Il Provinciale “Genova è una canzone”.

Ieri sera su Rai Tre è andata in onda la puntata condotta da Federico Quaranta del “Provinciale il racconto dei racconti”.

La puntata dal titolo “Genova è una canzone” ha avuto appunto come tema principale il rapporto di Genova con la musica.

Ancora una volta il giornalista genovese ha colto nel segno fornendo un racconto appassionato e coinvolgente della sua città.

Le meravigliose immagini riprese dei droni hanno saputo accompagnare in modo emozionante la narrazione che ha preso a spunto la canzone d’autore per descrivere una Genova più autentica e fuori dai soliti luoghi e percorsi comuni.

Vero De André, come al solito è stato protagonista principale, ma anche Bindi, Tenco, Paoli e Lauzi hanno avuto tuttavia un loro spazio adeguato.

Grazie al contributo di Morgan e delle testimonianze degli altri artisti che hanno vissuto quel periodo cosi fecondo si è sfatato il mito dell’esistenza della Scuola Genovese.

Si è trattato dunque di un periodo di particolare fermento artistico che ha favorito lo sbocciare quasi simultaneo di tante singole irripetibili personalità, sviluppatesi in totale autonomia agevolate, questo si, dalla comune frequentazione con i fratelli Reverberi.

Federico Quaranta con Genova sullo sfondo ripresa dai monti alle sue spalle.

Ma Genova non è solo l’espressione dei suoi cantautori o il sarcasmo dei suoi comici.

Genova è anche la variegata umanità dei suoi caruggi, l’inarrivabile opulenza dei suoi palazzi, l’orgoglio della sua gloriosa storia millenaria, il coraggio dei suoi naviganti, la forza dei suoi camalli, l’intraprendenza dei suoi marinai e la laboriosità del suo porto.

Genova è schiva come il carattere dei suoi abitanti e Superba non nel senso di altezzosa, bensì in quello teorizzato da Caproni di rivolta verso l’alto con le case arroccate le une sulle altre, aggrappate sugli scogli in perenne tensione tra la montagna e il mare.

Perché Genova che del mare è Regina ha in quell’azzurro infinito orizzonte il respiro, nei forti sui monti che la cingono corona e nella sentinella della Lanterna, lo scettro.

E tutto questo, a differenza di Augias, Colò e Angela figlio, Federico Quaranta oltre a saperlo bene è riuscito anche a trasmetterlo con la passione dell’innamorato.

In Copertina: tramonto genovese.

Il Presepio genovese

La tradizione presepiale a Genova vanta una storia antichissima.

Della rappresentazione della Natività di Gesù Cristo infatti si ha notizia in città a partire dal XVII secolo quando in Santa Maria di Castello era già era attiva una Compagnia del Santo Presepio.

Si sa anche che al maestro intagliatore Matteo Castellino di suddetta Confraternita vennero commissionate diverse figure lignee destinate alla chiesa di San Giorgio.

A partire dunque dal XVII secolo a Genova è tutto un fiorire di botteghe di artisti del legno.

Sbocciano così i grandi maestri della scuola genovese quali, in ordine sparso, Bissone, Navone, Maragliano, Casanova, Storace, Ciurlo, Pittaluga, Pedevilla e tanti altri scultori che ne hanno così, con il loro talento, nobilitato la storia.

Oltre all’ambientazione legata al territorio il presepe o presepio genovese, per lo meno nella sua versione più antica, è caratterizzato dalla rappresentazione dei Magi a cavallo e non sui cammelli, dalla presenza del personaggio del mendicante e da quella del pastorello vestito di jeans.

La differenza sostanziale ad esempio tra le statuine genovesi e quelle partenopee consta nei materiali usati per animare i diversi personaggi, le genovesi avevano il corpo, la testa e le membra in legno intagliato e scolpito mentre le napoletane avevano il corpo in canapa  con le mani, i piedi e le teste in terracotta dipinta.

Per chi fosse interessato qui sul sito potrete trovare nella sezione racconti la descrizione di alcuni dei principali presepi cittadini.

«Il presepio è il trionfo dei genovesi»

Cit. Henry Haubert (1877-1940),” Città e genti d’Italia“. Sociologo francese.

In Copertina: Una delle scene del Presepe della Madonnetta forse il più famoso e affascinante presepe genovese. Foto di Stefano Eloggi.

Trallalero de l’erbo (l’albero di Natale genovese).

A Genova il Natale ha sempre avuto la sua massima espressione nella tradizione presepiale frutto, a partire dal XVII secolo, della maestria di grandi artisti quali Bissone, Navone, Maragliano, Casanova, Storace, Ciurlo, Pittaluga e Pedevilla e tanti altri che ne hanno nobilitato la produzione.

Ma nella Superba si addobbava anche l’albero, non un abete ad imitazione dei paesi del Nord Europa, bensì una più comune e mediterranea pianta di alloro per noi, come testimoniato dalla cerimonia del Confeugo, simbolo di prosperità.

Ne fa menzione un antico trallalero (canto popolare ligure) intitolato “Trallalero de l’erbo” in cui si racconta come l’albero genovese venisse addobbato con i natalin, detti anche mostaccioli o maccaroin (maccheroni in genovese), con i fichi, le arance, i mandarini e tanta frutta secca, il tutto legato ai rami con dei nastrini bianco rossi (I colori di San Giorgio e della città).

Ecco il testo della simpatica filastrocca che si dovrebbe tornare a proporre, al fine di tramandare la tradizione, nelle scuole dell’infanzia e primarie.

Trallalero là là, trallalero là là.

Trallalero là là, trallalero là là

Pe fâ un’erbo a dovéi

voéi savi cöse ghe veu?

Ghe veu tanti maccaroin

Quelli lunghi, quelli fin.

Poi se ligan cö spaghetto

gianco e rosso, pe caitae,

perché questi son i colori.

I colori da çittae.

Trallalero là là, trallalero là là…

Pe fà l’èrbo ancon ciù bello

Gh’ppendemmo i mandarin, 

I çetroin, e fighe, e noxe,

I candì e i torroni.

Oua l’èrbo o l’è jaeto

Poi veddilo anche vôi

sciù ciocchaeghe un bell’applauso

Meglio ancon se na fake duì

Trallalero là là, trallalero là là…

Traduzione

Per fare un bell’albero

Sapete cosa occorre?

Occorrono tanti maccheroni

Quelli lunghi sottili.

Poi si legano col nastrino

Bianco e rosso, mi raccomando!

Perché questi sono i colori, i colori della città

Per fare l’albero ancora più bello

Vi appendiamo i mandarini

Le arance, i fichi, le noci

I canditi e i torroncini

Adesso l’albero è fatto

Potete vederlo anche voi

Sù, fategli un bell’applauso

Ancora meglio se ne fate due.

Allego qui la moderna rivisitazione del brano “O Trallalero de l’erbo:.Versciòn cantâ da quelli “Da-i bricchi a-o mâ” e da Mike FC. Aogûri!

https://fb.watch/p1z_y8-GZx/

In Copertina: L’albero di Natale genovese allestito accanto allo scalone nel cortile di Palazzo Tursi (Comune di Genova), a cura della compagnia dei bambini della Scuola Di Negro Chiabrera e Scuola Padovano de Scalzi. Natale 2022.

Il Presepe nel bosco incantato

Viganego è un piccolo borgo della Val Lentro che nel territorio di Bargagli risale i monti lungo una strada che si stacca dalla statale 45.

Qui grazie allo straordinario impegno di un gruppo di volontari della locale Confraternita di San Bartolomeo è possibile godere delle meraviglie dello spettacolare presepe allestito nel bosco.

Il suo ideatore fu Mino Tondo che, circa 16 anni fa, con l’aiuto di alcuni amici lo realizzò con strutture in pietra proprio nello spazio verde attiguo all’oratorio di San Bartolomeo e alla chiesa di San Siro.

Tipico casolare con fienile e legnaia.
Sbirciando da una finestra una vecchina è intenta a cucire.
Scene di vita quotidiana.
La Locanda
L’Osteria.

Così lungo il percorso si dipanano le varie scene: pescatori sui colorati gozzi intenti a raccogliere le reti in un placido lago sovrastato sa un ponte ad arco sopra la cascata; sotto un’altra cascata ecco la ruota di un mulino attivarsi per macinare grano, granoturco e castagne; non può poi mancare il frantoio con i contadini che vi portano ceste colme di olive. Le immagini, più di ogni altro commento, parlano da sole,

Il borgo di pescatori sul lago.
Il Frantoio.
Botteghe di artigiani.
I Re Magi attraversano il ponte.
La Natività.

Case, fienili, fontane, stalle, locanda, botteghe e laboratori artigiani, pascoli e paesaggi rocciosi sono magistralmente riprodotti in un naturale connubio tra pietra e legno.

Come nel caso dello scenografico ponte che attraversa le rocce sopra l’acqua che scende da una cascata e conduce i tre Re Magi verso la capanna della Natività, al di là di un pascolo di greggi.
Il presepe è stato aperto al pubblico per la prima volta sedici anni fa, ma oggi l’ideatore e costruttore di questo affascinante e originale scenario non c’è più, scomparso nel 2009. Si chiamava Cosimo, per tutti Mino, Tondo appassionato cultore della storia dei presepi e geniale artefice di tutte le costruzioni in pietra di quello di Viganego.

Accanto alle sue magnifiche casette avrebbe voluto realizzare anche un campanile, ovviamente in pietra, per le antiche campane di San Siro perché la chiesa parrocchiale ricostruita non ha campanile. Mino Tondo purtroppo non ha fatto in tempo a mettere in pratica il suo ultimo sogno, però ha regalato al presepe un altro tocco di magica suggestione con l’affascinante castello merlato a tre torri, curatissimo in ogni dettaglio, compreso l’interno con la grande tavola pronta per il castellano e allietata dai musici.

La sala da pranzo del Castello
Dettaglio della tavola imbandita con i musici.

Le statuine invece, essendo di varia provenienza e di recente fattura, non hanno particolare rilevanza.

Insomma il Presepe di Viganego merita assolutamente una visita!

Testo liberamente interpretato dal testo di Roberto Gazzo della Confraternita di San Bartolomeo di Viganego.

Il Presepe di Pentema

Pentema è una frazione di Torriglia (Ge) nota per il suo pesto bianco e soprattutto per il suo celebre presepe.

Il borgo di Péntema che si trova alle falde del monte Antola, è un agglomerato di abitazioni fitte che si allungano sul declivio, dominate dalla grande chiesa, tra muretti a secco e strette viuzze di pietra, sulle quali affacciano i balconi coperti tipici dei paesi dell’entroterra.

In questo suggestivo scenario è stato allestito un presepe contadino che racconta momenti di vita quotidiana dei nostri antenati ricostruiti a grandezza naturale con grande cura e realismo.

Antichi mestieri.

Ed è così che le strade del paese si popolano di personaggi fedelmente riproposti anche nei volti degli abitanti di un tempo; i pastori, il falegname, l’ortolano, il fabbro, il cestaio, il barbiere, il ciabattino, il magnano (ovvero il ferramenta di un volta) diventano protagonisti del loro stesso passato.

Momenti di vita quotidiana e preparazione delle castagne.

I volti delle figure -racconta Don Cazzulo- sono stati infatti scolpiti da un artigiano del paese riprendendo i tratti dei compaesani del passato e, per allestire le 40 scene realizzate nel corso di 27 anni, occorrono due mesi di duro e appassionato lavoro.

A completare la narrazione del tempo che fu è presente un piccolo centro multimediale che, corredato di foto d’epoca e un filmato in DVD, racconta la storia di questa vallata.

Giocatori di carte all’osteria.
Seduti al tavolo da pranzo in cucina.
Il Calzolaio
Materassai.
Lavandaie ai troeuggi.
La scuola.

In Copertina: la Natività. Foto di Antonio Corrado.

Salita Cavallo e Salita Accinelli… una macabra storia…

Nel quartiere di Castelletto da Corso Firenze dopo Piazza Villa si imboccano le Salite Accinelli e Cavallo.

La prima intitolata al sacerdote Francesco Maria illustre storico e geografo genovese del ‘700.

La seconda dedicata invece ad Emanuele capitano ed eroe, insieme al più celebre Andrea Doria, della leggendaria impresa della Briglia.

Salita Accinelli. Foto tratta dall’Archivio fotografico del Comune di Genova.

Ad inizio ‘500 queste due strade che si chiamavano Monta dell’Agonia (Salita Cavallo) e Monta della Morte (Salita Accinelli) erano le uniche creuze attraverso le quali era possibile giungere alla zona preposta alle impiccagioni del Castellaccio.


I condannati le percorrevano entrambe: da vivi la prima all’andata, e da cadaveri la seconda al ritorno.

In Copertina: Salita Emanuele Cavallo. Foto di Antonio Corrado.

Gli Offiçieu

«Davanti ai negozi
de tûtti i speziæ,
esposti in bell’ordine
pe mettine coæ
gh’è un mûggio asciortio
de belli offiçieu
delizia, sospio
de tanti figgieu»

(Nicolò Bacigalupo 1837-1904). Poeta e drammaturgo genovese autore, fra l’altro, di alcune celebri commedie di Govi.

I versi del poeta ci regalano un nostalgico spaccato delle tradizioni dei nostri nonni quando bastava un offiçieu per far contento un bambino e la festa di Halloween apparteneva solo al mondo anglosassone.

Gli offiçieu sono delle candele con un lungo cerino bianco, colorato e decorato da un sottile filo argenteo, piegato più volte fino a conferire la caratteristica graziosa foggia -appunto- ad officiolo (libretto per la recita dell’ufficio dei Morti).

Successivamente vennero aggiunte le forme a scarpette, cappellini, fiaschette, cestini e borsine fino alle più fantasiose recenti rappresentazioni.

Sugli offiçieu si appoggiavano i santini o le immaginette religiose e venivano utilizzati sia per i rosari in casa che per le funzioni serali nelle chiese durante il periodo compreso tra la novena dei morti (24 ottobre) e la commemorazione dei defunti.

L’origine degli offiçieu è incerta. Probabilmente i primi a realizzarli furono le suore di un convento femminile della Val Fontanabuona zona dove infatti quest’antica usanza resiste.

Di certo gli offiçieu, noti anche come  òfiçieu, öffiziêu cambiano nome a seconda della zona ma sono patrimonio comune di tutta la Liguria.

A Chiavari si chiamano muchetti, libaeti nel levante ligure e ceiotti ad Imperia e nel ponente.

In Copertina: Offiçieu. Foto di Anna Daneri

Palazzo dei Mattoni Rossi

Tra Piazza Cavour e via delle Grazie si trova il vico dei Mattoni Rossi che da il nome anche al principale palazzo che vi si affaccia.

Curioso l’equivoco che si è generato in relazione alla genesi del toponimo che non è, come invece erroneamente ritenuto, legato al colore del laterizio.

L’origine corretta del sito rimanda infatti ai nomi delle famiglie Rossi e Matoni che abitavano un tempo in loco.

L’associazione ai mattoni rossi intesi come elemento cromatico è dunque dovuta all’arbitraria annotazione di un burocrate piemontese ottocentesco che contribuì così a creare confusione.

Chissà se l’architetto che sul finire del secolo scorso si è occupato della ricostruzione è caduto anch’egli nell’equivoco o vi ha giocato caratterizzando appunto l’edificio con tanti bei mattoncini rossi?

In Copertina: l’edificio dei Mattoni rossi sito nell’omonimo vico.

Il Forte di Santa Tecla

Sullo spiano della collina a 180 mt. s.l.m. nel 1100 sorgeva una piccola chiesa dedicata a Santa Tecla.

La zona nel ‘300 divenne proprietà del doge Simone Boccanegra che qui eresse alcuni suoi edifici. Fra questi Il castello è ancora oggi visibile, utilizzato come suggestiva quinta per eventi e congressi, nei giardini dell’ospedale San Martino.

Nel 1747 dopo lo scampato pericolo dell’assedio austriaco Genova sentì l’esigenza di rafforzare e puntellare l’ormai obsoleta secentesca cinta muraria con un sistema di nuove fortificazioni.

Il Forte di Santa Tecla fu uno dei primi quattro forti (insieme al Richelieu, al Quezzi e al Diamante, ad essere progettato.

Il camminamento di ronda. Foto dell’autore.

La costruzione fu iniziata nella seconda metà de Settecento e quasi subito interrotta. Proseguita con scarsi risultati in età napoleonica e portata avanti, fino al completamento (con modifiche al progetto) dopo l’annessione di Genova al Regno di Sardegna 1815.

Alle strutture edificate inizialmente infatti fu integrata una ridotta casamatta. Tale ridotta su due piani era destinata a quartiere e presidio per i soldati, locale per la Cappella, Santa Barbara (polveriera), corpo di guardia, alloggio per gli ufficiali, prigioni, magazzini per legna e provviste alimentari.

Il camminamento con le fuciliere rivolte alla piazza d’armi. Foto dell’autore.

Durante l’assedio austriaco del 1800 passato alla storia per la stoica resistenza del generale nizzardo Massena comandante della Piazza di Genova, il forte faceva parte dei cinque contraforti previsti al presidio del settore orientale della città.

In proposito annotava il Tiebalt:

“Il secondo controforte è quello, su cui si trova il Forte di Santa Tecla, la cui costituzione non è finita, ma che con un grande sforzo in pochi istanti può esser posto al coperto degli insulti, e fare grande effetto su tutte le parti della posizione di Sturla e di Albaro. Questo Forte vede tutti i rovesci del primo contro forte, tutte le ondulazioni dei contorni di Albaro, tutti i rovesci della Madonna del Monte, che sarebbe pericolosissimo lasciare occupare, e finalmente assicura la comunicazione della Piazza col Forte Richelieu”.

La piazza d’armi durante la rievocazione storica del 13-14 Maggio 2023 dell’assedio del 1800. Foto del Prof. Emiliano Beri.

Dopo aver resistito di nuovo agli austriaci, sotto il governo sabaudo ad opera del Corpo del Genio Sardo, il forte nei primi decenni del secolo venne ristrutturato, rafforzato e ampliato con la costruzione della caserma centrale.

A questo periodo risale appunto l’affissione sul varco principale dello stemma dei Savoia.

Lo stemma dei Savoia con il sottostante nome del forte. Foto dell’autore.

Cannoni e figuranti in divise dell’esercito napoleonico durante la rievocazione storica del 13-14 Maggio 2023 dell’assedio del 1800. Foto del Prof. Emiliano Beri.

“Ha un tracciato a doppia opera a corno, con i mezzi bastioni rivolti a nord e sud che vanno a formare due tenaglie rivolte a est e ovest. Particolarmente interessanti le casematte per artiglieria dei due mezzi bastioni rivolti a nord e il cavaliere sulla cortina che le collega.
Fa parte della linea di difesa orientale della piazzaforte formata dai forti San Giuliano, San Martino, Santa Tecla, Richelieu e Monteratti (ciascuno in posizione dominante rispetto a quello che lo precede) e completata, in posizione arretrata a copertura del suo fianco nordoccidentale, dal forte Quezzi e dalla torre Quezzi (un torrione casamattato).” Prof. Emiliano Beri.

Concepito su tre ordini concentrici di mura poteva ospitare nella conformazione ordinaria circa cento soldati che alla bisogna potevano aumentare fino ad oltre quattrocento unità.

Nel 1849 durante i moti insurrezionali contro i Piemontesi fu per un breve tempo occupato dai ribelli e subito recuperato dagli oppressori sabaudi.

Durante la prima guerra mondiale rivestì anche la funzione di carcere per i prigionieri austriaci.

Gendarme napoleonico in uniforme di ordinanza. Foto dell’autore.
Gendarme napoleonico in uniforme da parata mentre carica il fucile. Foto dell’autore.

Abbandonato dai militari nel dopoguerra fu fino agli anni ’80 abitato abusivamente da sfollati ed emigrati.

Oggi il forte è fruibile grazie all’opera dei volontari dell’associazione Rete Forte di Santa Tecla che si occupa del mantenimento e della valorizzazione della struttura. Fra gli ambiziosi progetti futuri oltre ad alcuni importanti interventi conservativi, la volontà di bonificare e attrezzare l’area esterna antistante per renderla uno spazio verde godibile da tutti.

Il forte visto dall’acceso di Salita Superiore di Santa Tecla. Foto di associvile.it
Il forte dall’altro lato. Foto associvile.it
Panorama sul ponente citta. Foto dell’autore

In Copertina: Il Forte di Santa Tecla. Foto del Prof. Emiliano Beri.

Fonti: Mura e Fortificazioni di Genova di Carlo Dellepiane.

Sito del Forte: retefortesantatecla.it

Porta delle Chiappe

Sul lato di levante delle Mura Nuove erette nel 1637, subito dopo il Castellaccio, è situata la Porta delle Chiappe (o di S. Simone). Il Brusco indicava il tracciato di una «strada che conduce alla Baracca del Puin, alla Torrazza e a Croce d’Orero».

In origine, come indicano chiaramente i disegni del Codeviola, la Porta esterna di S. Simone non aveva ponte levatoio, ma una semplice rampa in legno, posta a passerella che conduceva al piazzale esterno; nelle successive trasformazioni del XIX sec. l’intero piano della galleria fu abbassato di circa m. 1,30 e di conseguenza furono abbassate le arcate dei due portali estremi. Su quello esterno, incorniciato da un arco in pietra, fu sistemato un ponte levatoio di cui rimangono solamente i fori per il passaggio delle catene di sollevamento. I due stipiti della Porta furono rinforzati da due paraste in mattoni che salivano verticalmente fino alle mensole della garitta. Infine l’intero piano superiore fu demolito e spianato per permettere il passaggio della strada militare, che doveva proseguire senza interruzioni, lungo i rampari del Bisagno fino allo Sperone.

Tratto da “Le Fortificazioni di Genova” di Leone Carlo Forti)

In Copertina: Porta delle Chiappe. Foto di Giovanni Cogorno.