Un incontro visionario…

Ci incontriamo a pochi passi dalla sua casa natale alla Liquoreria Marescotti in via Fossatello.

Mazzini siede composto, lo sguardo profondo e vigile, ordina una fetta di torta alle mandorle, la sua preferita. Io invece consapevole di trovarmi davanti alla storia, per farmi coraggio, sorseggio un Lagavullin.

Casa natale di Mazzin in Via Lomellini 11. Dal 1915 Museo del Risorgimento. Foto dell’autore.

Maestro -rompo il ghiaccio io- cosa si prova a tornare a casa, dopo tanto esilio?

Tanta emozione e riconoscenza verso questa città che molte volte mi ha protetto.

Come quella volta quando durante la rivolta del 1857 mi rifugiai, braccato dalla polizia sabauda, in Vico delle Monachette. In quel dedalo di vicoli angusti e ostili ai foresti, mi sentivo al sicuro.

Suo padre, se non erro, era medico, vero?

Sì, si chiamava Giacomo.
Un uomo tutto d’un pezzo, di poche parole e mani sicure, caratteristiche queste proprie di noi genovesi. Ricordo che, da bambino ogni tanto, lo accompagnavo nelle visite ai poveri.
Non prendeva mai denaro da chi non poteva pagare.
Una volta curò un vecchio marinaio che non aveva neppure le scarpe.
Quando uscimmo, gli dissi: “Papà, non ti ha dato niente.”
Lui mi rispose: “Mi ha dato la fiducia. E quella, Pippo, vale più di qualunque compenso ”

183 North Gower Street, Bloomsbury, la dimora londinese di Mazzini. Foto dal web.

Credo di aver compreso quel giorno con il suo esempio cosa significhi essere fedeli a se stessi e servire una causa.

Il suo sguardo si allontana all’orizzonte come se stesse rivivendo la scena poi riprende a guardarmi negli occhi con quella franchezza austera che solo i grandi idealisti e le coscienze pure possono permettersi.

Sua madre Maria Drago -riprendo emozionato il filo del discorso- le fu sempre vicina, anche da lontano, seguì con grande partecipazione le sue vicissitudini.

Sempre.

I suoi consigli, anche se a volte non li ho seguiti, sono stati preziosi per me.
Le sue lettere erano la mia patria quando non ne avevo una.
Mi chiamava “Giuseppino”, anche quando il mondo mi chiamava traditore.
Ogni parola sua era una carezza di Genova che mi arrivava fino a Londra, in Svizzera o ovunque mi trovassi.

Maria Drago, la madre che scrisse al figlio più di cento lettere, senza mai rimproverarlo davvero.
E Giacomo, il padre che gli insegnò a curare senza chiedere nulla in cambio.
Da loro nacque un visionario che avrebbe tentato di guarire un popolo intero e di dare un’identità unitaria a tutto un continente. Chimere ancora oggi ben lontane dall’essere realizzate.

Monumento dedicato a Mazzini in Piazza Corvetto. Realizzato nel 1882 dallo scultore Pietro Costa. Foto di Antonio Corrado.

Ci alziamo dal tavolino, la torta non sarà stata buona come quella che gli preparava la mamma, ma di certo gli è piaciuta e proseguiamo la nostra chiacchierata passeggiando in direzione del Porto Antico.

Eppure, Maestro, la sua vita è stata piena di fughe, arresti, processi e delusioni. Non si è mai chiesto se ne valesse la pena?

Ogni notte, sì. Ma poi guardavo le stelle.
Sono le stesse che brillano sopra Genova, sopra Londra, sopra Berna.
E pensavo: la patria non è un luogo, è un dovere che ti segue ovunque e al quale non puoi sottrarti.

Ricordo ancora la sera del 26 aprile del 1827. Non avevo ancora compiuto ventidue anni quando titubante ma pieno di speranze varcai l’atrio di Palazzo Baxadonne al civ. n. 32 di Via San Giorgio, sede della Carboneria genovese.

Palazzo Baxadonne De Franchi in via San Giorgio 32. Foto di Ettore Parodi.

Dunque lei era davvero un massone come sostengono in molti?

La parola massone deriva dal francese “macon”e significa muratore libero. In questo senso quindi si, essendo un costruttore di democrazia dallo spirito libero, si lo ero!

Giuseppe prosegue ora serio e determinato:

A Marsiglia fondai la Giovine Italia.
Abitavo sopra un’osteria e scrivevo i miei proclami con il clamore gente che rideva e brindava, di sottofondo.
La rivoluzione nasce sempre tra i rumori del mondo: non in silenzio, ma in mezzo alla vita.

La storia non è fatta di soli ideali, ma anche di compromessi, lo so bene e anche di percorsi disegnati dal destino.

A Londra invece conobbi e frequentai, fra gli altri, anche Mary Shelley (vedova del poeta P.B. Shelley), Anne Isabella Milbanke (vedova di Lord Byron, mio idolo di gioventù), il filosofo ed economista John Stuart Mill, Thomas Carlyle e sua moglie Jane Welsh, lo scrittore Charles Dickens, che finanziò la mia scuola e al quale consigliai di visitare Genova e il poeta decadente Algernon Swinburne che mi dedicò addirittura un’ode.

Ma è vero che fece amicizia anche con Marx?

Abitavamo nello stesso quartiere ma l’ho incrociato solo qualche volta a distanza al Red Lyon dove arringava, tra un boccale di birra e l’altro, i suoi adepti. Abbiamo intrattenuto -questo si- un lungo confronto ideologico epistolare. Ci siamo sempre rispettati, ma mai stimati. Lui mi definì “un utopista borghese” ed io, di contro, disprezzavo il suo socialismo ateo e materialista che contrastava con i miei valori morali e spirituali di libertà.

A proposito di libertà: E se oggi il suo apostolo potesse dare un consiglio ai posteri?
Mazzini volge ora lo sguardo al mare e il tono si fa grave.
L’Italia è nata, ma non ancora raggiunto la maturità.
È come un ragazza che ha il nome di suo padre ma non ne ha ancora il carattere.
Per diventare finalmente adulta dovrà imparare la dignità, la giustizia, la bontà.

.. e- mi permetto di aggiungere io- l’onestà….

Ah! Certo l’onestà, questa sconosciuta nella nostre misera indole di adulatori dei padroni.

Per quanti secoli abbiamo preferito alla nostra integrità lo squallido opportunismo mirabilmente riassunto nel ‘500 da Guicciardini “Franza o Spagna pur che se magna?

La tomba di Mazzini nel cimitero monumentale di Staglieno a Genova. Foto di Antonella Rossi.

Dite ai giovani che la libertà non è un dono, ma una conquista da difendere tutti i giorni.
E che i sogni, anche quando sembrano fallire, lasciano sempre un segno nella realtà, un piccolo passo lungo l’arduo cammino verso la giustizia.

Io ho sognato un popolo, ma ho amato una famiglia — la mia, e quella che volevo far nascere: l’Italia.

“Ebbi a lottare con il più grande dei soldati, Napoleone. Giunsi a mettere d’accordo tra loro imperatori, re e papi. Nessuno mi dette maggiori fastidi di un brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha nome: Giuseppe Mazzini”

Cit: Klemens Wenzel Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein Coblenza 1773 – Vienna 1859 Diplomatico e politico austriaco.

Genova, oltre ad avergli eretto un monumento nella principale piazza ottocentesca e reso la sua casa natale museo del Risorgimento, ha intitolato al suo illustre figlio una strada, un liceo, e una galleria.

In Copertina. ritratto ottocentesco di Giuseppe Mazzini.

Vico chiuso Paggi

Dietro Piazza Cavour si trova Vico chiuso Paggi sul quale si staglia confinante con l’omonimo vicolo il Palazzo detto dei Mattoni Rossi.

La famiglia Paggi giunse a Genova da Chiavari attorno al 1150 e con la riforma degli Alberghi del 1528 confluì nei De Marini.

Sul finire del secolo scorso la zona è stata privatizzata con tanto di parcheggio sotterraneo e appunto chiusa al pubblico passaggio.

Qui restano malinconiche tracce di archi medievali e un calco di un capitello del III secolo. Durante gli scavi precedenti alla ricostruzione del palazzo bombardato durante la seconda guerra mondiale sono emersi alcuni ambienti, forse del I secolo, adibiti a mercato o macello.

Gli storici concordano nell’affermare che questa zona ebbe anche la funzione di sepolcreto e, attorno all’VIII secolo, venne adibita, vista la vicinanza ai moli portuali, ad abitazione.

Purtroppo, a differenza di quanto recentemente trovato sotto la Loggia di Banchi, in questo caso non si ha avuto cura di tracciarne testimonianza.

In Copertina: Vico chiuso Paggi ripreso da Piazza Cavour.

Guglielmo… il gigante che venne dal mare..

Sotto il Mandraccio soffia un forte vento di tramontana che spazza tutti gli olezzi del porto.
Laggiù, dove “l’aria è carica di sale e gonfia di odori” il mare lambisce incessantemente le ardesie antiche. Se tendi l’orecchio pare di sentire una voce ruvida, come temprata dal viaggio e dal ferro. È la voce intrisa di salsedine di Guglielmo Embriaco, detto Testadimaglio, figlio di una città che da sempre sa intrecciare coraggio e commercio, fede e astuzia, mercanti e soldati.

Guglielmo Embriaco dipinto e dipinto sul prospetto di Palazzo San Giorgio da Ludovico Pogliaghi (1857-1950). Pittore e scultore.

«Non so perché mi chiamino così,» esordisce sornione, «forse perché, quando mi metto in testa una cosa, non c’è muro che tenga, o forse per la mia inusuale prestanza fisica che mi fa somigliare piuttosto ad un guerriero vichingo».

Gli occhi chiari, blu come il mare, si accendono quando parla della sua Genova.
«Una città piena di opportunità per chi le sapeva cogliere. Bisognava però avere il coraggio di abbandonare le certezze della terra ferma per salpare verso gli imprevisti dell’ignoto marino. Ed io di coraggio ne avevo davvero da vendere. A quel tempo la mia città odorava di spezie e di pece, di reti stese al sole e si sentiva l’eco di voci in mille lingue diverse, rimbombare in ogni caruggio. Un porto di mare è così: un brulicare di genti affaccendate alle quali non si ha nemmeno tempo di chiedere la provenienza.

Cappella Dogale. Sulla parete di destra, dando le spalle all’ingresso, è raffigurata La presa di Gerusalemme da parte di Guglielmo Embriaco

Noi Embriaci avevamo navi, fondachi e contatti in mezzo mondo. Ma soprattutto eravamo ambiziosi e avevamo fame: di gloria, di rotte nuove, di ricchezze e terre da conquistare.»

Dettaglio dell’affresco realizzato da Giovanni Battista Carlone fra il 1653 e il 1655.

Il suo sguardo si fissa impaziente all’orizzonte scrutando il mare come se aspettasse ora il vento giusto per gonfiare le vele e riprendere il largo verso chissà quale destinazione d’Oltremare. Forse quella Gibelletto in Libano di cui, su concessione del Conte Bertrand di Saint Gilles divenne, a riprova del lignaggio ottenuto, signore per oltre vent’anni.

“Per la prima Crociata, io e mio fratello Primo armammo due legni: l”Embriaca e la Grifona. Forti di circa 200 uomini arrivammo al porto di Giaffa in Terrasanta. Quando vidi in lontananza comparire la flotta degli infedeli capii che non si vince solo con la spada. Se fossimo andati allo scontro in inferiorità numerica avrei avuto la peggio e non sarei qui a raccontare la mia epopea.

“Guglielmo Embriaco espugna Gerusalemme” affresco di Lazzaro Tavarone presso il Palazzo Cattaneo Adorno di Via Garibaldi 10. Immagine dal web.

Ci voleva l’ingegno. Così smontammo le navi — le nostre gagliarde galee genovesi — e ne facemmo torri d’assedio. Il legno del mare divenne scala verso il cielo. E le possenti mura di Gerusalemme cedettero sotto i dardi dei miei Balestrieri davanti agli sguardi increduli sia di Iftikhar ad-Dawla (governatore fatimide della città) che di Goffredo di Buglione (Duca di Lorena e comandante della spedizione crociata).

Ride piano, con un’ombra d’orgoglio.
«Fu un gesto di follia o di fede, non saprei. Ma certo di genovesità pura: non si getta via niente, figurarsi se si rinuncia ad una nave. Per primo scalai le mura e feci gran strage di nemici. Il resto è scritto nei libri. Ci ha pensato Caffaro a far si che non si perdesse traccia di quell’incredibile impresa»

Il Sacro Catino custodito presso il Museo del Tesoro della Cattedrale di San Lorenzo a Genova. Foto dell’autore.

Suo fratello Primo fu nominato governatore della città e Guglielmo ottenne per Genova in nome del Capitolo di San Lorenzo, un fondaco, un pozzo, una chiesa, trenta case e un terzo del bottino.

“E poi che soddisfazione, che orgoglio, vedere inciso sull’architrave del Santo Sepolcro di Gerusalemme l’epigrafe che recitava: Praepotens Genuensium Praesidium“(potentissimo presidio dei genovesi). Eloquente e prestigioso riconoscimento dell’operato dei genovesi voluto da Goffredo di Buglione in persona per onorarne la forza.

Quando tornò a Genova, le campane suonavano a festa. Sulla spiaggia di Capo d’Arena ad accoglierlo c’è tutta la cittadinanza con in testa nientepopodimeno che il Vescovo. Nei carruggi si parlava solo di Testa di Maglio, “Guglielmo il conquistatore di Gerusalemme”. Portava con sé un tesoro, il Sacro Catino (per molti secoli ritenuto il Sacro Graal), le reliquie del Battista, onori, e un nome che sarebbe rimasto scolpito nella pietra per l’eternità. Ma lui, racconta, voleva solo tornare a casa, rivedere il suo mare e dimostrare a suo padre di che pasta fosse fatto.
«Severa e un po’ matrigna è la mia città. Prima ti forgia e prepara, poi ti accoglie e ti misura nello stesso tempo. Ti chiede cosa hai portato indietro. Io risposi: “Una storia, e un orizzonte più largo di quello che avevo lasciato”».

Le ombre frattanto si fanno largo sulla piazza dove si staglia superba la sua torre di famiglia secolare testimonianza del suo prestigio. In realtà-precisa lui- questa torre non è la mia (che invece si trovava poco più sopra) ma è quella dei De Castro.

La Torre De Castro per secoli erroneamente ritenuta Torre Embriaci. Foto dell’autore.

Al calar del sole la voce di Guglielmo si dissolve tra le grida dei gabbiani.
Ma se chiudi gli occhi, puoi ancora sentirlo ridere piano, come un vecchio marinaio che sa di aver lasciato il proprio nome inciso non su una lapide, ma su un’onda. Proprio come il pescatore di De André che “all’ombra dell’ultimo sole si era assopito e aveva un solco lungo il viso, come una specie di sorriso”

L’Archivolto di Santa Maria in Passione individuato dagli storici come la base di una delle due vere torri Embriaci. Foto di Stefano Eloggi.

Eppure sulla cresta di quell’onda è nata la gloriosa storia della Repubblica marinara di Genova con i suoi simboli (vedi la croce di San Giorgio) le cui gesta costituiscono un punto cardine del progresso nautico, militare e commerciale dell’intero Continente.

Nella sala delle conferenze della vicina Casa Paganini (ex chiesa del convento di S. Maria delle Grazie la Nuova) attraverso una botola si può accedere allo scavo che ha portato alla luce la sottostante originaria base della primitiva torre. Foto i Giuseppe Ruzzin.

Salite, salite e prendete in fretta la città»

(Testadimaglio ai suoi uomini durante la presa di Cesarea, Caffaro di Rustico da Caschifellone, Annali)

In copertina: statua dell’Embriaco posta sopra la galleria Bixio realizzata da E. Baroni nel 1929.


Quattro chiacchiere con Paganini


Non è stato per niente facile fissare un incontro con lui. Fino all’ultimo si è fatto desiderare, proprio come una vera rock star.
D’altra parte, non poteva essere altrimenti: Paganini è stato un autentico antesignano in materia. Ai suoi concerti gli isterismi collettivi — soprattutto femminili — erano all’ordine del giorno. Il suo aspetto emaciato, il viso scavato, i lunghi capelli e i leggendari assoli facevano il resto.

Ritratto di Paganini. Opera di Jean Auguste Dominique Ingres realizzato attorno al 1819.

«Mi venga a prendere con la carrozza in piazza Acquaverde; devo passare da casa a prendere alcuni spartiti» — mi aveva detto — «lì sarà facile trovarne una.»

Non ho avuto il coraggio di confessargli che le carrozze non esistevano più già da un pezzo, e che neppure la sua casa in Vico Gattamora era sopravvissuta. Solo l’edicola votiva della Madonna si era salvata, oggi custodita nel Museo di Sant’Agostino.

La casa natale di Paganini con relativa lapide in Vico Gattamora nel quartiere scomparso della Madre di Dio a Genova. “Alta Ventura Sortita ad Umile Luogo / in Questa Casa/ il Giorno XXVII di Ottobre dell’Anno MDCCLXXXII / Nacque / a Decoro di Genova a Delizia del Mondo / Nicolò Paganini / nella Divina Arte dei Suoni Insuperato Maestro”.

Mi sono presentato all’appuntamento all’ora stabilita. Non è stato difficile riconoscere la sua inconfondibile sagoma: sottile, elegante, lo sguardo assorto verso il monumento a Cristoforo Colombo.

«Maestro — gli ho sussurrato con un inchino — è un onore per me conoscerla.»

Non mi ha risposto. Perso nei suoi pensieri, continuava a osservare la statua. Ho deciso allora di assecondare il suo sguardo ammirato.

«Bello, vero, il monumento? Di recente ne hanno inaugurato uno anche in suo onore, sotto il porticato del teatro Carlo Felice.

Il monumento dedicato a Paganini davanti al teatro Carlo Felice di Genova. Foto di Salvatore Camba.


A proposito di teatro, la accompagno al Sant’Agostino, oggi Teatro della Tosse. Se non sbaglio, lì, a soli tredici anni, ha suonato il suo primo concerto.»

In Piazza Negri sulla sinistra si scorge l’odierno teatro della Tosse. Foto di Leti Gagge.

«Sì, ricordo bene quel giorno» — ha annuito nostalgico — «ma in realtà mi ero già esibito un paio d’anni prima, nell’oratorio di San Filippo Neri, in via Lomellini, per la festa del santo.»

«Chissà che emozione» — ho commentato.

«Di quella giornata ricordo la paura di sbagliare… e le lacrime di commozione di mio padre, seduto in fondo alla chiesa. Ma anche gli applausi, quelli non li ho mai dimenticati.»

La volta dell’oratorio di San Filippo Neri. Foto di Stefano Eloggi.

Abbiamo proseguito la passeggiata tra i caruggi, fino a Palazzo Ducale. Il suo sguardo, quasi per istinto, si è alzato verso la Torre Grimaldina.
Il volto gli si è improvvisamente rabbuiato quando ho accennato alla sua prigionia.

«Fui accusato ingiustamente di aver abusato di una giovane donna che in realtà voleva soltanto spillarmi del denaro. In camerino, dopo ogni concerto, mi aspettavano più donne che violini. Crede che avessi bisogno di costringere una fanciulla con la forza?»

Non ho replicato. Ho preferito cambiare argomento.

La Torre Grimaldina. Foto di Leti Gagge.

«E quella storia del diavolo? Del patto per diventare il più grande violinista del mondo?»

Ha scosso la testa, con un sorriso amaro.
«Tutte calunnie, messe in giro da colleghi frustrati e invidiosi. Il trattamento al mercurio per curare la sifilide mi aveva rovinato il volto, e così nacque la mefistofelica leggenda. Mi spiace solo che mi sia costata la sepoltura in terra consacrata.»

Poi, con tono serioso, ha aggiunto:
«A causa della sindrome di Marfan avevo dita lunghissime e assai snodate: potevo premere tutte le corde insieme. Mi esercitavo ogni giorno sulla velocità. In precedenza avevo studiato anche la chitarra: fui cosi il primo a capire che pizzicare le corde, imitare suoni, rompere gli schemi, era molto più affascinante delle solite melodie da salotto.
Spesso, prima di salire sul palco, tagliavo di proposito tre corde del violino, lasciando solo il sol. Così, durante l’esibizione, le altre si spezzavano una a una. Il pubblico impazziva. Era magia.»

Ha sorriso, con un lampo d’orgoglio.
«Ho suonato in tutta Italia, nelle principali corti d’Europa. E ovunque ho raccolto applausi, ma anche invidie.»

Locandina del concerto al Covent Garden di Londra.

«E la famosa frase: Paganini non ripete?» — ho azzardato. — «Non crede che abbia alimentato il mito dell’artista arrogante?»

«Mi spiace che sia stata fraintesa. Io improvvisavo sempre. Intendevo dire che non avrei saputo ripetere la stessa magia una seconda volta.»

«È vero che ha perso un Guarneri del Gesù al gioco?»

Ha riso, sarcastico.
«Ah, il gioco… Le donne… E i ravioli di mia madre! Le mie uniche altre passioni, oltre alla musica.»

La rCosì in una lettera spedita all’amico Luigi Germi nel 1839 e conservata presso la Library del Congresso di Washington Paganini descriveva le ricette per il tuccu e per i ravioli:

«Le piacerebbe rivedere il suo Cannone

«Più che vederlo, vorrei suonarlo ancora una volta. Ma dubito esista ancora…»

«Esiste eccome, Maestro. È perfettamente conservato a Palazzo Tursi. La accompagno, ma facciamo in fretta: non so che spiegazioni potrei dare se ci scoprissero.»

Davanti alla teca che custodisce il violino, gli è scesa una lacrima.
«È proprio lui. Lo riconosco.»

Il Guarneri del Gesù il celebre “Cannone” custodito a Tursi, palazzo del Comune di Genova. Foto dell’autore.

«Ogni anno — gli ho detto — il vincitore del concorso a lei intitolato ha l’onore di suonarlo durante la premiazione. Genova le ha dedicato oltre alla competizione e alla statua, anche una strada ed il Conservatorio.»

La nostra passeggiata si è conclusa in Sarzano, dove fu battezzato nella chiesa di San Salvatore, davanti alla colonna infame che ricorda le vicende del suo quartiere natale. Ho citato le splendide parole che Liszt gli dedicò.

Il certificato di battesimo di Paganini del 28 ottobre 1782 conservato nella chiesa di San Donato a Genova. Foto dell’autore.

Paganini si è commosso.
«Io e Franz parlavamo la stessa lingua» — ha sussurrato. — «La lingua del genio.»

Ha poi distolto lo sguardo, turbato nel vedere una Genova così diversa da quella che portava nel cuore.
Mi ha salutato in fretta, quasi dovesse correre a prepararsi per un concerto.
E, così come era apparso, se n’è andato.

La Colonna infame voluta dagli abitanti dei caruggi. Foto dell’autore.

Avvolto nel suo inconfondibile mantello nero, dissolto nel silenzio.

Arrivederci, Maestro. A presto.

In Copertina: fumetto di Manlio Tuscia che ritrae Paganini in via San Lorenzo davanti alla cattedrale di Genova.


Vico delle Scuole Pie


In epoca medievale la piazza e il vico delle Scuole Pie erano conosciuti con i nomi delle famiglie nobili che vi risiedevano: dapprima i Cicala, in seguito gli Squarciafico.

Proprio qui il Monte di Pietà organizzava le aste pubbliche dei beni non riscattati, conferendo al luogo un ruolo di rilievo nella vita economica e sociale della città.

Il vico collega l’omonima piazza con quella delle Cinque Lampadi.
L’origine del toponimo è legata alla presenza nella piazza del collegio degli Scolopi, giunti da Savona nel 1623.

Sia nel vico che soprattutto nella piazza si notano elementi architettonici di pregio quali:

Al civ. n. 3 la Loggia dei Lasagna con arcate bicrome in marmo bianco e nero e colonne di origine romana reimpiegate, risalenti al XIII secolo.

Al civ. n. 7 portale in bozze di marmo del XVII secolo, di forte impronta monumentale caratterizzato da una testa di medusa al centro dell’arco.

Nell’atrio di Palazzo Cicala al civ. n. 10 colonne medievali in marmo, che testimoniano la continuità storica dello spazio. Il settecentesco edificio presenta un’elegante e scenografica facciata in stile rococò ed ospita l’hotel di lusso “La locanda di Palazzo Cicala.

Sul prospetto posteriore accessibile anche da Vico del Gesù piazza San Lorenzo n. 17 si conservano elementi medievali quali archetti a sesto acuto, pilastri e fregi. L’atrio è caratterizzato da ampie volte a vela rette da colonne doriche binate ed è impreziosito da uno scalone in marmo.

In Copertina: Vico delle Scuole Pie. Foto di Stefano Eloggi.


La lapide di Barrili

All’angolo con via ai Quattro Canti di San Francesco, proprio all’imbocco di via Garibaldi, è affissa una lapide marmorea con tanto di sporgente busto dedicato ad Anton Giulio Barrili.

Costui oltre che essere un garibaldino e politico fu uno scrittore e giornalista fondatore del Caffaro, un quotidiano assai in voga a quel tempo.

Difficile leggere il testo celebratorio a corredo della tavella.

Per ammirare tale scultura bisogna infatti alzare parecchio lo sguardo e solo così si potranno notare una lira e una spada appoggiati sopra un fascio littorio.

La scultura venne realizzata nel 1910 da Vittorio Lavezzari, allievo dello Scanzi e futuro professore dell’Accademia ligustica di Belle Arti, uno dei principali innovatori dello stile liberty.

In Copertina: la lapide di Anton Giulio Barrili.

Vico del Gesù

Vico del Gesù si apre tra via Canneto il Lungo e Largo G. Sanguineti, nel cuore del centro storico genovese.

Il suo nome affonda le radici in un’antica tradizione: un bassorilievo in marmo raffigurante il Nazareno, ancora oggi visibile murato sulla casa d’angolo tra il vicolo e via San Lorenzo, ha ispirato la toponomastica del luogo. Un piccolo angolo di Genova dove la pietra è testimone della devozione del tempo che fu.

In copertina: Vico del Gesù. Foto di Silva Silva.

Mira Mira l’Olandesina!


Non nasce proprio sotto la Lanterna, ma l’Olandesina è diventata nel tempo uno dei prodotti più golosi della pasticceria genovese. La sua storia comincia negli anni Sessanta a Novi Ligure, nel laboratorio della storica Pasticceria Elvezia, dove Mario Demicheli, nonno dell’attuale pasticcere Matteo, crea questa delizia dal cuore morbido e dal gusto irresistibile.

Non a caso Elvezia è il nome aulico della Svizzera che associato alla pasticceria richiama qualità artigianale, tradizione e maestria dolciaria.

La ricetta originale è infatti ancora gelosamente custodita nell’antico ricettario dell’Elvezia e tramandata di generazione in generazione.

Ma cosa rende davvero genovese l’Olandesina? Il suo spirito anti-spreco, proprio come la cucina della Superba: nasce infatti dal recupero degli avanzi della pasta dei croissant, trasformati con ingegno e creatività in un dolce ancora più buono. Un piccolo capolavoro che profuma di buonsenso e dolcezza.

Curiosa è la genesi del nome che con quella forma a treccia arricchita dalla crema, ricorda le acconciature tipiche delle contadine olandesi con le bionde trecce -appunto-avvolte nelle tradizionali cuffiette bianche.

L’Olandesina al tempo in cui Corrado pubblicizzava il marchio Ava. Spot cantato da Donatella Bianchi.

Proprio come la protagonista di un celebre carosello anni ’60 della Mira Lanza il cui ritornello recitava “Mira Mira l’Olandesina”. Io ne ho ricordo in una versione un p0′ più recente del 1980 con il garbato contributo di Corrado Mantoni (il famoso presentatore fra i Padri della Rai tv).

A titolo di cronaca la Mira Lanza, azienda leader nel secolo scorso nella produzione di detersivi, aveva il proprio stabilimento principale a Genova (un altro importante sito produttivo si trovava a Mira in Veneto, di qui il gioco di parole dello slogan) Rivarolo in via Lepanto in Val Polcevera.

Dal 2023 parte di queste aree dismesse, al fine di riqualificare il quartiere, sono state riconvertite in parco con spazi verdi e zone ricreative.

Dal basso Piemonte o -come dico io- dall’alta Liguria, passando per la Svizzera, fino ai Paesi Bassi, l’Olandesina, prima di approdare nella nostra città, ne ha fatta di strada!

Ancora oggi protagonista nelle vetrine delle pasticcerie e nei vassoi del bar allieta la colazione (in alternativa al classico focaccia e cappuccino) dei genovesi.

Perfetta dunque per colazione o per una merenda che sa di casa, è un pezzo di Liguria da gustare, dove tradizione, storia e bontà si intrecciano – proprio come la sua forma.


In Copertina: anche il campanile delle Vigne vorrebbe assaggiare l’Olandesina.

I Battolli

Nel levante ligure in particolare ad Uscio e nella val Fontanabuona si preparano i battolli (o batolli).

Si tratta di di pasta fresca simile a fettuccine un po’ più larghe e soprattutto più spesse ottenute dal miscuglio di farina di grano con quella di castagne.

Molto spesso assomigliano a dei maltagliati o a delle piccole lasagnette.

Devono il nome proprio al fatto che l’impasto con il mattarello viene battuto più volte sulla madia prima di raggiungere la consistenza e lo spessore giusto.

I batolli si condiscono con pesto patate e navoni, un particolare tipo quest’ultimo di rape bianche locali.

In Copertina: Foto e preparazione di Mirella Perrone.

Il San Giorgio di Rubens

Al Museo del Prado di Madrid è custodita questa meravigliosa rappresentazione di San Giorgio che uccide il drago dipinta da Rubens probabilmente a Genova tra il 1606 al 1608.

Il pittore fiammingo rappresenta il cavaliere nei panni di un Duce dell’esercito romano mentre sguaina la spada per colpire l’animale e si rifà al testo agiografico “Legenda aurea” in cui il Vescovo Jacopo da Varagine racconta la storia di San Giorgio.

Il cavaliere, giunto nella città di Salem in Libia, venne a conoscenza di una terribile usanza locale: gli abitanti, per placare un feroce drago che viveva in un lago vicino, gli offrivano ogni giorno due pecore come pasto. Quando gli animali non furono più sufficienti, iniziarono a sacrificare i cittadini, scelti a sorte. Un giorno, la sorte cadde sulla giovane figlia del re, che fu destinata a essere data in pasto al drago. Tuttavia, proprio allora arrivò San Giorgio, che affrontò la creatura e la uccise, salvando così la principessa. In segno di gratitudine, il re e tutti gli abitanti di Salem si convertirono al cristianesimo.

Il dipinto intitolato Lotta di San Giorgio e il Drago di Pieter Paul Rubens risale al 1606-1608. L’artista realizzò questo dipinto durante il soggiorno genovese. Per questo motivo storico D. Jaffe ipotizzò che la città di Genova avesse commissionato l’opera proprio per onorare il patrono militare della Repubblica.

Il cavallo domina la scena, tracciando una possente diagonale che struttura l’intero dipinto. La sua linea ascendente, slanciata da sinistra a destra, si contrappone all’inclinazione obliqua del corpo di San Giorgio, creando un incrocio visivo vicino al cuore dell’opera. Questa tensione dinamica infonde energia alla composizione, amplificando il senso di movimento. L’incedere impetuoso del cavallo e il gesto risoluto del braccio alzato di San Giorgio si fondono in un’armonia visiva che esalta l’epicità dell’azione. L’inconfondibile rosso, tendente all’arancione, nel mantello del cavaliere, la firma dell’artista.

In Copertina: Dipinto di Rubens, olio su tela di 309 centimetri di altezza e 257 cm di larghezza. Museo del Prado Madrid.