Perinaldo è un grazioso borgo medievale in provincia di Imperia, famoso per aver dato i natali a Gian Domenico Cassini, illustre scienziato (matematico e astronomo), membro dal 1668 dell’Accademia delle Scienze di Francia e Direttore del primo Osservatorio Scientifico di Parigi.
Perinaldo gli ha intitolato il locale Osservatorio scientifico e Genova, dove ha studiato presso il collegio dei Gesuiti, il più prestigioso liceo scientifico cittadino.
Ritratto di Cassini con gli strumenti della sua disciplina
Ma Perinaldo si distingue anche per la coltivazione di un particolare tipo di ortaggio assai apprezzato e rinomato per le sue proprietà e caratteristiche:
un carciofo, tenero, senza spine e dal peculiare colore violetto.
Si prepara in insalata, abbinato a carni o selvaggina, protagonista di frittatine, al forno con parmigiano e funghi o in semplici frittelle con aglio e prezzemolo.
Ma a mio modesto parere il modo in cui le sue qualità vengono valorizzate al meglio è gustato crudo in pinzimonio o in carpaccio.
Si narra che che ad importare questo carciofo sia stato un generale francese dell’esercito napoleonico, secondo alcuni addirittura Napoleone stesso in persona.
Costui durante la campagna d’Italia nel 1796 scoprì, ospite di una nobile famiglia di Perinaldo, che i carciofi “violet” della vicina Provenza erano sconosciuti e decise quindi di donarne alcune piantine agli abitanti del borgo in modo che potessero coltivarlo.
Così complice il clima favorevole il carciofo provenzale ha trovato a Perinaldo il suo ambiente ideale.
Non è un caso quindi che in lingua genovese, dal francese artichaut, il carciofo venga chiamato articiòcca.
In Copertina: il carciofo di Perinaldo. Foto degli Allevatori e Aziende agricole di Perinaldo.
Nel vecchio sestiere del Molo si trova il caruggio di vico Palla sede dell’omonima celebre osteria particolarmente apprezzata per il suo gustoso stoccafisso, nonché tempio della cucina tradizionale.
Un locale storico di cui si ha già notizia a partire dal ‘600 quando fra i suoi avventori -si racconta- ci fosse anche il pittore fiammingo Anton Van Dyck, abituale cliente durante il suo soggiorno genovese fra il 1621 e il 1628.
Osteria di Vico Palla.
Tovaglia in carta per fritti con sopra la poesia sullo stoccafisso scritta nel luglio ’71 da Luigi Vacchetto, detto “O Bacillo”.
L’origine del toponimo del vico rimanda al tempo in cui qui si riunivano i giocatori di pallone prima e dopo le competizioni sportive.
Nel catasto del 1798 il caruggio è infatti registrato come Strada della Palla.
Il gioco del pallone praticato derivava dalla tipologia cinquecentesca detta “del bracciale” toscana, a sua volta evoluzione della duecentesca pallacorda.
A fine ‘800 la disciplina del bracciale si divise in due specialità: quella nuova del pallone piccolo o piemontese, diventata in seguito “pallone elastico” poi pallapugno, e quella tradizionale del pallone grosso o toscano che per tre secoli fu il gioco più praticato in tutta la Penisola.
A Genova dalla versione toscana si passò quindi a quella piemontese.
I giocatori indossavano un bracciale di legno (di solito noce) lungo 17 cm. con un’impugnatura all’interno e numerose punte trapezoidali all’esterno leggermente spuntate, per imprimere maggior velocità alla sfera.
Il pallone utilizzato era di pelle di manzo e aveva le dimensioni di circa 12 cm. di diametro e 340 gr. di peso.
Il campo di gioco misurava mediamente 80 metri in lunghezza e 16 metri in larghezza e poteva essere affiancato dal muro di ribattuta, alto intorno ai 16–18 metri.
A Genova il terreno principale si trovava nei pressi dell’Acquasola (più o meno all’altezza dell’odierna Via Santi Giacomo e Filippo), ma si ha notizia anche di combattute partite disputate nella zona di Albaro davanti alla chiesa di Santa Maria del Prato.
Acquerello di inizio ‘800. Collezione topografica del Comune di Genova.
Le squadre erano composte da tre giocatori ciascuna (battitore, spalla e terzino) e il campo limitato nella parte opposta a quella del pubblico da un muro.
Al battitore spettava il compito d’iniziare il gioco con la battuta della palla che gli veniva lanciata con perfetto tempismo dal mandarino: quest’ultimo, in passato, veniva spesso reclutato tra i migliori giocatori bocce della città; la sua abilità consisteva infatti, oltreché nella suddetta scelta di tempo, anche nella precisione con la quale doveva lanciare la palla nel supposto punto d’impatto con il bracciale.
L’incontro si svolgeva nel modo seguente: battuta la palla e commesso il primo errore, la squadra che si aggiudicava il primo scambio conquistava i primi 15 punti ai quali si aggiungevano, sempre nel caso di vittoria, altri 15 punti, poi 10 e infine 10. Il punteggio veniva, pertanto, così conteggiato: 15 – 30 – 40 – 50 ma in origine era 15 – 30 – 45 – 60. Aggiudicandosi il cinquantesimo punto la squadra vittoriosa conquistava un gioco.
Il gioco ammetteva, oltreché la risposta a volo, anche quella dopo un solo rimbalzo.
I punti si facevano:
se il pallone oltrepassava di volo il limite del campo avversario ma entro certi limiti segnalati da paletti: in tal caso si realizzava la volata;
se il pallone, sorpassata la metà del campo, non era raccolto dall’avversario;
se l’avversario mandava il pallone fuori dai lati maggiori;
se l’avversario non mandava il pallone oltre la propria metà campo.
Per due giochi consecutivi la battuta spettava alla stessa squadra. Quattro giochi formavano un trampolino. L’intero incontro era costituito da tre trampolini per un totale di dodici giochi. La vittoria spettava alla squadra che totalizzava il maggior numero di giochi nei tre trampolini.
Nel XVIII secolo tale sport era cosi popolare, da essere oggetto di scommesse, causa di frequenti disordini pubblici e inesauribile fonte di risentite lamentele per i disagi arrecati.
Fonte delle notizie storiche sul gioco del Pallone tratte dal vol. n. 6 della Storia di Genova di Aldo Padovano.
Fonte delle regole:
Antonio Scaino, Trattato del giuoco della palla, Venezia, 1555.
Edmondo De Amicis. Gli azzurri e i rossi, Torino, 1897.
In Copertina: Vico Palla. Sullo sfondo le gru del porto e le Mur della Malapaga. Foto di Giovanni Cogorno.
Il Bagnùn de Ancioe (Bagnùn di Acciughe) è il piatto tipico di Riva Trigoso, borgo marinaro, frazione della, con le sue celebri baie, più nota Sestri Levante.
Si tratta di una zuppa a base di acciughe, pomodoro, gallette del marinaio e olio.
Quelle stesse gallette del marinaio un po’ pane e un po’ biscotto ingrediente insostituibile di un altro capolavoro della cucina ligure, il Cappon Magro.
Il Bagnùn nasce a bordo delle lampare e dei leudi quando già nel ‘800, essendo l’acciuga la regina del pescato, i marinai lo cuocevano sui fornelli a carbone.
Da 1960 al Bagnùn viene dedicata un’apposita sagra estiva il penultimo fine settimana luglio.
Pescatori al lavoro durante la sagra del Bagnùn.
In quest’occasione la zuppa offerta gratis, pena interminabili code smaltite con zelo dai volontari, attira migliaia di visitatori.
Il Bagnùn si può comunque gustare, pescato permettendo, tutto l’anno nelle trattorie del borgo e dei paesi limitrofi.
Se passate nel Golfo del Tigullio, merita, non perdetevelo. Un piatto sincero e verace della nostra tradizione.
sale q.b Preparazione Pulire bene e sviscerare le acciughe. Tritare le verdure (escluso il basilico) e soffriggerle in padella nell’olio, fino a ché imbiondiscono. Eliminare l’aglio. Unire i pomodori anch’essi tritati, regolando di sale e cuocendo per una decina di minuti. Aggiungere le acciughe e cuocere, senza mai scuotere il tegame, un’altra decina di minuti, col vino bianco, a fuoco moderato. Impiattare il Bagnùn nelle fondine, sopra le gallette, bagnate prima nel vino bianco e precedentemente strofinate con aglio.
Ricetta dal sito Il Tigullio.
In Copertina: Il Bagnùn. Foto di Ambrogio Razzini.
Il caruggio deve il nome all’omonima famiglia che aveva qui fino al ‘800 le sue dimore.
Qui al civico 17 visse e morì il 7 ottobre del 1777 Francesco Maria Accinelli (1700-1777), sacerdote e geografo ma soprattutto storico genovese di riferimento del suo tempo.
Oggi, purtroppo, fa parte di quella rete di vicoli dove malavita e spaccio regnano sovrani.
In Copertina: Vico Tacconi. Foto di Stefano Eloggi.
Nella maggior parte d’Italia le chiamano alici, qui in Liguria sono le acciughe e sono un vero e proprio culto, in particolare nella riviera di Levante, molto apprezzate quelle di Monterosso.
In realtà non vi è località sulla costa che non organizzi una sagra a tema, la più famosa delle quali è senza dubbio quella del Bagnun di Riva Trigoso.
Qui invece ho deciso di soffermarmi sul tortino di acciughe che si può declinare in mille modi come, ad esempio nella versione del Tian (tegame di Vernazza) o, in modalità autunnale con funghi porcini.
Tortino di acciughe. Foto e preparazione dell’autore.
Io ne ho elaborato una versione al forno con due strati alternati di patate e acciughe farciti con capperi, aglio, pomodorini, cipolla, maggiorana e origano.
Non ho aggiunto, anche se molte ricette lo prevedono, il parmigiano al fine di non coprire ma preservare il sapore dell’acciuga.
Prodotti dell’orto e pesci del mare si fondono in un invitante connubio.
In Copertina: Tortino di acciughe pronto da infornare. Foto e preparazione dell’autore.
Nel convento di Nostra Signora del Rifugio in Monte Calvario sito in viale Virginia Centurione Bracelli a Genova, è possibile ammirare uno splendido presepe storico.
A lungo si è erroneamente ritenuto che la paternità di tale meraviglia fosse della scuola del Maragliano.
La cura dei dettagli negli abiti delle statuine.Lo sfarzoso corteo del Re Mago africano a cavallo.I doni minuziosamente riprodotti. Gli altri Re Magi.
Due personaggi in preghiera lungo il sentiero. Da notare il particolare dell’edicola votiva all’angolo del palazzo che si illumina all’imbrunire.
Il presepe, composto da una quarantina di personaggi e da una decina di animali con maestria intagliati e dipinti, è opera invece di una rinomata bottega napoletana di fine XVII secolo.
Una famigliola con l’espressione felice e devota lungo il sentiero che conduce alla capanna.
Un servitore riposa su un giaciglio improvvisato.
Altri personaggi lungo il sentiero.
Stupefacente rappresentazione della Sacra Famiglia. Giuseppe a capo chino e la Vergine con la meraviglia nello sguardo.
Ancora il corteo in movimento. Una bezagnina reca un cesto di fiori.Sullo sfondo un classico palazzo nobiliare genovese a bande bianco nere .Ancora il corteo dei Re Magi.
Una coppia, due uomini e una dama lungo il sentiero.
La Lanterna veglia sullo sfondo.
Recenti studi hanno infatti attribuito il prezioso manufatto ad un famoso artista partenopeo.
La ricchezza dei tessuti degli abiti.
Secondi alcuni costui sarebbe Giacomo Colombo (1663-1730), secondo altri si tratterebbe invece di Nicola Fumo (1647–1725). In ogni caso entrambi celebri e apprezzati scultori lignei della città del Vesuvio.
Interpellate in merito le Suore Brignoline amorevoli custodi del presepe, in base alle informazioni in loro possesso, hanno posto fine alla querelle, indicando quasi certamente come autore il secondo.
Le statuine a manichino ligneo, alte circa 70 cm., sono snodabili e costituiscono un vero e proprio capolavoro del Barocco napoletano.
Quello che colpisce, oltre alla certosina attenzione al dettaglio nel confezionamento degli sfarzosi abiti e alla cura nella scelta dei tessuti, è senza dubbio la caratterizzazione ricercata delle espressioni che conferisce una connotazione ben precisa ad ogni singolo personaggio.
Uno scudiero del corteo del Mago Nero tiene in mano le briglie del cavallo.
Il presepe vanta, inoltre, un’origine assai prestigiosa perché proviene dalle collezioni di Gio.Francesco II Brignole– Sale (1695-1760), nobile genovese colto e raffinato che allestiva questo presepe nei saloni di Palazzo Rosso e Protettore del Conservatorio N.S. del Rifugio in Monte Calvario.
In Copertina: Il Presepe delle Brignoline. Foto di Giovanni Caciagli, autore anche di tutti gli altri scatti.
SUORE BRIGNOLINE
Viale Virginia Centurione Bracelli 13 – 16142 Genova
orario di visita: dalla sera del 24 dicembre 2022 al 2 febbraio 2023
dalle ore 9.00 alle 11.30 e dalle 15.00 alle 18.30
In linea d’aria sotto il ponte dell’acquedotto storico di Genova si trova, vicino alla sede della Medical Systems, un presepe molto particolare.
Eh si, proprio particolare, perché si tratta di un presepe allestito nella veranda di un’abitazione privata.
Qui i padroni di casa ti accolgono con il sorriso e sono ben lieti ed orgogliosi di raccontarne la storia.
Ad ideare il presepe fu -racconta Anna – il papà Vito Lobosco.
L’appassionato cultore autodidatta infatti, nell’arco di 14 anni, ha realizzato a mano sia le statuine che gli sfondi pittorici di questo suggestivo presepe genovese.
In primo piano si vedono alcuni venditori e la pescheria. In alto si riconosce l’Abbazia di San Siro.
Scena con personaggi dei mestieri e di vita quotidiana completamente meccanizzati.
Così ai personaggi statici della tradizione si sono via via affiancati quelli meccanizzati legati agli antichi mestieri. Tutte le statuine e molti degli attrezzi e dei dettagli sono intagliati dal legno di tiglio.
Spettacolare il movimento meccanizzato della pigiatura dell’uva con il tino.
La scenografia di dipana attraverso due rappresentazioni principali realizzate in continuità cronologica: la prima, ambientata in un tradizionale contesto agreste della Val Bisagno, la seconda che racconta invece di panorami e luoghi cittadini.
Protagonista ovviamente la scena della Natività sul cui sfondo domina l’inconfondibile ponte sifone dell’antico condotto sul torrente Geirato, simbolo della Val Bisagno.
La parte tradizionale del presepe con le luci della sera.
La seconda parte del presepe con i monumenti cittadini e la Lanterna a vegliare sullo sfondo.
Ma i suggestivi scorci non finiscono qui: si riconoscono Piazza Dante, la casa di Colombo, la chiesa di San Matteo, una porzione del tracciato dell’acquedotto storico e l’abbazia di San Siro.
Ultima creazione in ordine temporale, prima della scomparsa dell’autore avvenuta nel 2019, un’accurata ricostruzione della Stazione Brignole.
La Stazione Brignole.
Gli edifici sono modellati anch’essi in legno di tiglio e compensato con l’innesto di polistirolo e materiale di riciclo.
Oggi per volere della figlia Anna il presepe di famiglia è entrato nel circuito dei presepi della Val Bisagno ed è fruibile da tutti.
Il presepe, proprio perché allestito in una casa privata non è permanente. Ad occuparsi quindi della sua impegnativa messa in opera che dura quasi un mese è il marito Maurizio Pasqua che vi accoglierà con la cordialità con cui si riceve la visita di un vecchio amico.
I padronoidi casa: Anna Lobosco e Maurizio Pasqua.
Il presepe del rio Torbido è visitabile tutti i giorni a partire dal 8 dicembre fino al31 gennaio (tranne Natale e Santo Stefano) dalle 15 alle 19.
La casa che lo ospita si trova in Salita Massiglione 4, a due passi dal tracciato dell’Acquedotto Storico nel tratto compreso tra via Geirato e il cimitero di Molassana.
In Copertina: il Presepe di Rio Torbido. Tutte le foto sono dell’autore.
La Liguria -si sa- non gode di grande fama nell’ambito dell’arte della preparazione dei salumi.
A parte infatti i prodotti di Castiglione Chiavarese e di S. Olcese non abbiamo una grande tradizione in materia.
Proprio a S. Olcese, oltre al celebre salame di cui è un derivato, si prepara la mostardella un goloso insaccato realizzato con le parti di carne bovina più filacciose e meno pregiate. Si consuma prevalentemente cruda oppure cotta e abbrustolita, tagliata a fette spesse, sulla piastra della stufa.
O almeno così lo cucinavano i nonni polceveraschi di mia moglie che me l’hanno fatta conoscere ed apprezzare.
Ricordo la soddisfazione di nonno Valle nell’offrirmi la mostardella accompagnata alle uova, appena colte dal pollaio, cotte al tegamino.
Uova al tegamino. Foto e maldestra preparazione dell’autore.
La mostardella è un prodotto di nicchia poco noto non facilmente reperibile se non nelle rivendite del territorio polceverasco.
Io, ad esempio, me la procuro presso la macelleria Martini località Santa Marta di Ceranesi.
La mostardella viene anche chiamata salame del contadino o dei poveri perché ottenuta con gli scarti dei tagli utili al confezionamento del più nobile S. Olcese e destinata quindi in origine ad un consumo più domestico che commerciale.
Eppure l’insaccato contenuto in un budello naturale di bovino, realizzato con le parti più filacciose e l’aggiunta di lardo di maiale, è davvero sapido e gustoso.
Ogni 25 aprile a S. Olcese oltre alla festa della Liberazione, si celebra la sagra del salame.
In occasione di tale evento è possibile anche gustare la mostardella alla quale è stata dedicata, al fine di valorizzarla e diffonderne la conoscenza, una manifestazione parallela.
Il consumo di questo salume in queste valli è radicato nei secoli e diventa tradizione: si tramanda infatti che, nei tempi passati, i giovani della Valpolcevera in cerca di moglie portassero l’insaccato a casa dei potenziali futuri suoceri come dono.
Se questi accettavano il presente e affettavano il salume stava a significare che il matrimonio era consentito.
Un’ultima curiosità racconta invece di tempi duri e di povertà in cui, durante l’inverno, i contadini si riciclavano, non potendo lavorare nei campi, come garzoni dei salumieri e venivano retribuiti con un chilo e mezzo di mostardella e una lira a settimana.
Sito nel quartiere del Molo in origine vico Malatti era uno dei numerosi vico dell’Olio presenti sparsi in città.
Cambiò denominazione in omaggio alla famiglia di artisti Malatti o Malatto, di cui il più insigne esponente fu Nicolò secentesco decoratore allievo di Domenico Parodi.