Pane e pancogoli genovesi

A partire da fine ‘500 fino al ‘800 la di aveva riservato per sé il compito di produrre in esclusiva il pane.

Nel ‘300 i fornai chiedevano per ogni di mina (mina, unità di peso equivalente a circa 100 kg) quattro denari e mezzo in inverno e cinque in estate e due soldi e mezzo per una mina intera.
Curioso il metodo di lavorazione: l’impasto veniva depositato a terra su sacchi lungo una trave che si trovava in alto e sopra la quale si facevano passare delle corde, da uno degli estremi fissate, dall’altro pendenti.

Ad esse si tenevano con forza i lavoranti che con i piedi ricoperti da apposite calze impastavano la farina a sua volta ricoperta da sacchi come quelli sottostanti.

Più che la lievitazione del al Comune premeva invece, per non fomentare il malcontento interno, quella dei prezzi.

Persino Colombo in una delle due lettere indirizzate nel 1504 al Banco di San Giorgio se ne preoccupava dando precise indicazioni al figlio Diego di versare annualmente a la decima parte della rendita che avrebbe ricavato dai suoi redditi e privilegi, in sconto delle gabella sul grano, sul vino e su altre provviste che gravavano sul popolo.

Interno dell’atrio di San Giorgio con l’elenco delle per le singole merci. Sotto cinque cassette per il mugugno ai Magistrati del 1444, ai Magistrati del Sale, ai Revisori, ai Procuratori e ai Protettori.

Nel 1531, causa una grave carestia, si innescò una forte speculazione sul commercio delle granaglie e così i collegi, per garantire il a prezzi calmierati, istituirono dei forni pubblici.

Nel 1590, conseguenza di un’ulteriore pesante siccità che distrusse i raccolti dalla Spagna al Levante, il costo dei grani subì un nuovo forte aumento. Il Banco di San Giorgio, per far fronte alla crisi, concesse allora prestiti quasi gratuiti e si accollò le perdite dei forni.

A causa della penuria di grano si stabilì con un decreto che le navi che portavano grano a godessero del privilegio del portus immuni, ovvero del porto franco“. (G. Giacchero 1984).

Gli uffici del Comune e il magistrato dell’Abbondanza ricevettero in seguito continue lamentele per la pessima cottura e la bassa qualità delle farine utilizzate.

Questa tipologia di pane, venduto a prezzo politico, proprio per la sua scadente qualità, fu chiamato da cavallotto, ovvero da quattro soldi.

I forni genovesi quindi erano in origine attigui al Portofranco ma vennero spostati per permettere di ingrandire lo stesso ed anche per allontanare il fuoco, pericoloso per le altre mercanzie.

Per questo con decreto del 18 agosto 1722 venne data la possibilità di costruire nuovi forni a Castelletto.

Contribuì alla spesa di nuovo il Banco di San Giorgio, elargendo lire centoventimila di “numerata valuta” e lire duecentomila di “moneta corrente”. La nuova fabbrica, ricca di acqua, fu installata e terminata in periodo di dominazione francese.

I fornai, detti pancogoli, applicavano con un ferro rovente un marchio per contrastare le frodi.

Ad esempio si ha traccia di un curioso documento in cui un fornaio tal Simone annota fra le spese sostenute l’acquisto di un marchio “Pro signandis fugaciis”. La focaccia già a quel tempo era dunque tutelata.

Nel 1839 il Comune, considerato l’elevato costo di produzione, rinunciò al suo monopolio e concesse in appalto ai fornai la fabbricazione del pane. Si stabilì che il prezzo del pane venisse fissato secondo il valore del frumento.

Ancora oggi nei pressi della Maddalena, alle pendici del monte Albano, restano i toponimi di Vico dei Fornai (oggi soppresso), Piazza dietro i Forni e Salita dei Molini a testimoniare l’antica vocazione della zona.

A chi ha famme, o pan o ghe pá lazagne“. Proverbio genovese. Traduz. “A chi ha fame, il pane sembra lasagne”.

In Copertina: La Preparazione del pane. Dal Theatrum sanitatis. Codice miniato del XIV secolo.

Ciupin

Ogni regione italiana affacciata sul mare presenta in tavola la propria versione della zuppa di pesce. Forse il caciucco livornese, il brodetto alla vastese marchigiano e il ciambotto pugliese ne costituiscono gli esempi più conosciuti.

In Liguria esistono addirittura due preparazioni di zuppa di pesce: il Ciupín (o Ciuppín) e la Buridda che differiscono sostanzialmente solo per l’aggiunta di carciofi o piselli nel caso della buridda e per la consistenza dell’intingolo, più simile nel Ciupín, ad un passato.

Il termine ciupin desunto dall’ ispano americano “chupín” sta ad indicare infatti cibo a base di patate, pomodoro e pesce, cotto nel vino bianco che, a sua volta, deriva dal verbo “chupar” succhiare, sorbire.

Il vocabolo Buridda invece deriva addirittura da un termine della lingua araba che può essere tradotto come “pezzi” o “pezzetti“. Difatti, il pesce nella Buridda Ligure è presente in piccoli bocconi.

Tornando al Ciupín guarda caso i paesi dove questa preparazione è assai nota sono proprio Argentina e Uruguay, terre in cui l’incontro degli emigranti genovesi con le popolazioni locali ha prodotto un reciproco influsso e arricchimento sia culturale che gastronomico.

Curioso poi che da questi territori questo cibo si sia diffuso più a nord in California dove il Ciupín o cioppino, originario proprio della comunità di pescatori liguri che a partire dalla seconda metà del ‘Ottocento frequentavano la baia di San Francisco, sia diventato piatto tipico.

Infatti nostante si creda che cioppino, il termine usato per indicare il piatto negli States, provenga dal termine inglese “chip-in“, che significa “contribuire” e che veniva utilizzato dai pescatori di San Francisco quando elemosinavano il cibo, la parola deriva in realtà dal ligure “ciuppìn“, che può indicare al contempo una “piccola zuppa” oppure il tagliare a pezzetti degli avanzi di cibo che servivano a preparare lo stufato.

La ricetta originale del ciuppin ligure prevede: scorfani, gallinelle, rane pescatrici, gronghi, seppie e crostacei insaporiti con pomodori, cipolle, aglio, vino, e prezzemolo tritato. Il piatto viene in genere servito con gallette del marinaio o del pane abbrustolito.

Nella versione di San Francisco, il cioppino è uno stufato di pesce e salsa di pomodoro ricavato con il pescato del giorno, fra cui granchi, vongole, gamberi, capesante, cozze, calamari e pesci della costa del Pacifico, condito con pomodori freschi e salsa di vino. Anche qui Il cioppino può essere accompagnato con pane tostato o con una baguette. Durante la preparazione, i frutti di mare sono cotti nel brodo e serviti ancora nel guscio.

  • Pesci di scoglio misti: un chilo
  • Un bicchiere d’olio extra vergine d’oliva
  • Un ciuffo di prezzemolo
  • Una cipolla media
  • Due acciughe  salate
  • Tre pomodori perini maturi
  • Un bicchiere di vino bianco secco
  • Sale
  • Quattro fette di pane casereccio

In Copertina: Il Ciupín. Foto tratta da Zenet Zeneixi e liguri nel mondo.

O Baxeichito

Al civ. n. 17 di vico Denegri si trova una delle più antiche osterie di Genova e d’Italia.

Una volta si chiamava Osteria della Colomba ed era una delle più frequentate della zona portuale.

Qui la notte del 3 febbraio 1834 pernottò Giuseppe Garibaldi in procinto di dichiarare, prevista per il giorno dopo, l’insurrezione popolare.

Smascherato il suo proposito riuscì, sfuggendo alla cattura grazie all’aiuto dell’ostessa Caterina Boscovich, a riparare nella natia Nizza in attesa di tempi migliori.

La taverna, come amano chiamarla i suoi avventori abituali, nel secolo scorso per decenni era nota, dal nome del suo istrionico proprietario, come Osteria Picetti.

Per noi ragazzi in quegli anni ’90 era una tappa d’obbligo per ascoltare musica dal vivo e soprattutto sorseggiare il baxeichito.

Il baxeichito è un cocktail a geniale imitazione del celebre mojito cubano dal quale si differenziava per la sostituzione della menta con il basilico.

– 5 cl Rum bianco
– 2.5 cl succo di lime
– 2 cucchiaini di zucchero di canna
– 5/6 foglie di basilico
– acqua gasata (o acqua di Seltz o soda).

Foto di Francesco Pizzetti.

Scomparso Gigi il 7 dicembre scorso il compito di portare avanti la tradizione dell’Ostaia de’Banchi spetta ai due nuovi timonieri Stefano e Sergio.

“E desgrazie son de lungo pronte comme e töe de ostaie”. Proverbio Genovese.

In Copertina: interno dell’Ostaia. Foto di Armando Farina.

Febbraio 2023

Gli Sgabei

Per raccontare questo semplice piatto sconfino nello spezzino dove gli sgabei costituiscono, sia nella Val di Magra che nella Lunigiana, una pietanza povera e tradizionale.

Gli sgabei sono delle soffici frittelle di pasta di pane lievitata al profumo di salvia e fritta. Si possono gustare al naturale o farcite e/o accompagnate con formaggi e salumi.

Da non confondersi con i panigacci da cui questi ultimi differiscono per il tipo di cottura in appositi testi, secondo i puristi gli sgabei vanno serviti tagliati a striscioline.

Sgabei. Foto di Armando Pittaluga.

Nati come antipasto vengono proposti anche come aperitivo o reinventati, imbottiti di cioccolata o crema pasticcera, come dolce.

Sgabei pronti da cuocere. Foto e preparazione di Sara Drovandi.
  • Pasta di pane  lievitata 500 gr.
  • Olio extravergine d’oliva
  • Foglie di salvia (opzionale)
  • Sale
  • Impastate la pasta con l’olio. Formatene dei pezzetti grossi come noci e allargateli con le dita creando delle vere e proprie striscioline. Sopra ognuno di essi andate a porre delle foglie di salvia, premendole un poco. Noi vi proponiamo questa versione che prevede la salvia, ma la tradizione rimanda anche a sgabei frittelle di pasta  al naturale. A questo punto rimettete a lievitare per circa un’ora. Friggete in olio caldo e salate, successivamente.

In Copertina: Sgabei. Foto e preparazione di Sara Drovandi.

Il carciofo di Napoleone

Perinaldo è un grazioso borgo medievale in provincia di Imperia, famoso per aver dato i natali a Gian Domenico Cassini, illustre scienziato (matematico e astronomo), membro dal 1668 dell’Accademia delle Scienze di Francia e Direttore del primo Osservatorio Scientifico di Parigi.

Perinaldo gli ha intitolato il locale Osservatorio scientifico e Genova, dove ha studiato presso il collegio dei Gesuiti, il più prestigioso liceo scientifico cittadino.

Ritratto di Cassini con gli strumenti della sua disciplina

Ma Perinaldo si distingue anche per la coltivazione di un particolare tipo di ortaggio assai apprezzato e rinomato per le sue proprietà e caratteristiche:

un carciofo, tenero, senza spine e dal peculiare colore violetto.

Si prepara in insalata, abbinato a carni o selvaggina, protagonista di frittatine, al forno con parmigiano e funghi o in semplici frittelle con aglio e prezzemolo.

Ma a mio modesto parere il modo in cui le sue qualità vengono valorizzate al meglio è gustato crudo in pinzimonio o in carpaccio.

Si narra che che ad importare questo carciofo sia stato un generale francese dell’esercito napoleonico, secondo alcuni addirittura Napoleone stesso in persona.

Costui durante la campagna d’Italia nel 1796 scoprì, ospite di una nobile famiglia di Perinaldo, che i carciofi “violet” della vicina Provenza erano sconosciuti e decise quindi di donarne alcune piantine agli abitanti del borgo in modo che potessero coltivarlo.

Così complice il clima favorevole il carciofo provenzale ha trovato a Perinaldo il suo ambiente ideale.

Non è un caso quindi che in lingua genovese, dal francese artichaut, il carciofo venga chiamato articiòcca.

In Copertina: il carciofo di Perinaldo. Foto degli Allevatori e Aziende agricole di Perinaldo.

I Panigacci

Quando mi trovo nella sede delle mie vacanze estive a Deiva Marina (Sp) è d’obbligo una tappa in Lunigiana per gustare i panigacci, un piatto che ben si presta alla convivialità a tavola.

I panigacci infatti sono tipici della Lunigiana e del levante ligure dove prendono il nome di Panigazzi. Sono originari delle località di Podenzana (Ms) in Toscana e di Bolano (Sp), in Liguria.

Sono realizzati con acqua, farina e sale e si preparano mescolando gli ingredienti fino a ottenere una pastella fluida. Tale pastella viene quindi versata nei testi, precedentemente lasciati arroventare su di un fuoco vivace, tipicamente in un falò o in un forno a legna.

Quando sono roventi al calor rosso, vengono estratti dal forno e fatti raffreddare un poco poi viene fatta una pila di testi, in modo tale che stando nel mezzo la pastella si cuocia sui due lati.

I panigazzi così cuociono in pochi minuti a temperature molto alte e non necessitano di lievitazione.

Una volta “smontata” la pila si servono in cestini di vimini accompagnati con salumi e formaggi cremosi.

In Liguria i testi di terracotta e mica (minerale resistente al calore) vengono fabbricati da tempo immemore ad Iscioli, una piccola frazione del comune di Ne. Nonostante la loro produzione sia un’ arte che va lentamente scomparendo, si possono ancora trovare nelle botteghe e nei consorzi agrari dell’entroterra di Chiavari.

Durante la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi distrussero un ponte che collegava il comune di Podenzana con il resto della regione, gli abitanti del borgo sopravvissero mangiando panigacci fatti con farina di ghiande e castagne.

Oggi costituiscono la principale pietanza proposta nei menù delle trattorie del territorio.

In Copertina: I Panigacci. Foto tratta dalla Bottega del Panigaccio. Podenzana (Ms).

Il Bagnùn de Ancioe

Il Bagnùn de Ancioe (Bagnùn di Acciughe) è il piatto tipico di Riva Trigoso, borgo marinaro, frazione della, con le sue celebri baie, più nota Sestri Levante.

Si tratta di una zuppa a base di acciughe, pomodoro, gallette del marinaio e olio.

Quelle stesse gallette del marinaio un po’ pane e un po’ biscotto ingrediente insostituibile di un altro capolavoro della cucina ligure, il Cappon Magro.

Il Bagnùn nasce a bordo delle lampare e dei leudi quando già nel ‘800, essendo l’acciuga la regina del pescato, i marinai lo cuocevano sui fornelli a carbone.


Da 1960 al Bagnùn viene dedicata un’apposita sagra estiva il penultimo fine settimana luglio.

Pescatori al lavoro durante la sagra del Bagnùn.

In quest’occasione la zuppa offerta gratis, pena interminabili code smaltite con zelo dai volontari, attira migliaia di visitatori.

Il Bagnùn si può comunque gustare, pescato permettendo, tutto l’anno nelle trattorie del borgo e dei paesi limitrofi.

Se passate nel Golfo del Tigullio, merita, non perdetevelo. Un piatto sincero e verace della nostra tradizione.


Ingredienti e dosi (Per 4 persone)

  • 1 kg di acciughe fresche
  • 1-2 spicchi d’aglio
  • un ciuffo di prezzemolo
  • 1 mazzo di basilico
  • 1 cipolla
  • 500 g di pomodori da sugo
  • 1 bicchiere di vino bianco secco
  • 2 cucchiai d’olio extravergine (possibilmente ligure)
  • 4 gallette del marinaio
  • sale q.b
    Preparazione
    Pulire bene e sviscerare le acciughe.
    Tritare le verdure (escluso il basilico) e soffriggerle in padella nell’olio, fino a ché imbiondiscono.
    Eliminare l’aglio.
    Unire i pomodori anch’essi tritati, regolando di sale e cuocendo per una decina di minuti.
    Aggiungere le acciughe e cuocere, senza mai scuotere il tegame, un’altra decina di minuti, col vino bianco, a fuoco moderato.
    Impiattare il Bagnùn nelle fondine, sopra le gallette, bagnate prima nel vino bianco e precedentemente strofinate con aglio.

    Ricetta dal sito Il Tigullio.

In Copertina: Il Bagnùn. Foto di Ambrogio Razzini.

Tortino di acciughe alla maniera di Vernazza

Nella maggior parte d’Italia le chiamano alici, qui in Liguria sono le acciughe e sono un vero e proprio culto, in particolare nella riviera di Levante, molto apprezzate quelle di Monterosso.

In realtà non vi è località sulla costa che non organizzi una sagra a tema, la più famosa delle quali è senza dubbio quella del Bagnun di Riva Trigoso.

Qui invece ho deciso di soffermarmi sul tortino di acciughe che si può declinare in mille modi come, ad esempio nella versione del Tian (tegame di Vernazza) o, in modalità autunnale con funghi porcini.

Tortino di acciughe. Foto e preparazione dell’autore.

Io ne ho elaborato una versione al forno con due strati alternati di patate e acciughe farciti con capperi, aglio, pomodorini, cipolla, maggiorana e origano.

Non ho aggiunto, anche se molte ricette lo prevedono, il parmigiano al fine di non coprire ma preservare il sapore dell’acciuga.

Prodotti dell’orto e pesci del mare si fondono in un invitante connubio.

In Copertina: Tortino di acciughe pronto da infornare. Foto e preparazione dell’autore.

La Mostardella

La Liguria -si sa- non gode di grande fama nell’ambito dell’arte della preparazione dei salumi.

A parte infatti i prodotti di Castiglione Chiavarese e di S. Olcese non abbiamo una grande tradizione in materia.

Proprio a S. Olcese, oltre al celebre salame di cui è un derivato, si prepara la mostardella un goloso insaccato realizzato con le parti di carne bovina più filacciose e meno pregiate.
Si consuma prevalentemente cruda oppure cotta e abbrustolita, tagliata a fette spesse, sulla piastra della stufa.

O almeno così lo cucinavano i nonni polceveraschi di mia moglie che me l’hanno fatta conoscere ed apprezzare.

Ricordo la soddisfazione di nonno Valle nell’offrirmi la mostardella accompagnata alle uova, appena colte dal pollaio, cotte al tegamino.

Uova al tegamino. Foto e maldestra preparazione dell’autore.

La mostardella è un prodotto di nicchia poco noto non facilmente reperibile se non nelle rivendite del territorio polceverasco.

Io, ad esempio, me la procuro presso la macelleria Martini località Santa Marta di Ceranesi.

La mostardella viene anche chiamata salame del contadino o dei poveri perché ottenuta con gli scarti dei tagli utili al confezionamento del più nobile S. Olcese e destinata quindi in origine ad un consumo più domestico che commerciale.

Eppure l’insaccato contenuto in un budello naturale di bovino, realizzato con le parti più filacciose e l’aggiunta di lardo di maiale, è davvero sapido e gustoso.

Ogni 25 aprile a S. Olcese oltre alla festa della Liberazione, si celebra la sagra del salame.

In occasione di tale evento è possibile anche gustare la mostardella alla quale è stata dedicata, al fine di valorizzarla e diffonderne la conoscenza, una manifestazione parallela.

Il consumo di questo salume in queste valli è radicato nei secoli e diventa tradizione: si tramanda infatti che, nei tempi passati, i giovani della Valpolcevera in cerca di moglie portassero l’insaccato a casa dei potenziali futuri suoceri come dono.

Se questi accettavano il presente e affettavano il salume stava a significare che il matrimonio era consentito.

Un’ultima curiosità racconta invece di tempi duri e di povertà in cui, durante l’inverno, i contadini si riciclavano, non potendo lavorare nei campi, come garzoni dei salumieri e venivano retribuiti con un chilo e mezzo di mostardella e una lira a settimana.

In Copertina: la Mostardella. Foto dell’autore.

Focaccette e focaccia di patate

Per me la focaccetta di patate è legata al ricordo dei nonni, polceveraschi doc, di mia moglie.

Circa trent’anni fa infatti quando eravamo ancora fidanzati rammento che alla domenica sera sovente mi fermavo ospite a cena nella loro casa sul rio Ciliegio di Trasta.

Indimenticabile il profumo delle focaccette impastate da nonna Luigina il cui invitante aroma si diffondeva nella stanza durante il pasto.

Perché si nelle casa dei nonni non c’erano “squesgi” o formalità si cenava insieme sullo stesso tavolo della cucina, dove poche ore prima si era impastato sulla madia i taglierini per pranzo, accanto alla stufa.

Ho detto focaccette e non focaccia perché a differenza di quest’ultima le prime erano lievitate e fritte singolarmente.

La focaccia invece era un grande impasto unico cotto nel forno dal quale ricavare le singole porzioni da servire al posto del pane. Soffici le focaccette, morbida e alta la focaccia.

Io preferivo, seppure il gusto fosse simile, quest’ultima versione più leggera perché facilitava la convivialità dello stare insieme e la condivisione.

E così nonno Valle mentre aspettava la sua fetta riempiva i bicchieri, quei gotti spessi da osteria, di croatina quel vino rosso rubino dal gusto sincero dal cui vitigno si ricava anche la più nobile bonarda.

Focaccia di patate. Foto e preparazione dell’autore.

Le focaccette e la focaccia di patate erano accompagnate a formaggi e affettati ma il modo in cui preferivo gustarle era con la mostardella, il salume tipico della zona.

Mostardella così cruda, tagliata come un qualsiasi salame o, più spesso cotta a fette spesse direttamente sulla ciappa della stufa a legna, da sola o in aggiunta alle uova appena colte dal pollaio.

Cibi semplici e rustici della tradizione che come les madeleines della zia di Proust nella sua “À la recherche du temps perdu”, si legano indissolubilmente ai ricordi più profondi ed hanno la capacità di suscitare le emozioni più intime.

Ricetta Focaccette:

  • 500 gr farina Manitoba
  • 200 gr patate
  • 1 cubetto di lievito di birra
  • 150 gr latte tiepido
  • 100 gr acqua tiepida
  • 3 cucchiai di olio evo
  • 2 cucchiaini di zucchero
  • 2 cucchiaini di sale fino
  • Olio per friggere mono seme

Ricetta Focaccia:

  • 300 gr. di farina di grano duro
  • 200 gr. di farina tipo 00
  • 200 gr. di patate
  • 300 ml. di acqua
  • 50 gr. di olio evo
  • 15 gr. di sale
  • 12 gr. di lievito di birra fresco o 3,5 gr. di lievito per preparazioni salate.