / di Demolire la Casa Natale di Nicolò Paganini. Essi Hanno Così Disperso la Popolazione / di Questi Quartieri con l’Infame / Risultato di Sradicare le Fiere Tradizioni / che Fecero Genova Rispettata e Potente.

I Genovesi dei / Quartieri della. “Marina” / “Via Madre di Dio” / “Via del Colle” / “Portoria” / “Sarzano e Ravecca”.

… alla base della colonna, conclude poi con le amare parole di un grande musicista:

“Non ci Sarà Mai Più un Secondo Paganini” / Franz Liszt.

“La lapide posta sotto l’edicola della casa natale di Nicolò Paganini in Vico Gattamora”.

A proposito di Paganini in Vico Gattamora sotto l’edicola che ornava la casa natale del celebre violinista era affissa una lapide che recitava:

“Alta Ventura Sortita ad Umile Luogo / in Questa Casa/ il Giorno XXVII di Ottobre dell’Anno MDCCLXXXII / Nacque / a Decoro di Genova a Delizia del Mondo / Nicolò Paganini / nella Divina Arte dei Suoni Insuperato Maestro”.

Nostra Signora del Monte…

Sulla collina di San Fruttuoso si staglia il santuario di Nostra Signora del Monte, uno dei luoghi di culto più amati e frequentati dai genovesi.

“Il santuario di Nostra Signora del Monte”.

In origine, prima dell’anno mille, sul monte si trovava una piccola cappella votiva ma fu solo durante il XII sec. che si deliberò, così annota un antico atto notarile, la costruzione di un edificio molto più imponente.

La  versione in cui tuttora lo possiamo ammirare, che domina e protegge le alture, risale alla prima metà del ‘600. Fra il 1601 e il 1658 infatti subì una radicale ristrutturazione in stile greco-romano. Il progetto e gli affreschi della volta della navata principale sono di Giovanni Andrea Ansaldo, l’altare maggiore, in marmi policromi, è frutto della conclamata maestria dei fratelli Giovanni e Giovanni Battista Orsolino.

Durante l’assedio austriaco del 1746 il convento, in virtù  della sua strategica posizione, venne difeso strenuamente dai soldati della Repubblica che respinsero gli invasori.

“Vista mare dal sagrato”.

Secondo la tradizione, a seguito di strane apparizioni luminose, la Madonna in persona si sarebbe manifestata ai fedeli a partire dal 1440 con reiterate apparizioni anche nel ‘500.

Da allora il santuario venne intitolato dai francescani alla Madonna del Monte e divenne oggetto di pellegrinaggi ed ex voto di carattere, soprattutto, marinaresco.

Tale Madonna con immancabile Bambino venne rappresentata da una statua  lignea quattrocentesca, oggi ricoverata nella cripta, dell’artista senese Francesco Valdambrino. Al suo interno le cappelle vennero concesse in patronato a nobili famiglie patrizie quali Saluzzo, De Ferrari, Salvago, Adorno, Grimaldi, Fieschi, Negrone. Qui vennero sepolti tre dogi appartenenti a quest’ultima casata: Bendinello, Domenico, e G. Battista. Le tre tombe si trovano nella quarta cappella della navata di destra, quella detta di “S. Anna” perché un tempo, fino al 1812, custodiva il braccio della santa. La preziosa reliquia, dopo varie peripezie, a metà del ‘400, era stata qui ricoverata per sfuggire alle razzie dei turchi, proveniente dalla colonia di Pera. La santa viene qui effigiata in una pala d’altare opera di Domenico Fiasella.

“Sul risseu del sagrato i simboli della Madonna, dei francescani e lo stemma della Repubblica di Genova”. Foto di Leti Gagge.

 

Da qui si accede al secentesco chiostro  e alla sala degli ex voto. Nella cappella dei Salvago è possibile ammirare un pregevole polittico di un “Annunciazione” della seconda metà del ‘400 di mano anonima, in quella a destra del presbiterio, una notevole “Natività” di G.B. Carlone.

Da una porta in fondo alla navata di sinistra si accede alla sacrestia, locale in cui sono conservate opere d’arte che arricchirebbero la collezione di qualsiasi museo: tre dipinti, “S. Francesco d’Assisi”, “S. Antonio da Padova” e “S. Caterina da Siena”, di Bernardo Stozzi, una tela “L’albero di Jesse”, di Andrea Semino, una “Annunciazione”, di Giovanni Andrea Ansaldo e una “Flagellazione”, di Sebastiano del Piombo. Nel refettorio del convento, oltre ad un pulpito di ardesia, intarsiato con figure di Madonne e santi francescani, è possibile ammirare una splendida “Ultima Cena” del 1641, di Orazio De Ferrari, uno dei tanti insuperati maestri del ‘600 genovese, recentemente riportato agli onori dalle recensioni di Vittorio Sgarbi.

“Il sagrato in risseu”. Foto di Leti Gagge.

Affissa fuori sul sagrato della chiesa c’è poi una curiosa lapide che rammenta una battuta di caccia avvenuta il 2 agosto del 1785. Protagonista di tale targa è il re delle Due Sicilie Ferdinando IV di Borbone che, proprio come il “Geordie” di Faber, uccise tre cervi nei boschi ai piedi del monte.

Ultima curiosità al santuario si deve anche il nome dell’omonimo amaro, un digestivo a base di 36 erbe e spezie, preparato per secoli dai frati del convento. Sul finire dell’800 la ricetta dell’Amaro di Santa Maria al Monte, inalterata dal 1858, è stata affidata e brevettata dall’esperto liquorista Nicola Vignale. La produzione  è stata dislocata a distillerie esterne ed è oggi acquistabile in qualsiasi rivendita.

“Antica cartolina del santuario”.
“La creuza in salita di accesso al sagrato”.

Dal santuario si gode di un invidiabile panorama e di un punto di vista privilegiato. Genova onora la Madonna e si mostra in tutta la sua bellezza… forse per questo un tempo ogni nave che entrava in porto le rendeva omaggio sparando un colpo a salve di cannone!

“Il Cielo in una stanza”…

… Storia di predoni… di banditori… di catapulte… di cantautori…di case chiuse…

Varcato l’imponente accesso di Porta Soprana a sinistra si sale verso Via Ravecca, dritto si scende verso Salita del Prione e a destra si procede lungo Via di Porta Soprana. Tra queste ultime due, sul piano di S. Andrea, ci si imbatte in un anonimo caruggio, uno stretto vicolo dal curioso toponimo: Vico delle Carabaghe.

Un tempo fino agli anni ’50 del ‘900, come testimoniato dai versi di Camillo Sbarbaro e dai racconti di Remo Borzini e Giancarlo Fusco, questa era una contrada affollata di rinomate case di tolleranza.

Non si sa se l’origine del nome “Carabaghe”  ovvero il calarsi le braghe di popolare memoria sia dovuta alla vocazione erotica del quartiere oppure se sia legata all’etimo della vicina Salita del Prione dove, a far calare le braghe, erano invece i predoni. Secondo alcuni storici infatti il toponimo deriverebbe dal latino barbaro “Predoni Castri”, poi “Montata Castri” che stava ad indicare la pericolosità del luogo, in mano ai briganti.

Altri studiosi propendono invece per  un’altra versione che nulla avrebbe a che fare con quanto sopra affermato. In cima alla salita era posta una grossa pietra, “Prion”, sulla quale il cintraco, il banditore urlava i suoi proclami alla cittadinanza.

Quasi sicuramente invece l’interpretazione corretta deriva dal cinquecentesco utilizzo di piccole catapulte, denominate “calabrage”, che servivano per lanciare, sul nemico, oltre le mura, sassi di piccole dimensioni. Gli strumenti bellici venivano quindi, data la vicinanza alla Porta, ricoverati nell’attiguo caruggio che perciò ne assunse il nome, mutato nel tempo, in “carabaghe”.

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Salita del Prione. Foto di Giovanni Cogorno,

Al di là dei dibattiti sulla genesi della denominazione pochi sanno che in Vico dei Castagna, in fondo a Vico delle Carabaghe, il cantautore Gino Paoli trasse ispirazione, durante un suo incontro passionale, dalle pareti viole di un bordello, per scrivere la celeberrima “Cielo in una stanza” portata in auge da Mina.

Così, dall’amor profano e carnale, è nato quello romantico e poetico di “quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti, ma alberi, alberi infiniti…”