Il Presepe dell’Isola

Il suggestivo presepe di Camogli non poteva altro che essere esposto in quella che un tempo, come raccontato nella maiolica sul sagrato della basilica, era la sua isola.

La maiolica sul sagrato della chiesa che racconta l’originaria conformazione come isola di Camogli. Foto dell’autore.

Frutto di mesi di lavoro meticoloso, passione e dedizione, il presepe all’Isola di Camogli è molto più di una semplice Natività: è un capolavoro di artigianato e amore per il proprio territorio. Un vero omaggio alle tradizioni locali e alla magia del Natale, realizzato da un gruppo straordinario di volontari, gli “Amici del Presepe”che hanno raccolto la dimenticata eredità degli anni Ottanta, riportando in vita un progetto che incanta residenti e visitatori, anno dopo anno.

Allestito dunque nei locali di via dell’Isola 3, questo presepe è un viaggio emozionante tra i colori e le atmosfere di Camogli.

Ogni dettaglio racconta il borgo: dal porticciolo ai vicoli, dai locali e stabilimenti balneari lungo la passeggiata, fino alle tradizionali case dai colori pastello. La cura artigianale è straordinaria e ogni anno l’opera si arricchisce di nuovi particolari. Così, il celebre Dragun, il tipico sciabecco ligure, solca il golfo, mentre le luminarie della basilica di Santa Maria Assunta e delle case si riflettono nel mare, creando un gioco di suggestioni che cattura lo sguardo e invita a perdersi nella bellezza dei dettagli.

Il Dragun originale esposto all’imbocco della passeggiata. Foto di Claudio Bottaro

La scena si dipana dal mattino fino all’imbrunire arricchita, per renderla più verace, dal rintocco delle campane, dai garriti dei gabbiani e dalle sirene delle navi.

il Presepe all’imbrunire con la suggestiva palazzata illuminata. Foto di Claudio Bottaro.

Ma questo presepe non è solo un’opera d’arte, è anche un simbolo di solidarietà. Basta inserire una moneta da uno o due euro per attivarlo, e il ricavato viene devoluto a scopi benefici: dall’acquisto di un defibrillatore per l’asilo Umberto I, a donazioni per la scuola dell’infanzia di Ruta e i volontari del Soccorso.

Oltre all’allestimento dello scorso anno, all’interno dell’Abbazia di San Fruttuoso è presente questa gradevole rappresentazione presepiale dell’Abbazia stessa. Foto di Claudio Bottaro.

La quarta edizione, esposta lo scorso anno nell’abbazia di San Fruttuoso, ha raccolto fondi per una sedia per disabili destinata alla comunità. Un progetto che non smette mai di stupire e di far del bene, unendo tradizione, bellezza e generosità in un’esperienza unica.

“Seconda stella a destra, questo è il cammino
E poi dritto fino al mattino
Poi la strada la trovi da te
Porta all’isola che non c’è”.

Cit. L’Isola che non c’è. Edoardo Bennato 1980.

In Copertina: Foto di Claudio Bottaro. Gennaio 2025.

Il viaggio nei Presepi dei Cappuccini

Presso il Museo dei Cappuccini sito in Viale IV Novembre 5 è possibile immergersi in un affascinante viaggio nel mondo dei presepi.

Il Presepe all’interno della chiesa di Santa Caterina.

Si può accedere sia dalla chiesa della SS Annunziata di Portoria dove sono custodite le spoglie di Santa Caterina da Genova, che dall’ingresso con scenografico settecentesco scalone situato praticamente di fronte al Parco dell’Acquasola.

Sulle pareti dello scalone come succulento antipasto sono esposte tele provenienti da chiese e conventi cappuccini liguri di autori di assoluto prestigio quali, cito i principali: Gio. Andrea De Ferrari, Giulio Benso, Luca Giordano, Luca Cambiaso, Bernardo Strozzi, Domenico Fiasella, Orazio De Ferrari, Giovanni Battista Paggi, Luigi Miradori detto il Genovino e Domenico Piola.

Prima dell’ultima rampa a dare il benvenuto ai visitatori è una splendida quanto geniale scultura marmorea bifronte di autore ignoto che da un lato rappresenta Sant’Antonio da Padova con Gesù e dall’altro la Vergine con il Bambino.

Sant’Antonio da Padova con in braccio Gesù
La Vergine con il Bambinello.

Giunti al piano sulla sinistra ecco il pezzo forte del percorso costituito dell’imponente presepe meccanico realizzato dell’artigiano piemontese Domenico Curti. La rappresentazione si dipana lungo tre scene principali collocate a Betania, Gerusalemme e Betlemme e racconta oltre alla Natività anche molti altri episodi legati alla Bibbia. Non a caso lo stesso autore lo ha definito “un presepe biblico animato”.

Scena di Betania.
Scena di Gerusalemne.
Scena di Betlemme.

Quasi cento anni di storia, quaranta metri quadri di stupore e oltre 150 movimenti generati da originali meccanismi azionati mediante vecchie cinghie di cuoio, ne fanno un capolavoro del suo genere.

Il viaggio prosegue nella stanza di fronte raccontando la grande tradizione presepiale genovese attraverso i suoi grandi maestri in particolare, Bissone, Maragliano, Navone, Garaventa e Casanova, fino a Capurro l’ultimo esponente di rilievo di una scuola che annoverava fra gli altri artisti quali Storace, Ciurlo, Pittaluga, Pedevilla e il Castellino il primo di cui si ha notizia ad inizio del XVII secolo.

Dalla ricca committenza nobiliare del presepe artistico si passa poi a quella più economica e popolare tradizione detta dei macachi. Ovvero quella particolare produzione di statuine in terracotta o carta pesta per presepi allestiti spesso con materiali di recupero. In proposito i più famosi sono quelli realizzati con le ceramiche di Albisola.

A corollario della mostra altri 8 presepi di più recente fattura di chiara ambientazione ligure di fogge, dimensioni e materiali diversi, arricchiscono il museo. In queste rappresentazioni spesso la “piazza del mercato” costituisce l’ambientazione principale.

Presepe per scarabattola. Ambito ligure Sec. XIX. Collezione Museo. Donazione privata.

Ma il vero protagonista è il presepe settecentesco con i classici manichini snodabili vestiti con sfarzosi abiti su misura.

Manichini, abiti e accessori dei manichini genovesi.

Al centro della scena ecco il fastoso corteo dei magi attribuito alla bottega del Maragliano. Da notare l’utilizzo dei cavalli al posto dei cammelli, caratteristica questa tipica della scuola genovese.

Il Corteo dei Magi.

A proposito del grande scultore non vi è prova alcuna che scolpisse statuine presepiali ma si sa che disegnava personalmente i bozzetti che dovevano essere poi realizzati dai suoi allievi.

Fra i tanti personaggi spiccano, custoditi in una teca a parte, le figure della benefattrice e del mendicante realizzate da Pasquale Navone, il grande continuatore dell’arte del Maragliano. Se la prima si distingue per la sua raffinata eleganza, la seconda risalta perché interamente vestita in tela jeans originale dell’epoca.

La benefattrice e il mendicante. Seconda metà del XVII sec. Acquisizione dal convento dei Cappuccini di Sarzana (SP). Pasquale Navone.
Il mendicante.

Da segnalare infine il pregevole quattrocentesco polittico di San Barnaba di Giovanni di Pietro da Pisa, proveniente dall’omonima chiesa di San Barnaba del Castellaccio.

Il quattrocentesco polittico.

In Copertina: Il Corteo dei Magi attribuito alla Bottega del Maragliano. Tutte le foto sono dell’autore.

Il Presepe di S. Egidio alla Nunziata

La Comunità di Sant’Egidio ha affidato agli artigiani di via San Gregorio Armeno a Napoli la creazione di un presepe unico, in esposizione fino al 2 febbraio 2020 nella basilica della Santissima Annunziata del Vastato a Genova. Qui, la tradizione napoletana incontra la realtà ligure, dando vita a una rappresentazione della Natività che vibra di significato e attualità.

Il presepe nel suo insieme. Foto di Anna Armenise.

Le figure di Gesù, Maria, Giuseppe, i tre Magi e gli angeli sono state scolpite in legno con dettagli preziosi come gli occhi in vetro, create appositamente negli storici laboratori napoletani. Sullo sfondo, un rudere con tre colonne bianche evoca l’architettura della basilica stessa, simbolo del luogo di preghiera dove ogni sera si riunisce la comunità di Sant’Egidio. Questa Natività raccoglie in un abbraccio Genova e Napoli, due città lontane ma unite dal messaggio universale di accoglienza e solidarietà.

Nel presepe sono riconoscibili angoli iconfondibili di Genova: le vie strette di Sottoripa, la chiesa di San Matteo, la Lanterna e Porta dei Vacca.

Al centro la chiesa di San Matteo. Foto di Anna Armenise.

È tra queste strade che si muovono le figure0 degli abitanti, immersi nella loro quotidianità e nel servizio ai più poveri. Attorno alla mangiatoia, le statuine raccontano il messaggio evangelico di Matteo: poveri, forestieri, ammalati, carcerati, affamati e assetati – sono loro i protagonisti di questa scena, ciascuno con la sua dignità, rappresentato con delicatezza e realismo.

La Lanterna domina la scena. Foto di Anna Armenise.

Ai due estremi della scena, quasi in un abbraccio a Gesù bambino, mani amiche portano un piatto caldo a chi ha fame e sete, come ogni giorno Sant’Egidio fa nelle mense di via delle Fontane e per le strade della città. E sotto la Natività, in una stanza nascosta, troviamo i “forestieri” intenti a raccontare le loro storie di speranza, proprio come avviene nelle scuole di lingua e cultura italiana che Sant’Egidio gestisce per i migranti nel centro storico e a Sampierdarena.

Nella rappresentazione della “casa famiglia”, una donna anziana attende con gioia chi le porta affetto, e accanto a lei c’è un uomo dalla pelle scura, malato di Aids, che grazie alle cure del Programma Dream di Sant’Egidio tornerà a vivere – un richiamo alla speranza offerta a tanti in Africa.

A destra del presepe troviamo i “carcerati” e a sinistra i “nudi” che aspettano vestiti, proprio come avviene nei Centri “Genti di Pace”.

In primo piano dettagli del presepe. Foto di Anna Armenise.

E infine, dietro la Sacra Famiglia, i “piccoli” giocano alla Scuola della Pace, seguiti dallo sguardo attento di un giovane amico.

Questo presepe è una testimonianza di vita autentica, che ricorda a tutti che Gesù non nasce in un palazzo lussuoso, ma nei luoghi dimenticati e poveri – come lo erano i ruderi di Napoli un tempo e come lo sono oggi tante periferie. È un invito a vivere l’Avvento come un’attesa attiva, che ci spinge a “uscire” verso chi è meno fortunato, onorando, come ci ricorda papa Francesco, il corpo di Cristo nelle membra dei poveri.

Comunità di S. Egidio. Piazza della Nunziata 4. Natale 2019

In Copertina: Foto di Anna Armenise

Storia del Cimitero di Murta e del suo roseto

Il roseto all’interno del cimitero di Murta costituisce la principale attrazione del percorso della via delle Rose che si snoda tra Trasta e Murta.

Tale passeggiata che parte dal nuovo ponte sul Rio Ciliegio a Trasta, edificato dal Comune di Genova nel 2022 dopo il crollo del precedente piccolo secentesco ponte, può essere anche una valida e piacevole alternativa per raggiungere la Festa della Zucca a Murta.

Lungo il sentiero che si arrampica lungo la collina si possono ammirare delle piccole collezioni di rose e diverse specie arboricole evidenziate da appositi cartelli esplicativi.

Rose.

Altre rose.

Con il suo simbolismo di gusto ottocentesco, il cimitero di Murta può essere considerato a tutti gli effetti un cimitero monumentale. Edificato nel 1835 per ottemperare alle nuove disposizioni del Regno di Sardegna in merito alle sepolture, rimase in attività fino agli anni ’90 quando fu ufficialmente radiato.

La maggior parte delle sepolture, ancora in discreto stato di conservazione, nonostante l’abbandono e il vandalismo, risalgono alla fine del 1800 e ai primi anni ’30 del 1900. Il tema floreale delle decorazioni è evidente nelle incisioni e nei bassorilievi presenti su molte lapidi.

Ancora rose.
Sempre rose.

Tra gli elementi che caratterizzano il cimitero troviamo i lumini in stile Liberty, in ferro con vetrino rosso e le sepolture a forma di piramide a gradoni. Molto interessanti le ringhiere e le catene in ferro battuto che circondano alcune delle sepolture più ricche. I muri perimetrali, in parte ancora originali, mostrano le tracce delle prime sepolture: croci e cornici che si intravedono sotto le tombe più recenti.

Interno del cimitero.

Due statue, in parte rovinate dal tempo, sono tra gli elementi di maggiore pregio con la croce centrale.

Tra le sepolture è presente quella di Maria Massuccone Mazzini, parente di Giuseppe, da cui il titolo alla via principale di Murta. L’ossario, situato sul lato opposto all’ingresso, è in stato di degrado, come la cappella mortuaria, ormai perduta.

Qui si trovano anche le tombe della famiglia Crosa, originaria di Trasta, avi della mia consorte.

Il Portale, restaurato recentemente, è di gusto neoclassico: ai lati del frontone due urne che simboleggiano il corpo inteso come contenitore dell’anima.

Il cimitero è stato dichiarato luogo di interesse culturale dalla Soprintendenza per i Beni Storici e Paesaggistici della Liguria il 9 aprile 2013.

Sullo sfondo il campanile della chiesa di San Martino di Murta.

Interno del cimitero. La tomba di Massuccone è quella costruzione bianca a centro sullo sfondo.

Ahi! sugli estinti | non sorge fiore, ove non sia d’umane | lodi onorato e d’amoroso pianto. (88-90). Cit. da I Sepolcri di Ugo Foscolo.

Spiegazione della tipologia di rose presenti nel roseto.

Tutte le foto sono dell’autore.

In Copertina: il tratto terminale della salita prima di arrivare a Murta. Foto di Antonio Corrado.

Genova Novembre 2023

La Scalinata delle Tre Caravelle.

La realizzazione della scalinata monumentale rientra nell’ampio progetto di urbanizzazione che coinvolse l’intera area adiacente al torrente Bisagno e al quartiere della Foce, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Progettata e costruita tra il 1922 e il 1938 dall’architetto e urbanista Alfredo Fineschi, con la collaborazione del padre Pietro, l’opera si inserisce in un contesto di ammodernamento della città.

I due architetti operarono ampiamente a Genova, realizzando, tra l’altro, anche l’attiguo palazzo razionalista che oggi ospita la questura.

Qui sorgeva il raccordo tra le antiche mura cittadine, conosciute rispettivamente come Mura Vecchie Mura Nuove.

Questo tratto si sviluppava con una serie di terrazze orizzontali, collegando il cinquecentesco bastione delle Cappuccine alle seicentesche Fronti Basse.

Queste ultime furono spianate nel 1892, e circa trent’anni dopo la zona venne risistemata nell’assetto che ancora oggi ammiriamo.

Nel 2010 la zona è stata oggetto di un intervento di riqualificazione.

La scalinata, di ampie dimensioni, è composta da due ariose rampe separate da un’aiuola inclinata su più livelli e coltivata a prato inglese. L’aiuola è suddivisa verticalmente in tre sezioni, precedute da una quarta decorata con àncore stilizzate. In ciascuna delle tre sezioni spicca un motivo che richiama simbolicamente le tre caravelle utilizzate da Cristoforo Colombo nella sua impresa della scoperta dell’America nel 1492. Le caravelle sono raffigurate attraverso decorazioni floreali all’interno delle aiuole stesse.

La scala monumentale si apre di fronte al maestoso Arco della Vittoria, un arco di trionfo dedicato ai caduti della prima guerra mondiale, che domina il centro della sottostante Piazza della Vittoria.

Le tre caravelle, perpendicolarei alla sottostante via intitolata ad Armando Diaz, si innalzano sul lato destro del Liceo Classico Andrea D’Oria e sul lato sinistro del palazzo della Questura.

Un ampio giardino si estende verso le mura delle Cappuccine, proseguendo fino a raggiungere la spianata di Carignano.

In Copertina: la scalinata delle tre caravelle. Foto di Sergio Pippi.

Il Presepe di pietra di Arenzano.

L’entroterra di Arenzano si trasforma così nella scenografia della Natività, con terrazze, ripari e rifugi ricostruiti fedelmente grazie alla tecnica, oggi padroneggiata da pochi, dei muretti a secco.

Un’opera realizzata da Benedetto Damonte, con il supporto di Ino Caviglia, Francesco Damonte e altri collaboratori: il presepe, esposto per la prima volta nel 2016 nella vetrina di una gastronomia, ha riscosso così tanto successo che negli anni si è ampliato, diventando un autentico patrimonio di Arenzano, ora esposto nella sede dello IAT sul lungomare.

Il Rifugio Scarpegin, il Riparo Beppillo, la Ca’ da Gava, la Torre dei Saraceni, Ai Belli Venti e molti altri luoghi della memoria nel “presepe di pietra” di Arenzano, diventano così familiari protagonisti.

In Copertina: Il Presepe di Pietra di Arenzano.

Torre del Labirinto

La Torre del Labirinto, ancora esistente sebbene in stato di degrado, rappresenta uno degli esempi meglio conservati di strutture simili.

Situata nel quartiere della Coscia, è nascosta tra gli edifici compresi tra via Pietro Chiesa e piazza Barabino, da cui è parzialmente visibile.

Il nome curioso della torre, una delle diciotto presenti in zona in epoca medievale, deriva dal complesso intreccio di vicoli che la circondano.

Questo “labirinto urbanistico” è testimoniato dal toponimo, che richiama il disordine e la caotica disposizione delle strade di questo antico rione, come descritto da Giuseppe Revere nel 1858.

Egli lo definiva un “acervo di strade” dove persino i marinai, scampati alle tempeste del mare, finivano per perdersi, talvolta abbandonando il “timone” sotto l’influenza delle lusinghe di alcune donne locali, con conseguenze non sempre favorevoli per la loro “nave”.

La Torre del Labirinto. Foto di Stefano Ghiglione.

Questo quartiere ha una storia densa di eventi significativi, tra cui l’assalto dell’accampamento francese del generale Massena da parte degli abitanti della Coscia nel 1800, durante il blocco navale di Genova.

Questo atto di ribellione, motivato dalla fame causata dall’assedio, fu un tentativo riuscito di procurarsi viveri.

La Torre del Labirinto, una delle poche strutture sopravvissute di quell’epoca, è accessibile da via Pietro Chiesa, oltrepassando un archivolto chiuso da un cancello.

Nonostante sia celata tra le case, è ancora visibile da Piazza Barabino.

In Copertina: Torre del Labirinto. Foto di Stefano Ghiglione.

Il misterioso e dimenticato meali!

A Genova ancora per quelli della mia generazione nati inizio anni ’70 la parola meali aveva un significato ben preciso.

Non c’era infatti campetto, oratorio, sagrato, giardinetto o piazzetta dove durante la partita con questo termine venisse identificata la rimessa dal fondo.

Erano gli anni in cui al portiere non era richiesto il saper giocare coi piedi. Per fare bene il suo mestiere, ovvero quello di parare, bastava che sapesse usare con bravura le mani.

A quel tempo dunque la ripresa del gioco dal fondo avveniva con un lancio lungo del pallone che, prima di essere toccato da un compagno, doveva in ogni caso uscire dall’area di rigore.

Così molto spesso ad effettuare tale rinvio non era il portiere, bensì il libero o comunque il giocatore di movimento dotato del calcio più lungo.

Oggi invece è in voga -uso il termine tecnico- la “costruzione dal basso” che prevede l’avvio dell’azione proprio da parte del portiere che passa la palla (che non deve più necessariamente prima di essere toccata da un compagno uscire dall’area grande) ad uno dei due terzini posti ai vertici di quella piccola.

Eppure al di fuori dei confini provinciali la parola meali è sconosciuta. Semplicemente non esiste se non tramandata dalla tradizione orale delle cronache delle partite degli albori. Persino l’Accademia della Crusca interpellata a suo tempo sulla questione della sua genesi non ha saputo fornire una spiegazione definitiva.

Secondo alcuni infatti l’etimo della parola meali deriverebbe da una maccheronica onomatopeica traduzione dall’inglese della domanda rivolta all’arbitro “May I?” (posso battere?) oppure dalla storpiatura di “My line” (batto dalla mia linea) et “similia”.

Secondo altri l’origine sarebbe invece riconducibile all’espressione dialettale “Mèa li! (Guarda lì) per indicare dove mettere la palla per battere il rinvio dal fondo.

Facendo ricerche in rete sull’argomento mi sono imbattuto anche nelle suggestive quanto fantasiose ipotesi formulate dal sito Pagina2Cento secondo il quale la parola meali vanterebbe addirittura origini greche. In proposito riporti pari pari:

“… Un amico tifoso dell’Aris Salonicco ha suggerito che “me allì” in greco significa “con l’altra” (femminile). Starebbe per “gioca dal fondo con l’altra palla”: un cambio di attrezzo, insomma, come oggi i portieri fanno spesso. Ma all’epoca dei pionieri? Difficile.

Un altro amico, stavolta tifoso del Paok Salonicco, l’ha presa più sul filosofico: “se ci pensi, calcio d’angolo o rimessa dal fondo dipendono sempre da una decisione dell’arbitro, nonostante i giocatori pretendano sempre di aver ragione. Tutti sostengono di dire la verità al direttore di gara. E quando il fischietto decide, eccoci in presenza di un giudizio preso “me alithia”, che in greco vuol dire con verità. Per il corner era già popolare la parola inglese, ma goal kick no. Meali vuol dire che l’arbitro ha deciso per la rimessa dal fondo e che il suo giudizio è la verità di cui prendere atto”.

Meali deriverebbe da “Me alithia” in forma contratta? Mah… forse. Nessuno degli altri al tavolo aveva una spiegazione migliore. Tutti concordavano però su una cosa: meali aveva sicuramente un’origine ellenica, come (secondo i greci) il 99,99% delle parole nel mondo occidentale.

Avevo solo un ultimo quesito per loro: d’accordo l’origine greca, ma come si spiegherebbe l’uso di meali solo a Genova e nelle sue immediate vicinanze? Con questa domanda, ero sicuro di averli messi nel sacco. Mi hanno risposto in coro: “Semplice. Siete una città di mare e chi domina il mare, dai tempi dell’Iliade, sono i marinai greci. Saremo venuti a giocare da voi e vi avremo insegnato la parola meali”.
Parola che poi, in Grecia, non hanno mai utilizzato”.

Greci o non greci sicuramente il football in Italia, proprio per via degli scambi marittimi con gli inglesi, è nato proprio a Genova nel 1893 con la fondazione del Genoa CFC e quindi è plausibile che la parola meali sia frutto di questa contaminazione inizialmente onomatopeica poi assorbita nella lingua genovese.

Meali! Ovvero “Compagni guardate” avvertimento rivolto dal battitore ai giocatori sulle ali che sta per rilanciare in loro direzione.

Qualunque sia l’origine della parola di cui nella lingua italiana non si ha traccia, per me che da ragazzino facevo il portiere, il rinvio dal fondo, che sia io o il libero a calciare, sarà sempre il meali!

In Copertina: Meali battuto dal portiere durante una partita di campionato inglese di inizio secolo. Immagine tratta da Ulimouomo.com.

Il Provinciale “Genova è una canzone”.

Ieri sera su Rai Tre è andata in onda la puntata condotta da Federico Quaranta del “Provinciale il racconto dei racconti”.

La puntata dal titolo “Genova è una canzone” ha avuto appunto come tema principale il rapporto di Genova con la musica.

Ancora una volta il giornalista genovese ha colto nel segno fornendo un racconto appassionato e coinvolgente della sua città.

Le meravigliose immagini riprese dei droni hanno saputo accompagnare in modo emozionante la narrazione che ha preso a spunto la canzone d’autore per descrivere una Genova più autentica e fuori dai soliti luoghi e percorsi comuni.

Vero De André, come al solito è stato protagonista principale, ma anche Bindi, Tenco, Paoli e Lauzi hanno avuto tuttavia un loro spazio adeguato.

Grazie al contributo di Morgan e delle testimonianze degli altri artisti che hanno vissuto quel periodo cosi fecondo si è sfatato il mito dell’esistenza della Scuola Genovese.

Si è trattato dunque di un periodo di particolare fermento artistico che ha favorito lo sbocciare quasi simultaneo di tante singole irripetibili personalità, sviluppatesi in totale autonomia agevolate, questo si, dalla comune frequentazione con i fratelli Reverberi.

Federico Quaranta con Genova sullo sfondo ripresa dai monti alle sue spalle.

Ma Genova non è solo l’espressione dei suoi cantautori o il sarcasmo dei suoi comici.

Genova è anche la variegata umanità dei suoi caruggi, l’inarrivabile opulenza dei suoi palazzi, l’orgoglio della sua gloriosa storia millenaria, il coraggio dei suoi naviganti, la forza dei suoi camalli, l’intraprendenza dei suoi marinai e la laboriosità del suo porto.

Genova è schiva come il carattere dei suoi abitanti e Superba non nel senso di altezzosa, bensì in quello teorizzato da Caproni di rivolta verso l’alto con le case arroccate le une sulle altre, aggrappate sugli scogli in perenne tensione tra la montagna e il mare.

Perché Genova che del mare è Regina ha in quell’azzurro infinito orizzonte il respiro, nei forti sui monti che la cingono corona e nella sentinella della Lanterna, lo scettro.

E tutto questo, a differenza di Augias, Colò e Angela figlio, Federico Quaranta oltre a saperlo bene è riuscito anche a trasmetterlo con la passione dell’innamorato.

In Copertina: tramonto genovese.

Il Presepio genovese

La tradizione presepiale a Genova vanta una storia antichissima.

Della rappresentazione della Natività di Gesù Cristo infatti si ha notizia in città a partire dal XVII secolo quando in Santa Maria di Castello era già era attiva una Compagnia del Santo Presepio.

Si sa anche che al maestro intagliatore Matteo Castellino di suddetta Confraternita vennero commissionate diverse figure lignee destinate alla chiesa di San Giorgio.

A partire dunque dal XVII secolo a Genova è tutto un fiorire di botteghe di artisti del legno.

Sbocciano così i grandi maestri della scuola genovese quali, in ordine sparso, Bissone, Navone, Maragliano, Casanova, Storace, Ciurlo, Pittaluga, Pedevilla e tanti altri scultori che ne hanno così, con il loro talento, nobilitato la storia.

Oltre all’ambientazione legata al territorio il presepe o presepio genovese, per lo meno nella sua versione più antica, è caratterizzato dalla rappresentazione dei Magi a cavallo e non sui cammelli, dalla presenza del personaggio del mendicante e da quella del pastorello vestito di jeans.

La differenza sostanziale ad esempio tra le statuine genovesi e quelle partenopee consta nei materiali usati per animare i diversi personaggi, le genovesi avevano il corpo, la testa e le membra in legno intagliato e scolpito mentre le napoletane avevano il corpo in canapa  con le mani, i piedi e le teste in terracotta dipinta.

Per chi fosse interessato qui sul sito potrete trovare nella sezione racconti la descrizione di alcuni dei principali presepi cittadini.

«Il presepio è il trionfo dei genovesi»

Cit. Henry Haubert (1877-1940),” Città e genti d’Italia“. Sociologo francese.

In Copertina: Una delle scene del Presepe della Madonnetta forse il più famoso e affascinante presepe genovese. Foto di Stefano Eloggi.