Un incontro visionario…

Ci incontriamo a pochi passi dalla sua casa natale alla Liquoreria Marescotti in via Fossatello.

Mazzini siede composto, lo sguardo profondo e vigile, ordina una fetta di torta alle mandorle, la sua preferita. Io invece consapevole di trovarmi davanti alla storia, per farmi coraggio, sorseggio un Lagavullin.

Casa natale di Mazzin in Via Lomellini 11. Dal 1915 Museo del Risorgimento. Foto dell’autore.

Maestro -rompo il ghiaccio io- cosa si prova a tornare a casa, dopo tanto esilio?

Tanta emozione e riconoscenza verso questa città che molte volte mi ha protetto.

Come quella volta quando durante la rivolta del 1857 mi rifugiai, braccato dalla polizia sabauda, in Vico delle Monachette. In quel dedalo di vicoli angusti e ostili ai foresti, mi sentivo al sicuro.

Suo padre, se non erro, era medico, vero?

Sì, si chiamava Giacomo.
Un uomo tutto d’un pezzo, di poche parole e mani sicure, caratteristiche queste proprie di noi genovesi. Ricordo che, da bambino ogni tanto, lo accompagnavo nelle visite ai poveri.
Non prendeva mai denaro da chi non poteva pagare.
Una volta curò un vecchio marinaio che non aveva neppure le scarpe.
Quando uscimmo, gli dissi: “Papà, non ti ha dato niente.”
Lui mi rispose: “Mi ha dato la fiducia. E quella, Pippo, vale più di qualunque compenso ”

183 North Gower Street, Bloomsbury, la dimora londinese di Mazzini. Foto dal web.

Credo di aver compreso quel giorno con il suo esempio cosa significhi essere fedeli a se stessi e servire una causa.

Il suo sguardo si allontana all’orizzonte come se stesse rivivendo la scena poi riprende a guardarmi negli occhi con quella franchezza austera che solo i grandi idealisti e le coscienze pure possono permettersi.

Sua madre Maria Drago -riprendo emozionato il filo del discorso- le fu sempre vicina, anche da lontano, seguì con grande partecipazione le sue vicissitudini.

Sempre.

I suoi consigli, anche se a volte non li ho seguiti, sono stati preziosi per me.
Le sue lettere erano la mia patria quando non ne avevo una.
Mi chiamava “Giuseppino”, anche quando il mondo mi chiamava traditore.
Ogni parola sua era una carezza di Genova che mi arrivava fino a Londra, in Svizzera o ovunque mi trovassi.

Maria Drago, la madre che scrisse al figlio più di cento lettere, senza mai rimproverarlo davvero.
E Giacomo, il padre che gli insegnò a curare senza chiedere nulla in cambio.
Da loro nacque un visionario che avrebbe tentato di guarire un popolo intero e di dare un’identità unitaria a tutto un continente. Chimere ancora oggi ben lontane dall’essere realizzate.

Monumento dedicato a Mazzini in Piazza Corvetto. Realizzato nel 1882 dallo scultore Pietro Costa. Foto di Antonio Corrado.

Ci alziamo dal tavolino, la torta non sarà stata buona come quella che gli preparava la mamma, ma di certo gli è piaciuta e proseguiamo la nostra chiacchierata passeggiando in direzione del Porto Antico.

Eppure, Maestro, la sua vita è stata piena di fughe, arresti, processi e delusioni. Non si è mai chiesto se ne valesse la pena?

Ogni notte, sì. Ma poi guardavo le stelle.
Sono le stesse che brillano sopra Genova, sopra Londra, sopra Berna.
E pensavo: la patria non è un luogo, è un dovere che ti segue ovunque e al quale non puoi sottrarti.

Ricordo ancora la sera del 26 aprile del 1827. Non avevo ancora compiuto ventidue anni quando titubante ma pieno di speranze varcai l’atrio di Palazzo Baxadonne al civ. n. 32 di Via San Giorgio, sede della Carboneria genovese.

Palazzo Baxadonne De Franchi in via San Giorgio 32. Foto di Ettore Parodi.

Dunque lei era davvero un massone come sostengono in molti?

La parola massone deriva dal francese “macon”e significa muratore libero. In questo senso quindi si, essendo un costruttore di democrazia dallo spirito libero, si lo ero!

Giuseppe prosegue ora serio e determinato:

A Marsiglia fondai la Giovine Italia.
Abitavo sopra un’osteria e scrivevo i miei proclami con il clamore gente che rideva e brindava, di sottofondo.
La rivoluzione nasce sempre tra i rumori del mondo: non in silenzio, ma in mezzo alla vita.

La storia non è fatta di soli ideali, ma anche di compromessi, lo so bene e anche di percorsi disegnati dal destino.

A Londra invece conobbi e frequentai, fra gli altri, anche Mary Shelley (vedova del poeta P.B. Shelley), Anne Isabella Milbanke (vedova di Lord Byron, mio idolo di gioventù), il filosofo ed economista John Stuart Mill, Thomas Carlyle e sua moglie Jane Welsh, lo scrittore Charles Dickens, che finanziò la mia scuola e al quale consigliai di visitare Genova e il poeta decadente Algernon Swinburne che mi dedicò addirittura un’ode.

Ma è vero che fece amicizia anche con Marx?

Abitavamo nello stesso quartiere ma l’ho incrociato solo qualche volta a distanza al Red Lyon dove arringava, tra un boccale di birra e l’altro, i suoi adepti. Abbiamo intrattenuto -questo si- un lungo confronto ideologico epistolare. Ci siamo sempre rispettati, ma mai stimati. Lui mi definì “un utopista borghese” ed io, di contro, disprezzavo il suo socialismo ateo e materialista che contrastava con i miei valori morali e spirituali di libertà.

A proposito di libertà: E se oggi il suo apostolo potesse dare un consiglio ai posteri?
Mazzini volge ora lo sguardo al mare e il tono si fa grave.
L’Italia è nata, ma non ancora raggiunto la maturità.
È come un ragazza che ha il nome di suo padre ma non ne ha ancora il carattere.
Per diventare finalmente adulta dovrà imparare la dignità, la giustizia, la bontà.

.. e- mi permetto di aggiungere io- l’onestà….

Ah! Certo l’onestà, questa sconosciuta nella nostre misera indole di adulatori dei padroni.

Per quanti secoli abbiamo preferito alla nostra integrità lo squallido opportunismo mirabilmente riassunto nel ‘500 da Guicciardini “Franza o Spagna pur che se magna?

La tomba di Mazzini nel cimitero monumentale di Staglieno a Genova. Foto di Antonella Rossi.

Dite ai giovani che la libertà non è un dono, ma una conquista da difendere tutti i giorni.
E che i sogni, anche quando sembrano fallire, lasciano sempre un segno nella realtà, un piccolo passo lungo l’arduo cammino verso la giustizia.

Io ho sognato un popolo, ma ho amato una famiglia — la mia, e quella che volevo far nascere: l’Italia.

“Ebbi a lottare con il più grande dei soldati, Napoleone. Giunsi a mettere d’accordo tra loro imperatori, re e papi. Nessuno mi dette maggiori fastidi di un brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha nome: Giuseppe Mazzini”

Cit: Klemens Wenzel Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein Coblenza 1773 – Vienna 1859 Diplomatico e politico austriaco.

Genova, oltre ad avergli eretto un monumento nella principale piazza ottocentesca e reso la sua casa natale museo del Risorgimento, ha intitolato al suo illustre figlio una strada, un liceo, e una galleria.

In Copertina. ritratto ottocentesco di Giuseppe Mazzini.

Guglielmo… il gigante che venne dal mare..

Sotto il Mandraccio soffia un forte vento di tramontana che spazza tutti gli olezzi del porto.
Laggiù, dove “l’aria è carica di sale e gonfia di odori” il mare lambisce incessantemente le ardesie antiche. Se tendi l’orecchio pare di sentire una voce ruvida, come temprata dal viaggio e dal ferro. È la voce intrisa di salsedine di Guglielmo Embriaco, detto Testadimaglio, figlio di una città che da sempre sa intrecciare coraggio e commercio, fede e astuzia, mercanti e soldati.

Guglielmo Embriaco dipinto e dipinto sul prospetto di Palazzo San Giorgio da Ludovico Pogliaghi (1857-1950). Pittore e scultore.

«Non so perché mi chiamino così,» esordisce sornione, «forse perché, quando mi metto in testa una cosa, non c’è muro che tenga, o forse per la mia inusuale prestanza fisica che mi fa somigliare piuttosto ad un guerriero vichingo».

Gli occhi chiari, blu come il mare, si accendono quando parla della sua Genova.
«Una città piena di opportunità per chi le sapeva cogliere. Bisognava però avere il coraggio di abbandonare le certezze della terra ferma per salpare verso gli imprevisti dell’ignoto marino. Ed io di coraggio ne avevo davvero da vendere. A quel tempo la mia città odorava di spezie e di pece, di reti stese al sole e si sentiva l’eco di voci in mille lingue diverse, rimbombare in ogni caruggio. Un porto di mare è così: un brulicare di genti affaccendate alle quali non si ha nemmeno tempo di chiedere la provenienza.

Cappella Dogale. Sulla parete di destra, dando le spalle all’ingresso, è raffigurata La presa di Gerusalemme da parte di Guglielmo Embriaco

Noi Embriaci avevamo navi, fondachi e contatti in mezzo mondo. Ma soprattutto eravamo ambiziosi e avevamo fame: di gloria, di rotte nuove, di ricchezze e terre da conquistare.»

Dettaglio dell’affresco realizzato da Giovanni Battista Carlone fra il 1653 e il 1655.

Il suo sguardo si fissa impaziente all’orizzonte scrutando il mare come se aspettasse ora il vento giusto per gonfiare le vele e riprendere il largo verso chissà quale destinazione d’Oltremare. Forse quella Gibelletto in Libano di cui, su concessione del Conte Bertrand di Saint Gilles divenne, a riprova del lignaggio ottenuto, signore per oltre vent’anni.

“Per la prima Crociata, io e mio fratello Primo armammo due legni: l”Embriaca e la Grifona. Forti di circa 200 uomini arrivammo al porto di Giaffa in Terrasanta. Quando vidi in lontananza comparire la flotta degli infedeli capii che non si vince solo con la spada. Se fossimo andati allo scontro in inferiorità numerica avrei avuto la peggio e non sarei qui a raccontare la mia epopea.

“Guglielmo Embriaco espugna Gerusalemme” affresco di Lazzaro Tavarone presso il Palazzo Cattaneo Adorno di Via Garibaldi 10. Immagine dal web.

Ci voleva l’ingegno. Così smontammo le navi — le nostre gagliarde galee genovesi — e ne facemmo torri d’assedio. Il legno del mare divenne scala verso il cielo. E le possenti mura di Gerusalemme cedettero sotto i dardi dei miei Balestrieri davanti agli sguardi increduli sia di Iftikhar ad-Dawla (governatore fatimide della città) che di Goffredo di Buglione (Duca di Lorena e comandante della spedizione crociata).

Ride piano, con un’ombra d’orgoglio.
«Fu un gesto di follia o di fede, non saprei. Ma certo di genovesità pura: non si getta via niente, figurarsi se si rinuncia ad una nave. Per primo scalai le mura e feci gran strage di nemici. Il resto è scritto nei libri. Ci ha pensato Caffaro a far si che non si perdesse traccia di quell’incredibile impresa»

Il Sacro Catino custodito presso il Museo del Tesoro della Cattedrale di San Lorenzo a Genova. Foto dell’autore.

Suo fratello Primo fu nominato governatore della città e Guglielmo ottenne per Genova in nome del Capitolo di San Lorenzo, un fondaco, un pozzo, una chiesa, trenta case e un terzo del bottino.

“E poi che soddisfazione, che orgoglio, vedere inciso sull’architrave del Santo Sepolcro di Gerusalemme l’epigrafe che recitava: Praepotens Genuensium Praesidium“(potentissimo presidio dei genovesi). Eloquente e prestigioso riconoscimento dell’operato dei genovesi voluto da Goffredo di Buglione in persona per onorarne la forza.

Quando tornò a Genova, le campane suonavano a festa. Sulla spiaggia di Capo d’Arena ad accoglierlo c’è tutta la cittadinanza con in testa nientepopodimeno che il Vescovo. Nei carruggi si parlava solo di Testa di Maglio, “Guglielmo il conquistatore di Gerusalemme”. Portava con sé un tesoro, il Sacro Catino (per molti secoli ritenuto il Sacro Graal), le reliquie del Battista, onori, e un nome che sarebbe rimasto scolpito nella pietra per l’eternità. Ma lui, racconta, voleva solo tornare a casa, rivedere il suo mare e dimostrare a suo padre di che pasta fosse fatto.
«Severa e un po’ matrigna è la mia città. Prima ti forgia e prepara, poi ti accoglie e ti misura nello stesso tempo. Ti chiede cosa hai portato indietro. Io risposi: “Una storia, e un orizzonte più largo di quello che avevo lasciato”».

Le ombre frattanto si fanno largo sulla piazza dove si staglia superba la sua torre di famiglia secolare testimonianza del suo prestigio. In realtà-precisa lui- questa torre non è la mia (che invece si trovava poco più sopra) ma è quella dei De Castro.

La Torre De Castro per secoli erroneamente ritenuta Torre Embriaci. Foto dell’autore.

Al calar del sole la voce di Guglielmo si dissolve tra le grida dei gabbiani.
Ma se chiudi gli occhi, puoi ancora sentirlo ridere piano, come un vecchio marinaio che sa di aver lasciato il proprio nome inciso non su una lapide, ma su un’onda. Proprio come il pescatore di De André che “all’ombra dell’ultimo sole si era assopito e aveva un solco lungo il viso, come una specie di sorriso”

L’Archivolto di Santa Maria in Passione individuato dagli storici come la base di una delle due vere torri Embriaci. Foto di Stefano Eloggi.

Eppure sulla cresta di quell’onda è nata la gloriosa storia della Repubblica marinara di Genova con i suoi simboli (vedi la croce di San Giorgio) le cui gesta costituiscono un punto cardine del progresso nautico, militare e commerciale dell’intero Continente.

Nella sala delle conferenze della vicina Casa Paganini (ex chiesa del convento di S. Maria delle Grazie la Nuova) attraverso una botola si può accedere allo scavo che ha portato alla luce la sottostante originaria base della primitiva torre. Foto i Giuseppe Ruzzin.

Salite, salite e prendete in fretta la città»

(Testadimaglio ai suoi uomini durante la presa di Cesarea, Caffaro di Rustico da Caschifellone, Annali)

In copertina: statua dell’Embriaco posta sopra la galleria Bixio realizzata da E. Baroni nel 1929.


Quattro chiacchiere con Paganini


Non è stato per niente facile fissare un incontro con lui. Fino all’ultimo si è fatto desiderare, proprio come una vera rock star.
D’altra parte, non poteva essere altrimenti: Paganini è stato un autentico antesignano in materia. Ai suoi concerti gli isterismi collettivi — soprattutto femminili — erano all’ordine del giorno. Il suo aspetto emaciato, il viso scavato, i lunghi capelli e i leggendari assoli facevano il resto.

Ritratto di Paganini. Opera di Jean Auguste Dominique Ingres realizzato attorno al 1819.

«Mi venga a prendere con la carrozza in piazza Acquaverde; devo passare da casa a prendere alcuni spartiti» — mi aveva detto — «lì sarà facile trovarne una.»

Non ho avuto il coraggio di confessargli che le carrozze non esistevano più già da un pezzo, e che neppure la sua casa in Vico Gattamora era sopravvissuta. Solo l’edicola votiva della Madonna si era salvata, oggi custodita nel Museo di Sant’Agostino.

La casa natale di Paganini con relativa lapide in Vico Gattamora nel quartiere scomparso della Madre di Dio a Genova. “Alta Ventura Sortita ad Umile Luogo / in Questa Casa/ il Giorno XXVII di Ottobre dell’Anno MDCCLXXXII / Nacque / a Decoro di Genova a Delizia del Mondo / Nicolò Paganini / nella Divina Arte dei Suoni Insuperato Maestro”.

Mi sono presentato all’appuntamento all’ora stabilita. Non è stato difficile riconoscere la sua inconfondibile sagoma: sottile, elegante, lo sguardo assorto verso il monumento a Cristoforo Colombo.

«Maestro — gli ho sussurrato con un inchino — è un onore per me conoscerla.»

Non mi ha risposto. Perso nei suoi pensieri, continuava a osservare la statua. Ho deciso allora di assecondare il suo sguardo ammirato.

«Bello, vero, il monumento? Di recente ne hanno inaugurato uno anche in suo onore, sotto il porticato del teatro Carlo Felice.

Il monumento dedicato a Paganini davanti al teatro Carlo Felice di Genova. Foto di Salvatore Camba.


A proposito di teatro, la accompagno al Sant’Agostino, oggi Teatro della Tosse. Se non sbaglio, lì, a soli tredici anni, ha suonato il suo primo concerto.»

In Piazza Negri sulla sinistra si scorge l’odierno teatro della Tosse. Foto di Leti Gagge.

«Sì, ricordo bene quel giorno» — ha annuito nostalgico — «ma in realtà mi ero già esibito un paio d’anni prima, nell’oratorio di San Filippo Neri, in via Lomellini, per la festa del santo.»

«Chissà che emozione» — ho commentato.

«Di quella giornata ricordo la paura di sbagliare… e le lacrime di commozione di mio padre, seduto in fondo alla chiesa. Ma anche gli applausi, quelli non li ho mai dimenticati.»

La volta dell’oratorio di San Filippo Neri. Foto di Stefano Eloggi.

Abbiamo proseguito la passeggiata tra i caruggi, fino a Palazzo Ducale. Il suo sguardo, quasi per istinto, si è alzato verso la Torre Grimaldina.
Il volto gli si è improvvisamente rabbuiato quando ho accennato alla sua prigionia.

«Fui accusato ingiustamente di aver abusato di una giovane donna che in realtà voleva soltanto spillarmi del denaro. In camerino, dopo ogni concerto, mi aspettavano più donne che violini. Crede che avessi bisogno di costringere una fanciulla con la forza?»

Non ho replicato. Ho preferito cambiare argomento.

La Torre Grimaldina. Foto di Leti Gagge.

«E quella storia del diavolo? Del patto per diventare il più grande violinista del mondo?»

Ha scosso la testa, con un sorriso amaro.
«Tutte calunnie, messe in giro da colleghi frustrati e invidiosi. Il trattamento al mercurio per curare la sifilide mi aveva rovinato il volto, e così nacque la mefistofelica leggenda. Mi spiace solo che mi sia costata la sepoltura in terra consacrata.»

Poi, con tono serioso, ha aggiunto:
«A causa della sindrome di Marfan avevo dita lunghissime e assai snodate: potevo premere tutte le corde insieme. Mi esercitavo ogni giorno sulla velocità. In precedenza avevo studiato anche la chitarra: fui cosi il primo a capire che pizzicare le corde, imitare suoni, rompere gli schemi, era molto più affascinante delle solite melodie da salotto.
Spesso, prima di salire sul palco, tagliavo di proposito tre corde del violino, lasciando solo il sol. Così, durante l’esibizione, le altre si spezzavano una a una. Il pubblico impazziva. Era magia.»

Ha sorriso, con un lampo d’orgoglio.
«Ho suonato in tutta Italia, nelle principali corti d’Europa. E ovunque ho raccolto applausi, ma anche invidie.»

Locandina del concerto al Covent Garden di Londra.

«E la famosa frase: Paganini non ripete?» — ho azzardato. — «Non crede che abbia alimentato il mito dell’artista arrogante?»

«Mi spiace che sia stata fraintesa. Io improvvisavo sempre. Intendevo dire che non avrei saputo ripetere la stessa magia una seconda volta.»

«È vero che ha perso un Guarneri del Gesù al gioco?»

Ha riso, sarcastico.
«Ah, il gioco… Le donne… E i ravioli di mia madre! Le mie uniche altre passioni, oltre alla musica.»

La rCosì in una lettera spedita all’amico Luigi Germi nel 1839 e conservata presso la Library del Congresso di Washington Paganini descriveva le ricette per il tuccu e per i ravioli:

«Le piacerebbe rivedere il suo Cannone

«Più che vederlo, vorrei suonarlo ancora una volta. Ma dubito esista ancora…»

«Esiste eccome, Maestro. È perfettamente conservato a Palazzo Tursi. La accompagno, ma facciamo in fretta: non so che spiegazioni potrei dare se ci scoprissero.»

Davanti alla teca che custodisce il violino, gli è scesa una lacrima.
«È proprio lui. Lo riconosco.»

Il Guarneri del Gesù il celebre “Cannone” custodito a Tursi, palazzo del Comune di Genova. Foto dell’autore.

«Ogni anno — gli ho detto — il vincitore del concorso a lei intitolato ha l’onore di suonarlo durante la premiazione. Genova le ha dedicato oltre alla competizione e alla statua, anche una strada ed il Conservatorio.»

La nostra passeggiata si è conclusa in Sarzano, dove fu battezzato nella chiesa di San Salvatore, davanti alla colonna infame che ricorda le vicende del suo quartiere natale. Ho citato le splendide parole che Liszt gli dedicò.

Il certificato di battesimo di Paganini del 28 ottobre 1782 conservato nella chiesa di San Donato a Genova. Foto dell’autore.

Paganini si è commosso.
«Io e Franz parlavamo la stessa lingua» — ha sussurrato. — «La lingua del genio.»

Ha poi distolto lo sguardo, turbato nel vedere una Genova così diversa da quella che portava nel cuore.
Mi ha salutato in fretta, quasi dovesse correre a prepararsi per un concerto.
E, così come era apparso, se n’è andato.

La Colonna infame voluta dagli abitanti dei caruggi. Foto dell’autore.

Avvolto nel suo inconfondibile mantello nero, dissolto nel silenzio.

Arrivederci, Maestro. A presto.

In Copertina: fumetto di Manlio Tuscia che ritrae Paganini in via San Lorenzo davanti alla cattedrale di Genova.


Il San Giorgio di Rubens

Al Museo del Prado di Madrid è custodita questa meravigliosa rappresentazione di San Giorgio che uccide il drago dipinta da Rubens probabilmente a Genova tra il 1606 al 1608.

Il pittore fiammingo rappresenta il cavaliere nei panni di un Duce dell’esercito romano mentre sguaina la spada per colpire l’animale e si rifà al testo agiografico “Legenda aurea” in cui il Vescovo Jacopo da Varagine racconta la storia di San Giorgio.

Il cavaliere, giunto nella città di Salem in Libia, venne a conoscenza di una terribile usanza locale: gli abitanti, per placare un feroce drago che viveva in un lago vicino, gli offrivano ogni giorno due pecore come pasto. Quando gli animali non furono più sufficienti, iniziarono a sacrificare i cittadini, scelti a sorte. Un giorno, la sorte cadde sulla giovane figlia del re, che fu destinata a essere data in pasto al drago. Tuttavia, proprio allora arrivò San Giorgio, che affrontò la creatura e la uccise, salvando così la principessa. In segno di gratitudine, il re e tutti gli abitanti di Salem si convertirono al cristianesimo.

Il dipinto intitolato Lotta di San Giorgio e il Drago di Pieter Paul Rubens risale al 1606-1608. L’artista realizzò questo dipinto durante il soggiorno genovese. Per questo motivo storico D. Jaffe ipotizzò che la città di Genova avesse commissionato l’opera proprio per onorare il patrono militare della Repubblica.

Il cavallo domina la scena, tracciando una possente diagonale che struttura l’intero dipinto. La sua linea ascendente, slanciata da sinistra a destra, si contrappone all’inclinazione obliqua del corpo di San Giorgio, creando un incrocio visivo vicino al cuore dell’opera. Questa tensione dinamica infonde energia alla composizione, amplificando il senso di movimento. L’incedere impetuoso del cavallo e il gesto risoluto del braccio alzato di San Giorgio si fondono in un’armonia visiva che esalta l’epicità dell’azione. L’inconfondibile rosso, tendente all’arancione, nel mantello del cavaliere, la firma dell’artista.

In Copertina: Dipinto di Rubens, olio su tela di 309 centimetri di altezza e 257 cm di larghezza. Museo del Prado Madrid.

Il Presepe dell’Isola

Il suggestivo presepe di Camogli non poteva altro che essere esposto in quella che un tempo, come raccontato nella maiolica sul sagrato della basilica, era la sua isola.

La maiolica sul sagrato della chiesa che racconta l’originaria conformazione come isola di Camogli. Foto dell’autore.

Frutto di mesi di lavoro meticoloso, passione e dedizione, il presepe all’Isola di Camogli è molto più di una semplice Natività: è un capolavoro di artigianato e amore per il proprio territorio. Un vero omaggio alle tradizioni locali e alla magia del Natale, realizzato da un gruppo straordinario di volontari, gli “Amici del Presepe”che hanno raccolto la dimenticata eredità degli anni Ottanta, riportando in vita un progetto che incanta residenti e visitatori, anno dopo anno.

Allestito dunque nei locali di via dell’Isola 3, questo presepe è un viaggio emozionante tra i colori e le atmosfere di Camogli.

Ogni dettaglio racconta il borgo: dal porticciolo ai vicoli, dai locali e stabilimenti balneari lungo la passeggiata, fino alle tradizionali case dai colori pastello. La cura artigianale è straordinaria e ogni anno l’opera si arricchisce di nuovi particolari. Così, il celebre Dragun, il tipico sciabecco ligure, solca il golfo, mentre le luminarie della basilica di Santa Maria Assunta e delle case si riflettono nel mare, creando un gioco di suggestioni che cattura lo sguardo e invita a perdersi nella bellezza dei dettagli.

Il Dragun originale esposto all’imbocco della passeggiata. Foto di Claudio Bottaro

La scena si dipana dal mattino fino all’imbrunire arricchita, per renderla più verace, dal rintocco delle campane, dai garriti dei gabbiani e dalle sirene delle navi.

il Presepe all’imbrunire con la suggestiva palazzata illuminata. Foto di Claudio Bottaro.

Ma questo presepe non è solo un’opera d’arte, è anche un simbolo di solidarietà. Basta inserire una moneta da uno o due euro per attivarlo, e il ricavato viene devoluto a scopi benefici: dall’acquisto di un defibrillatore per l’asilo Umberto I, a donazioni per la scuola dell’infanzia di Ruta e i volontari del Soccorso.

Oltre all’allestimento dello scorso anno, all’interno dell’Abbazia di San Fruttuoso è presente questa gradevole rappresentazione presepiale dell’Abbazia stessa. Foto di Claudio Bottaro.

La quarta edizione, esposta lo scorso anno nell’abbazia di San Fruttuoso, ha raccolto fondi per una sedia per disabili destinata alla comunità. Un progetto che non smette mai di stupire e di far del bene, unendo tradizione, bellezza e generosità in un’esperienza unica.

“Seconda stella a destra, questo è il cammino
E poi dritto fino al mattino
Poi la strada la trovi da te
Porta all’isola che non c’è”.

Cit. L’Isola che non c’è. Edoardo Bennato 1980.

In Copertina: Foto di Claudio Bottaro. Gennaio 2025.

Il viaggio nei Presepi dei Cappuccini

Presso il Museo dei Cappuccini sito in Viale IV Novembre 5 è possibile immergersi in un affascinante viaggio nel mondo dei presepi.

Il Presepe all’interno della chiesa di Santa Caterina.

Si può accedere sia dalla chiesa della SS Annunziata di Portoria dove sono custodite le spoglie di Santa Caterina da Genova, che dall’ingresso con scenografico settecentesco scalone situato praticamente di fronte al Parco dell’Acquasola.

Sulle pareti dello scalone come succulento antipasto sono esposte tele provenienti da chiese e conventi cappuccini liguri di autori di assoluto prestigio quali, cito i principali: Gio. Andrea De Ferrari, Giulio Benso, Luca Giordano, Luca Cambiaso, Bernardo Strozzi, Domenico Fiasella, Orazio De Ferrari, Giovanni Battista Paggi, Luigi Miradori detto il Genovino e Domenico Piola.

Prima dell’ultima rampa a dare il benvenuto ai visitatori è una splendida quanto geniale scultura marmorea bifronte di autore ignoto che da un lato rappresenta Sant’Antonio da Padova con Gesù e dall’altro la Vergine con il Bambino.

Sant’Antonio da Padova con in braccio Gesù
La Vergine con il Bambinello.

Giunti al piano sulla sinistra ecco il pezzo forte del percorso costituito dell’imponente presepe meccanico realizzato dell’artigiano piemontese Domenico Curti. La rappresentazione si dipana lungo tre scene principali collocate a Betania, Gerusalemme e Betlemme e racconta oltre alla Natività anche molti altri episodi legati alla Bibbia. Non a caso lo stesso autore lo ha definito “un presepe biblico animato”.

Scena di Betania.
Scena di Gerusalemne.
Scena di Betlemme.

Quasi cento anni di storia, quaranta metri quadri di stupore e oltre 150 movimenti generati da originali meccanismi azionati mediante vecchie cinghie di cuoio, ne fanno un capolavoro del suo genere.

Il viaggio prosegue nella stanza di fronte raccontando la grande tradizione presepiale genovese attraverso i suoi grandi maestri in particolare, Bissone, Maragliano, Navone, Garaventa e Casanova, fino a Capurro l’ultimo esponente di rilievo di una scuola che annoverava fra gli altri artisti quali Storace, Ciurlo, Pittaluga, Pedevilla e il Castellino il primo di cui si ha notizia ad inizio del XVII secolo.

Dalla ricca committenza nobiliare del presepe artistico si passa poi a quella più economica e popolare tradizione detta dei macachi. Ovvero quella particolare produzione di statuine in terracotta o carta pesta per presepi allestiti spesso con materiali di recupero. In proposito i più famosi sono quelli realizzati con le ceramiche di Albisola.

A corollario della mostra altri 8 presepi di più recente fattura di chiara ambientazione ligure di fogge, dimensioni e materiali diversi, arricchiscono il museo. In queste rappresentazioni spesso la “piazza del mercato” costituisce l’ambientazione principale.

Presepe per scarabattola. Ambito ligure Sec. XIX. Collezione Museo. Donazione privata.

Ma il vero protagonista è il presepe settecentesco con i classici manichini snodabili vestiti con sfarzosi abiti su misura.

Manichini, abiti e accessori dei manichini genovesi.

Al centro della scena ecco il fastoso corteo dei magi attribuito alla bottega del Maragliano. Da notare l’utilizzo dei cavalli al posto dei cammelli, caratteristica questa tipica della scuola genovese.

Il Corteo dei Magi.

A proposito del grande scultore non vi è prova alcuna che scolpisse statuine presepiali ma si sa che disegnava personalmente i bozzetti che dovevano essere poi realizzati dai suoi allievi.

Fra i tanti personaggi spiccano, custoditi in una teca a parte, le figure della benefattrice e del mendicante realizzate da Pasquale Navone, il grande continuatore dell’arte del Maragliano. Se la prima si distingue per la sua raffinata eleganza, la seconda risalta perché interamente vestita in tela jeans originale dell’epoca.

La benefattrice e il mendicante. Seconda metà del XVII sec. Acquisizione dal convento dei Cappuccini di Sarzana (SP). Pasquale Navone.
Il mendicante.

Da segnalare infine il pregevole quattrocentesco polittico di San Barnaba di Giovanni di Pietro da Pisa, proveniente dall’omonima chiesa di San Barnaba del Castellaccio.

Il quattrocentesco polittico.

In Copertina: Il Corteo dei Magi attribuito alla Bottega del Maragliano. Tutte le foto sono dell’autore.

Il Presepe di S. Egidio alla Nunziata

La Comunità di Sant’Egidio ha affidato agli artigiani di via San Gregorio Armeno a Napoli la creazione di un presepe unico, in esposizione fino al 2 febbraio 2020 nella basilica della Santissima Annunziata del Vastato a Genova. Qui, la tradizione napoletana incontra la realtà ligure, dando vita a una rappresentazione della Natività che vibra di significato e attualità.

Il presepe nel suo insieme. Foto di Anna Armenise.

Le figure di Gesù, Maria, Giuseppe, i tre Magi e gli angeli sono state scolpite in legno con dettagli preziosi come gli occhi in vetro, create appositamente negli storici laboratori napoletani. Sullo sfondo, un rudere con tre colonne bianche evoca l’architettura della basilica stessa, simbolo del luogo di preghiera dove ogni sera si riunisce la comunità di Sant’Egidio. Questa Natività raccoglie in un abbraccio Genova e Napoli, due città lontane ma unite dal messaggio universale di accoglienza e solidarietà.

Nel presepe sono riconoscibili angoli iconfondibili di Genova: le vie strette di Sottoripa, la chiesa di San Matteo, la Lanterna e Porta dei Vacca.

Al centro la chiesa di San Matteo. Foto di Anna Armenise.

È tra queste strade che si muovono le figure0 degli abitanti, immersi nella loro quotidianità e nel servizio ai più poveri. Attorno alla mangiatoia, le statuine raccontano il messaggio evangelico di Matteo: poveri, forestieri, ammalati, carcerati, affamati e assetati – sono loro i protagonisti di questa scena, ciascuno con la sua dignità, rappresentato con delicatezza e realismo.

La Lanterna domina la scena. Foto di Anna Armenise.

Ai due estremi della scena, quasi in un abbraccio a Gesù bambino, mani amiche portano un piatto caldo a chi ha fame e sete, come ogni giorno Sant’Egidio fa nelle mense di via delle Fontane e per le strade della città. E sotto la Natività, in una stanza nascosta, troviamo i “forestieri” intenti a raccontare le loro storie di speranza, proprio come avviene nelle scuole di lingua e cultura italiana che Sant’Egidio gestisce per i migranti nel centro storico e a Sampierdarena.

Nella rappresentazione della “casa famiglia”, una donna anziana attende con gioia chi le porta affetto, e accanto a lei c’è un uomo dalla pelle scura, malato di Aids, che grazie alle cure del Programma Dream di Sant’Egidio tornerà a vivere – un richiamo alla speranza offerta a tanti in Africa.

A destra del presepe troviamo i “carcerati” e a sinistra i “nudi” che aspettano vestiti, proprio come avviene nei Centri “Genti di Pace”.

In primo piano dettagli del presepe. Foto di Anna Armenise.

E infine, dietro la Sacra Famiglia, i “piccoli” giocano alla Scuola della Pace, seguiti dallo sguardo attento di un giovane amico.

Questo presepe è una testimonianza di vita autentica, che ricorda a tutti che Gesù non nasce in un palazzo lussuoso, ma nei luoghi dimenticati e poveri – come lo erano i ruderi di Napoli un tempo e come lo sono oggi tante periferie. È un invito a vivere l’Avvento come un’attesa attiva, che ci spinge a “uscire” verso chi è meno fortunato, onorando, come ci ricorda papa Francesco, il corpo di Cristo nelle membra dei poveri.

Comunità di S. Egidio. Piazza della Nunziata 4. Natale 2019

In Copertina: Foto di Anna Armenise

Storia del Cimitero di Murta e del suo roseto

Il roseto all’interno del cimitero di Murta costituisce la principale attrazione del percorso della via delle Rose che si snoda tra Trasta e Murta.

Tale passeggiata che parte dal nuovo ponte sul Rio Ciliegio a Trasta, edificato dal Comune di Genova nel 2022 dopo il crollo del precedente piccolo secentesco ponte, può essere anche una valida e piacevole alternativa per raggiungere la Festa della Zucca a Murta.

Lungo il sentiero che si arrampica lungo la collina si possono ammirare delle piccole collezioni di rose e diverse specie arboricole evidenziate da appositi cartelli esplicativi.

Rose.

Altre rose.

Con il suo simbolismo di gusto ottocentesco, il cimitero di Murta può essere considerato a tutti gli effetti un cimitero monumentale. Edificato nel 1835 per ottemperare alle nuove disposizioni del Regno di Sardegna in merito alle sepolture, rimase in attività fino agli anni ’90 quando fu ufficialmente radiato.

La maggior parte delle sepolture, ancora in discreto stato di conservazione, nonostante l’abbandono e il vandalismo, risalgono alla fine del 1800 e ai primi anni ’30 del 1900. Il tema floreale delle decorazioni è evidente nelle incisioni e nei bassorilievi presenti su molte lapidi.

Ancora rose.
Sempre rose.

Tra gli elementi che caratterizzano il cimitero troviamo i lumini in stile Liberty, in ferro con vetrino rosso e le sepolture a forma di piramide a gradoni. Molto interessanti le ringhiere e le catene in ferro battuto che circondano alcune delle sepolture più ricche. I muri perimetrali, in parte ancora originali, mostrano le tracce delle prime sepolture: croci e cornici che si intravedono sotto le tombe più recenti.

Interno del cimitero.

Due statue, in parte rovinate dal tempo, sono tra gli elementi di maggiore pregio con la croce centrale.

Tra le sepolture è presente quella di Maria Massuccone Mazzini, parente di Giuseppe, da cui il titolo alla via principale di Murta. L’ossario, situato sul lato opposto all’ingresso, è in stato di degrado, come la cappella mortuaria, ormai perduta.

Qui si trovano anche le tombe della famiglia Crosa, originaria di Trasta, avi della mia consorte.

Il Portale, restaurato recentemente, è di gusto neoclassico: ai lati del frontone due urne che simboleggiano il corpo inteso come contenitore dell’anima.

Il cimitero è stato dichiarato luogo di interesse culturale dalla Soprintendenza per i Beni Storici e Paesaggistici della Liguria il 9 aprile 2013.

Sullo sfondo il campanile della chiesa di San Martino di Murta.

Interno del cimitero. La tomba di Massuccone è quella costruzione bianca a centro sullo sfondo.

Ahi! sugli estinti | non sorge fiore, ove non sia d’umane | lodi onorato e d’amoroso pianto. (88-90). Cit. da I Sepolcri di Ugo Foscolo.

Spiegazione della tipologia di rose presenti nel roseto.

Tutte le foto sono dell’autore.

In Copertina: il tratto terminale della salita prima di arrivare a Murta. Foto di Antonio Corrado.

Genova Novembre 2023

La Scalinata delle Tre Caravelle.

La realizzazione della scalinata monumentale rientra nell’ampio progetto di urbanizzazione che coinvolse l’intera area adiacente al torrente Bisagno e al quartiere della Foce, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Progettata e costruita tra il 1922 e il 1938 dall’architetto e urbanista Alfredo Fineschi, con la collaborazione del padre Pietro, l’opera si inserisce in un contesto di ammodernamento della città.

I due architetti operarono ampiamente a Genova, realizzando, tra l’altro, anche l’attiguo palazzo razionalista che oggi ospita la questura.

Qui sorgeva il raccordo tra le antiche mura cittadine, conosciute rispettivamente come Mura Vecchie Mura Nuove.

Questo tratto si sviluppava con una serie di terrazze orizzontali, collegando il cinquecentesco bastione delle Cappuccine alle seicentesche Fronti Basse.

Queste ultime furono spianate nel 1892, e circa trent’anni dopo la zona venne risistemata nell’assetto che ancora oggi ammiriamo.

Nel 2010 la zona è stata oggetto di un intervento di riqualificazione.

La scalinata, di ampie dimensioni, è composta da due ariose rampe separate da un’aiuola inclinata su più livelli e coltivata a prato inglese. L’aiuola è suddivisa verticalmente in tre sezioni, precedute da una quarta decorata con àncore stilizzate. In ciascuna delle tre sezioni spicca un motivo che richiama simbolicamente le tre caravelle utilizzate da Cristoforo Colombo nella sua impresa della scoperta dell’America nel 1492. Le caravelle sono raffigurate attraverso decorazioni floreali all’interno delle aiuole stesse.

La scala monumentale si apre di fronte al maestoso Arco della Vittoria, un arco di trionfo dedicato ai caduti della prima guerra mondiale, che domina il centro della sottostante Piazza della Vittoria.

Le tre caravelle, perpendicolare alla’adiacente via intitolata ad Armando Diaz, si innalzano sul lato destro del Liceo Classico Andrea D’Oria e sul lato sinistro del palazzo della Questura.

Un ampio giardino si estende verso le mura delle Cappuccine, proseguendo fino a raggiungere la spianata di Carignano.

In Copertina: la scalinata delle tre caravelle. Foto di Sergio Pippi.

Il Presepe di pietra di Arenzano.

L’entroterra di Arenzano si trasforma così nella scenografia della Natività, con terrazze, ripari e rifugi ricostruiti fedelmente grazie alla tecnica, oggi padroneggiata da pochi, dei muretti a secco.

Un’opera realizzata da Benedetto Damonte, con il supporto di Ino Caviglia, Francesco Damonte e altri collaboratori: il presepe, esposto per la prima volta nel 2016 nella vetrina di una gastronomia, ha riscosso così tanto successo che negli anni si è ampliato, diventando un autentico patrimonio di Arenzano, ora esposto nella sede dello IAT sul lungomare.

Il Rifugio Scarpegin, il Riparo Beppillo, la Ca’ da Gava, la Torre dei Saraceni, Ai Belli Venti e molti altri luoghi della memoria nel “presepe di pietra” di Arenzano, diventano così familiari protagonisti.

In Copertina: Il Presepe di Pietra di Arenzano.