“Intu mezu du ma… gh’è ‘n pesciu tundu…”

 Che derivi dal norvegese “stokkfisk”, dall’olandese “stocvisc” con il significato di pesce bastone, o dall’inglese “stockfish” con quello di pesce da stoccaggio, il termine stoccafisso indica il merluzzo essiccato all’aria secondo un preciso procedimento consolidato nei secoli dai Vichinghi. I navigatori nordici infatti, compresero che il pesce disidratato, non solo riduceva i rischi di contrarre infezioni virali e che occupava meno spazio a bordo, ma che aumentava addirittura, a parità di peso, quasi del triplo la resa proteica. Un alimento quindi ideale da trasportare, facile da conservare nei lunghi viaggi per nutrire gli equipaggi e da utilizzare come merce di scambio.

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“Le particolari strutture rialzate da terra utilizzate per l’essicazione del merluzzo”.

Non va confuso con il baccalà che, pur avendo origine dallo stesso pesce, è ottenuto con una tecnica diversa, quella della salagione. Questa basica distinzione comporta delle eccezioni lessicali a seconda della regione in cui viene elaborato: ad esempio il famoso “baccalà alla vicentina” è in realtà preparato in prevalenza con lo stoccafisso, quindi con il merluzzo essiccato e non con quello salato.

Nella nostra penisola giunse nel sud, in Calabria e Sicilia in particolare, grazie ai Normanni anche se è solo ad inizio del ‘500 che inizió ad essere importanto regolarmente. Qualche decennio più tardi si diffuse anche al nord, a Venezia e Genova, le due regine dei traffici marittimi.

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“Interno della bottega dello stoccafisso in Soziglia”. Foto di Leti Gagge.

Merito dell’espansione dello stoccafisso fu anche della chiesa che, dopo il Concilio di Trento avvenuto a metà del ‘500, prescrisse un maggiore consumo, rispetto al canonico venerdì, di piatti di magro. Complice il suo prezzo accessibile, unito alle indubbie qualità organolettiche e nutrizionali, l’uso dello stoccafisso si propagò facilmente. Ancora oggi il Bel Paese, è il principale importatore mondiale (quasi il 90%) di merluzzo. In particolare Calabria, Campania, Sicilia, Liguria, Livorno e Ancona risultano esserne i maggiori acquirenti.

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“Stoccafisso bollito con patate e olive taggiasche. Foto e preparazione dell’autore”.

I veneti raccontano di un naufragio avvenuto nel 1431 di una nave di S. Marco sotto il comando del capitano Pietro Querini, partita da Creta, carica di Malvasia, alla volta delle Fiandre. Con i suoi 49 membri di equipaggio, ruppe il timone nel Golfo di Biscaglia e, in balia delle correnti, andò alla deriva a sud delle isole Lofoten in Norvegia. I naufraghi una volta esaurite le scorte, si cibarono di un grosso pesce del peso di quasi un quintale, rinvenuto morto sulla rena. Sopravvissero grazie ai soccorsi della popolazione locale giunta attirata dall’enorme falò che i marinai avevano imbastito sulla spiaggia per cuocere la gigantesca bestia. Fu così che, rimasti sull’isola in attesa che l’inverno passasse, i veneziani cominciarono ad apprezzare il “Gadus morhua”, ovvero il merluzzo. Secondo questa versione lo stokke sarebbe approdato in Italia, l’anno successivo, di ritorno da quell’avventuroso viaggio. Tuttora le isole Lofoten, patria della qualità “ragno” la più pregiata, costituiscono il maggiore produttore mondiale di stoccafisso.

Al sud viene cucinato alla messinese in Sicilia, alla mammolese in Calabria, all’anconetana, nelle Marche, in Basilicata alla lucana, al nord invece, in Veneto viene consumato alla vicentina.

In Liguria giunse intorno al ‘600 in virtù dei traffici della Repubblica di Genova con il Portogallo, probabilmente importato dalle imbarcazioni dei Pessagno che, con quel paese, intessevano rapporti privilegiati. La nobile famiglia di marinai genovesi infatti, originaria delle valli alle spalle di Chiavari, si distinse alla corte del regno lusitano, a tal punto da ricoprire e tramandarsi per più di tre secoli la carica di “Almirante maggiore”.

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“Stoccafisso accomodato. Foto ed elaborazione dell’autore”.

Nella nostra regione viene preparato semplicemente bollito, accomodato, alla badalucchese, a brandacujun o con i bacilli (piccole fave secche). Quest’ultima elaborazione, come ricordato nel proverbio “A-i Morti, bacilli e stocchefisce no gh’é casa chi no i condisce”, in particolare per la ricorrenza dei morti visto che, fin dal tempo degli egizi, a questo legume era associato il culto dei defunti.

A Badalucco una località della Valle Argentina dell’entroterra imperiese, la popolazione costiera si era rifugiata per sfuggire alle scorrerie piratesche. Leggenda narra che sopravvisse all’assedio nemico grazie alle scorte di stoccafisso come rievocato nell’annuale manifestazione  in costume medievale di cui è protagonista.

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“Per par condicio, stokke bollito accompagnato da una Valpolicella veneta. Il Campanile delle Vigne fa da testimone al matrimonio”.

Il brandacujun deve invece il nome al singolare modo di mescolamento con cui viene preparato nel ponente ligure: lo stokke e le patate bollite, cosparsi di aglio e prezzemolo, limone, olio e olive taggiasche vengono energicamente “brandati” cioè, scossi a coperchio chiuso fino ad ottenere una armonica amalgama degli ingredienti.

Cucinatelo come vi pare ma assecondatelo con un rosso corposo, come ad esempio un bel Rossese di Dolceacqua o un Refosco veneto e il vostro palato ve ne sarà grato.

“Mare in burrasca, vento forte,

bollito o accomodato la sua morte,

in serate come queste, a Zena,

con lo stoccafisso si cena…

ultimo consiglio, se posso,

accompagnarlo con il rosso”.

ma se volete andare proprio sul sicuro, ascoltate questi goliardici versi di mezzo secolo fa.

O l’é lungo, o l’é dûo, o l’é tosto
o l’é bon se piggiòu in quello posto,
s’o l’é appenn-a sciortïo d’in te balle
(ma attension ch’o no l’agge e farfalle),
o sta ben con e sò due oïve
(se no son tanto passe, ma vive)
e magnificamente o s’adatta
o s’accomoda con a patatta;
ma beseugna ûn pö mettilo a bagno
(finn-a in fondo, ch’o segge ben stagno).
Se capisce ch’o ven feua mollo
(specialmente in ta zona do collo).
Ciò non toglie ch’o piaxe ûn pö a tûtte
zoene, vëgie, ciû belle ò ciû brûtte.
A sposinn-a a no o piggia mä invïo
quande a casa ghe o porta o marïo.
Pe-a zitella o boccon o l’é ghiotto
(anche mollo ò ûn pö bazanotto).
E, scibben ch’a mugugne pe-a spûssa,
anche a nonna sdentä ûn pö a s’o sûssa!
Me ricordo ancon quande mae poae
o metteiva in te man a mae moae,
ritornando a-o porto in sce o tardi:
lê a o trattava con tûtti i riguardi,
e dixendoghe: – bello o mae ragno! –
a o metteiva lì sûbito a bagno.
E a-a mattinn-a, che l’ëa ancon scûo,
a l’ammiava s’o l’ëa ancon dûo,
e a ghe diva: – ti o lasci ancon drento? –
E mae poae: – mi saieiva contento,
ma n’öriae ch’o m’andesse in malôa,
te gh’òu lascio, ma solo pe ‘n’ôa. –
E mae seu? Me sovven comme vei:
no gh’ëa verso de fâgheo piaxei.
A no o poeiva nemmeno toccâ:
«son segûa che a mi o me fa mä!»
Fin a quande a s’é faeta o galante
(ûn portuale lê ascì, carenante)
ch’o l’aveiva bello grosso e gûstoso
e o ghe l’ha regalòu d’arescoso,
e chissà, forse pe-a qualitae
differente da quella do poae,
ò magara pe-o semplice faeto
ch’o l’ëa quello che lê o gh’aiva daeto,
ò soltanto pe fâlo contento…
faeto sta che da quello momento
a figgieua a s’é decisa a assazzâlo,
continuando poi sempre a piggiâlo!
Anche mi da piccin me credeivo
ch’o dovesse fâ mä, e no ne voeivo,
ma ‘na votta, ch’aveiva bevûo,
assazzâne ûn tocchetto ho vosciûo,
lì pe lì o m’ha daeto disgûsto,
poi però gh’o sentïo in çerto gûsto,
e, d’allôa, devo dî che o gradiscio…
(a propoxito: o l’é… o STOCCHEFISCIO!!)

Poesia dialettale scritta nel luglio ’71 da Luigi Vacchetto, detto “O Bacillo”.

Il nido delle Aquile… seconda parte…

Nel 1909 l’architetto Gaetano Poggi modificò le scale di accesso e sostituì con ringhiere in ferro, il muretto al quale venivano legati i cavalli. La sproporzionata scalinata al sagrato fu  invece l’ultimo, fallito tentativo, di Orlando Grosso di risistemazione degli spazi.

La piazza non ospita solo la chiesa e il chiostro ma, essendone la roccaforte, anche le principali dimore dei più importanti esponenti del casato:

Al civ. 16 Palazzo Domenicaccio Doria del XIV sec. con la loggia a tre arcate a sesto acuto, oggi tamponate. Alle originarie trifore del piano nobile sono state sostituite tre normali finestre con relativi balconetti del XVII sec.

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“Il superbo Portale di S. Giorgio che uccide il drago di Palazzo Giorgio Doria”.

Al civ. 14 Palazzo Giorgio Doria, meglio noto come Doria Quartara, celebre per uno dei sovrapporta di S. Giorgio e il Drago più belli della città, frutto della maestria di Giovanni Gagini nel 1457.

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“Palazzo Lamba Doria con il suo bel porticato aperto”.
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“Passeggiando sotto il porticato di Palazzo Lamba Doria”. Foto di Leti Gagge.

Al civ. 15 Palazzo Lamba Doria l’unico con il porticato aperto sulla piazza. Per un certo periodo le quadrifore vennero chiuse  perché gli spazi vennero destinati alle botteghe. In seguito ai bombardamenti del 1942 restò in piedi solo la facciata e venne recuperato e restaurato a partire dal 1950.

Al civ. 17 Palazzo Andrea Doria donato dalla Repubblica all’ammiraglio riconosciuto come “Padre della Patria” per averla liberata dall’occupazione francese. Il prestigioso portale di scuola toscana è per taluni opera di Niccolò da Corte e Gian Giacomo della Porta per altri, di Michele D’Aria e Giovanni da Campione. Ricco di animali esotici e fantastici quali pavoni, lucertole, teste di montoni e leoni, sirene danzanti, uccelli che beccano fiori, grifoni, pesci mostruosi e altri animaletti.

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“Il Portale con relativa iscrizione della donazione all’ammiraglio Andrea Doria da parte della Repubblica in segno di riconoscenza per averle restituito la libertà”.

Sopra l’architrave è scolpita l’epigrafe relativa alla donazione: “Senat. Cons Andreae De Oria Patriae  Liberatori Munus Publicum”.

Il palazzo fu fatto costruire nel 1460 da Lazzaro Doria  fatto testimoniato dal sovrapporta  nell’atrio, in pietra di Promontorio del 1480  raffigurante, in omaggio al committente, la Resurrezione di Lazzaro. Al suo interno alcune parti sono ricoperte in azulejos, il rivestimento di stile moresco, molto in voga in quegli anni e molto apprezzato dal Signore del mare. In realtà il Principe non abitò mai in questa dimora perché preferì la strategica e scenografica Villa che si era fatto costruire, appena fuori dalle mura, in località Fassolo.

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“Il colonnato del chiostro”. Foto di Leti Gagge.

Al civ. 13 Palazzo Branca Doria da cui si accede al chiostro. Dante rese famoso Branca per averlo messo, ancora vivo, all’Inferno reo di aver ucciso il suocero Michele Zanchè che si era rifiutato di concedergli la cospicua dote della figlia Caterina. Secondo il Poeta gigliato il corpo del patrizio genovese sarà posseduto in terra da un diavolo e a lui è rivolta la celebre invettiva: “Ahi  Genovesi, d’ogni costume e pien  d’ogni magagna, perché non siete voi del mondo spersi?”. Versi 151-153 del XXXIII canto dell’Inferno.

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“La copia del Portale quattrocentesco di Palazzo Doria Danovaro”.

Al civ. 19 della Salita  ecco Palazzo Doria Danovaro con la copia dello splendido sovrapporta di S. Giorgio che uccide il Drago. L’originale è stato rubato.

Per chiudere in bellezza all civ. 1 di Via Chiossone si può ammirare il raffinato portale con il “Trionfo dei Doria” del XV sec., opera di Elia Gagini.

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“Il Portale di Via David Chiossone n. 1 che rappresenta il Trionfo dei Doria”.

Al centro un carro ornato di ghirlande con due guerrieri che reggono lo scudo araldico del casato. Il carro è trainato da centauri che impugnano l’insegna del comando. Dietro al centauro un putto alato e, sotto fra le zampe, un cagnolino. Sullo sfondo due soldati con angioletti alati spingono il barroccio. Al centro della cornice il trigramma di Cristo.

Franco Battiato ancora non era nato quando i Doria  avevano già fatto loro Il verso della “Cura” del cantautore catanese “Più veloci di aquile i miei sogni attraversano il mare”… Visto che i loro sogni di gloria le aquile genovesi li avevano già ottenuti dettando legge in tutti i mari!

In Copertina: Piazza e chiesa di San Matte. Foto di Stefano Eloggi.

Il nido delle Aquile… prima parte…

L’antica abbazia fu fondata nel 1125 da Martino Doria che, rimasto vedovo, prese i voti presso il cenobio di Capodimonte e stabilì che la nuova chiesa, a questo dovesse rimanere soggetta.

Come per l’abbazia di S. Fruttuoso anche per quella di S. Matteo i Doria, divenuta nel frattempo dominio gentilizio, si riservarono il perpetuo diritto di nomina dell’Abate.

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“Lastra marmorea con l’aquila, lo stemma dei Doria e a fianco la Croce di S. Giorgio, simbolo di Genova”.

Professando la famiglia Doria “Illi de Auria” (quelli della porta aurea) a ridosso della Porta Aurea il mestiere dei gabellieri la intitolarono a  S. Matteo riscossore di tasse e, quindi, lo assursero a loro patrono.

Il nuovo luogo di culto venne consacrato nel 1132 alla presenza  del Vescovo Siro II e del Papa Innocenzo II.

Nonostante la vicinanza alla Cattedrale, il prestigio di questi illustri padrini, conferma l’importanza di questo edificio e la potenza della schiatta dei Doria.

La costruzione in stile romanico venne completamente rivisitata nel 1278 in chiave gotica. Risalgono a quest’epoca sia l’arretramento della facciata che la sopraelevazione della piazza.

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“Il pozzo all’interno del chiostro di S. Matteo”. Foto di Leti Gagge.

Fra il 1308 e il 1310 venne infine realizzato, come testimoniato dall’incisione “MCCCVIII Aprilis Magister Marcus Venetus Fecit  Hoc Opus”, per mano di un maestro veneto anche lo splendido attiguo chiostro, oggi proprietà privata  dell’Ordine degli Architetti.

Costruita in marmo bianco di Carrara e pietra nera di Promontorio, privilegio concesso solo ai Doria, Fieschi, Spinola e Grimaldi, reca incise sui blocchi bianchi le grandi imprese degli ammiragli della casata.

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“Gli interni della chiesa. Da notare, l’ultima colonna a sinistra verso l’altare macchiata, secondo la leggenda, del sangue del fantasma di Branca“. Foto di Leti Gagge.

A metà del ‘500 Andrea Doria affidò al Montorsoli la ristrutturazione della chiesa, nello specifico di cupola e presbiterio. Particolare riguardo ebbe l’artista fiorentino nel concepimento della cripta che costituirà sepolcro e monumento funebre dell’ammiraglio e dei suoi cari. Negli interventi decorativi venne coinvolto anche Luca Cambiaso che dipinse episodi della vita del santo. La chiesa sempre più fuse e sovrappose i precedenti stili evolvendo  in chiave rinascimentale prima e barocca poi.

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“La lunetta con il mosaico di S. Matteo del XIII sec.”.

In facciata, pezzo unico del genere nella nostra città, merita menzione il mosaico che raffigura S. Matteo opera di maestranze venete del XIII sec.

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“Il sarcofago di Lamba Doria incastonato nella facciata e relativa sottostante epigrafe”.

Sempre nel  prospetto principale è inserito un sarcofago romano che illustra “L’allegoria dell’autunno”, in cui è sepolto Lamba Doria, l’eroe della battaglia di Curzola nel 1298 quando i genovesi sconfissero i veneziani. In quell’occasione venne catturato Marco Polo e condotto nelle galere patrie di palazzo S. Giorgio dove dettò a Rustichello da Pisa, il suo celebre “Milione“. La lapide posta sotto il sarcofago recita: “Hic Iacet Lambe De Auria Dignis Meritis Capitaneus et Admiratus Comunis et Populi Ianue Qui Anno Domini MCCXXXXXVIII die VII Septembris Divina Favente Gratia Venetos Superavit et Obiit MCCCXXIII die XVII Octuber”.

Come testimoniato da un’altra epigrafe conservata nel chiostro Lamba catturò anche l’ammiraglio nemico, il temutissimo Dandolo, distrusse 84 navi e fece 7400 prigionieri:

“Ad Honorem Dei et Beate Verginis Marie Anno MCCLXXXXVIII die Dominico VII September Iste Angelus Captus Fuit in Gulfo Venetiarum in Civitate Scurzole et Ibidem Fuit Prelium Galearum  LXXXVI Ianuensium cum Galeis LXXXXVI Veneciarum Capte Fuerunt  LXXXIIII per Nobilem Virum Dominum Lambam Aurie Capitaneum et Admiratum Tunc Comunis et Populi Ianue cum Omnibus Existentibus in Eisdem de Quibus Conduxit Ianue Homines Vivos Carceratos VIIMCCCC et Galeas XVIII Reliquas LXVI Fecit Cumburi in Dicto Gulfo Veneciarum Qui Obiit Sagone in MCCCXXIII”.

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“L’affresco di Luca Cambiaso”.

All’ interno della chiesa sono custodite opere di pregio quali, nella navata centrale “il Miracolo del dragone d’Etiopia” di Luca Cambiaso e la “Vocazione di S. Matteo” di G.B. Castello. Sull’altare di destra risalta una “Sacra Famiglia” di Bernardo Castello e, a sinistra, un “Cristo tra i santi e i donatori” di Andrea Semino.

Sotto l’altare maggiore, in corrispondenza della cripta, è custodita in una teca fedele copia della spada di “difensore della Cristianità” che Andrea Doria ricevette in dono da Papa Paolo III. L’originale venne rubata a metà del ‘500 e ne venne recuperata solo la lama. Dell’elsa incastonata di pietre preziose non se ne seppe più nulla.

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“La Deposizione del Maragliano”.

Nella navata di sinistra si trova invece uno dei capolavori del Maragliano, la “Deposizione di Gesù nel sepolcro”.

Insieme alla cripta il Montorsoli decorò di statue anche l’abside.  Nel sepolcro accanto all’ammiraglio riposano la moglie Peretta e il nipote Giannettino, l’erede vittima della congiura dei Fieschi.

Oltre ai già citati Lamba e Andrea, qui sono sepolti Oberto, il vincitore dei pisani alla Meloria nel 1284, Luciano dei veneti a Pola nel 1380, Filippino dominatore degli spagnoli e Pagano anch’egli trionfatore sui veneziani.

Per gli amanti della musica  particolare interesse riscuote, collocato in corrispondenza del transetto sinistro, l’organo tardo settecentesco di scuola romana.

All’interno ecco il chiostro progettato da un artista veneto, probabilmente prigioniero di guerra, in cui sono conservate numerose lastre e lapidi tombali della casata provenienti dal demolito convento di S .Domenico che  si trovava un tempo nella zona occupata dall’attuale teatro Carlo Felice.

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“Il sarcofago trafugato in Istria che conteneva le reliquie dei martiri Mauro ed Eleuterio”. Foto di Leti Gagge.

Una tomba fatta costruire a metà del ‘300 racchiude le spoglie, restituite poi nel 1934, dei martiri Mauro ed Eleuterio patroni di Parenzo e trafugati dai Doria agli istriani.

Una lapide racconta di Oberto che il 6 agosto del 1284 fece prigionieri l’ammiraglio veneziano al comando dei pisani, il Morosini  e il figlio del Conte Ugolino nonché della solenne consegna dello stendardo della capitana pisana nella chiesa:

“In Nomine Individue Trinitatis Anno Domini MCCLXXXIIII Die VI Augustis Egregius Potens  Dominus Obertus  De Auria Tunc Capitaneus et Admiratus Comunis et Populi Ianuensis in Portu Pisano Triunfavit de Pisanis Capiendo ex eis Galeas  XXXIII et VII Submersis et Ceteris Fugatis Multisque Ipsorum Murtuis Ianuam Reversus Fuit Cum Maxima Multitudine  Carceratorum Ita Qui Tunc VIII Milia  CCLXXII Carceribus Ianue Fuerunt Inventi in Quibus fuit Captus Albertus Molexinus de Veneciis Tunc Potestas et Dominus Generalis Guerre Comunis Pisarum cum Stantario Dicti Comunis Capto per Galeas Illorum De Auria et in hac Ecclexia Asportato cum Sigilo Dicti Comunis et Loto Quondam Comitis Ugolini et Magna Pars  Nobilitatis Pisarum”.

Una seconda lapide riferisce della distruzione di Porto Pisano avvenuta il 10 settembre 1290, per mano di Corrado:

“MCCLXXXX Die X Septembris Conradus Auria Capitaneus et Admiratus  Reipublice Ianuensis Destruxit Portum Pisanum”.

Un’epigrafe è dedicata a Pagano che nel 1352 a Costantinopoli e nel 1354 a Parenzo sconfisse le flotte veneziane-catalane e che, insieme al cospicuo bottino, prese le reliquie dei martiri Mauro ed Eleuterio:

“Ad Honorem Dei et Beate Marie MCCCCLII die VIII Marcii Nobilis vir Dominus Paganus De Auria Admiratus Comunis et Populi Ianue cum Galeis LX Ianuensium Prope Costantinopolim Strenue Preliando cum Galeis LXXX  Catalanorum Gregorum et Venetorum de Omnibus Campum et Victoriam Otinuit Idem Eciam Dominus Paganus MCCCClIII die III Novembris  cum Galeis XXXV Ianuensium in Insula Sapiencie in Portu Longo Debelavit et Cepit Galeas XXXVI cum Navibus III Venetiarum et Conduxit Ianuam Vivos Carceratos VMCCC cum Eurom Capitaneo”.

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“Lastra con al centro l’Agnus Dei, a sinistra l’aquila, arma dei Doria, a destra lo stemma della Repubblica”. Foto di Leti Gagge.

Ancora un’altra iscrizione ricorda Luciano vincitore a Pola nel 1380, dove perse la vita in mare, dei veneti:

“Ad Honorem Dei et Beate Marie MCCCLXXVIII die V Madii in Gulfo Veneciarum Prope Polam Fuit Prelium Galearum Ianuensium cum Galeis XXII Veneciarum in Quibus Erant Homines Arnorum CCCCLXXV et Quam Plures Alii de Pola Ultra Ihusman Dictarum Galearum de Quibus Galeis Capte Fuerunt XVI cum Hominibus Existentibus in Eisdem per Nobilem  Dominum Lucianum De Auria Capitaneum Generalem Comunis Ianue Qui in Eodem Prelio Mortem Strenue Belando Sustinuit que Galee XVI Venetorum Conducte Fuerunt in Civitatem Jadrae cum Omnibus Carceratis IIMCCCCVII”.

 Un’ultima lapide annovera fra i grandi anche Filippo che, nel 1528 al comando della flotta affidatagli da Andrea, per conto dei francesi schiantò gli spagnoli nel golfo di Napoli.

“Deo Optimo Maximo Philippus Doria Comes Vestigia Majorum Sequens sub Vexillo Francisci Primi Francorum Regis Christianissimi pro Praefecto Triremes Andreae Avuncoli in Regno Siciliae Citra Duxit in Sinu Salernitan cum Hostium Triremibus Legitime Felicissimeque Vario Marte Conflixit Gloriosam Tandem Mirabilenque Victoriam Deo Auspice Adeptus est MDXXVIII Aprilis Maxime Virtutis Monumenti”.

In copertina Piazza e chiesa di San Matteo. Foto di Stefano Eloggi.

continua…

Il Coraggio del Tenente…

Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra e Genova si prepara a difendersi, anche proteggendo i propri simboli e monumenti, dagli attacchi ostili. Quattro soli giorni dopo Savona e Genova sono le prime città italiane, a subire l’oltraggio nemico. Proprio come già avvenuto nel lontano 1684 quando la Superba si oppose all’affronto del Re Sole, anche stavolta una flotta francese, si dispone minacciosa all’orizzonte delle coste liguri. Intorno alle quatto del mattino appare la terza squadra navale francese, guidata dal Contrammiraglio Duplat. Composta da 4 incrociatori da 10 mila tonnellate (Algerine, Foch, Dupleix, Colbert) scortati da 11 caccia e 4 sommergibili, era partita dalla rada di Tolone alle 21 e 10 della sera prima. La copertura aerea era garantita dai 9 bombardieri al loro seguito. Come obiettivi aveva le fabbriche di Vado Ligure, Savona e l’area industriale-portuale di Genova. Giunta a 20 miglia a sud di Capo Vado alle ore 3 e 48, la squadra francese si divide in due gruppi, con bersaglio rispettivamente Vado/Savona e Genova.

Ha inizio così l’operazione chiamata ”Alba di fuoco”: alle 4 e 26 l’incrociatore Algerie apre il fuoco sugli insediamenti industriali di Vado. Due minuti dopo il Foch colpisce l’Ilva di Savona. Contemporaneamente i caccia si fanno sotto costa e colpiscono i  depositi e le altre officine della rada. Alle 4 e 48 l’attacco su Savona cessa. Il nefasto bilancio è di sei morti e 22 feriti. Le navi francesi si ritirano indisturbate. Nel frattempo, la seconda squadra navale si dirige su Genova; dalle 4 e 26 alle 4 e 40 incrociatori e caccia francesi bombardano il porto e gli stabilimenti dell’Ansaldo, nel ponente cittadino.

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“Gli operai erigono muri di mattoni per proteggere la Cattedrale dagli imminenti attacchi nemici. Il leone del Rubatto assiste preoccupato”.

 All’improvviso però, dalla bruma mattutina del porto della Superba, sbuca una nave da guerra italiana, i cui sfuocati contorni disegnano una piccola, obsoleta torpediniera, la Calatafimi. La vecchia nave, 967 di tonnellaggio, armata con pezzi di piccola artiglieria, si trovava di scorta ad un posamine. Individuata la squadra francese, il comandante della Calatafimi, il tenente di Vascello Giuseppe Brignole, malgrado la sproporzione delle forze, non ha esitazioni e si lancia contro la formazione nemica sparando colpi di modesto calibro e lanciando due siluri. Una seconda coppia di siluri si inceppa nei tubi di lancio ma il nolese, per nulla scoraggiato, insiste nella sua audace impresa. Un proiettile colpisce il caccia francese Albatros. Alle 4 e 48, anche il secondo gruppo francese si ritira riunendosi alle navi della prima divisione.

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“Operai proseguono i lavori per la costruzione della mattonata a protezione del Portale di S. Lorenzo”.
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“Autorità militari e civili osservano i danni dello stabilimento Ansaldo presso Multedo. Al centro spicca la torre della cinquecentesca Villa Rostan, attuale prestigiosa sede del Genoa C.F.C. 1893”.

Nonostante l’eroica azione dell’ufficiale di Noli la spedizione francese rese evidente la fragilità e la pochezza dell’apparato militare italiano, incapace di provvedere alla difesa delle proprie città e dei loro abitanti. L’assenza di ricognizioni aeree e di navi da guerra di peso, nonché il mancato intercettamento delle navi nemiche sulla via del ritorno avevano permesso che una flotta nemica potesse arrivare indisturbata davanti a Genova e ritirarsi impunita.

Al comandante Giuseppe Brignole venne conferita la Medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione:

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“Ritratto del Tenente Giuseppe Brignole”.

“Comandante di torpediniera di scorta ad un posamine avvistava una formazione di numerosi incrociatori e siluranti nemici che si dirigevano per azioni di bombardamento di importanti centri costieri, ordinava al posamine di prendere il ridosso della costa e attaccava l’avversario affrontando decisamente la palese impari lotta. Fatto segno ad intensa reazione manovrava con serenità e perizia attaccando fino a breve distanza con il siluro e con i cannoni le unità nemiche. La sua azione decisa e i danni subiti dalle forze navali dell’avversario costringevano questi a ritirarsi. Esempio di sereno ardimento e sprezzo del pericolo e di consapevole spirito di assoluta dedizione alla patria. Mar Ligure 14/6/1940”.

Anche lo stendardo della Calatafimi venne nobilitato e decorato dalla medaglia d’argento.

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“Risseu con il simbolo dell’antica Repubblica marinara di Noli che prosperò, fedele alleata di Genova, dal 1192 al 1797”.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 l’ufficiale ligure rifiutò di servire la Repubblica di Salò, venne internato in Germania per rimpatriare solo nel settembre del 1945 e ottenere il titolo di Capitano di Corvetta prima, di Fregata poi.

Ma se l’antico adagio recita: “Voto da mainâ presto o se scorda, passâ a buriann-a ciû o no se ricorda”  il tenente il suo giuramento ha onorato e Genova e Noli non hanno dimenticato!

Nel solco dei grandi uomini di mare della nostra terra Noli onora orgogliosa il suo coraggioso concittadino morto ottantaseienne a Genova nel 1992.

In Copertina: la lapide commemorativa sulla casa natia del Comandante Giuseppe Brignole.

Storia di fontane… di osterie… di cavalieri…

di birrai… di amori… di bagasce…

Sull’elegante slargo si affacciano importanti edifici come quello, ad esempio, del civ. 2 della famiglia Interiano Pallavicino. La cinquecentesca e sontuosa dimora progettata da Francesco Casella con affreschi architettonici e allegorie in facciata di Pantaleo e Benedetto Calvi. Nell’atrio e nel giardino che sale verso la collina della Villetta di Negro, oltre a quelli di pregevole fattura realizzati da G.B. Carlone, risaltano anche alcune statue di Filippo Parodi e di altri scultori della rinomata scuola genovese.

"Palazzo Negrone".
“Palazzo Negrone”.

Al civ. 4 ecco Palazzo Negrone ingrandito e ristrutturato nel ‘600 sulla base della precedente costruzione del 1560. A fine ‘700 l’architetto Antonio Barabino gli conferì l’attuale aspetto. Nella cappella al suo interno sono custoditi strepitosi affreschi di Giovanni Andrea Ansaldo, uno degli insuperati maestri del Barocco genovese. Nella galleria nobiliare  le “Storie di Enea” opera di G.B Carlone, i salotti affrescati da G. Assereto e da Domenico Parodi, un trionfo di energia e colori, purtroppo ammirabili solo in foto perché, in quanto abitazioni private, non visitabili al pubblico.

"Piazza Fontane Marose vista dal lato di Via XXV aprile, verso Via Garibaldi". Foto di Leti Gagge.
“Piazza Fontane Marose vista dal lato di Via XXV aprile, verso Via Garibaldi”. Foto di Leti Gagge.

Al civ. 6 forse la dimora più facilmente identificabile, quella a lesene bianco nere, il Palazzo dei “Marmi” di Giacomo Spinola, oggi sede di una banca, dall’inconfondibile prospetto. Il privilegio di edificare in marmo bianco di Carrara e pietra nera di Promontorio, per uso privato, era accordato solamente alle alle quattro più prestigiose famiglie patrizie genovesi: Grimaldi, Fieschi, Doria e, appunto, Spinola.

Attorno al toponimo di questa piazza nel corso dei secoli sono fiorite diverse leggende.

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“Scorcio, a sinistra, del Palazzo dei Marmi, al centro un elegante lampione del secolo scorso”. Foto di Leti Gagge.

Secondo alcuni l’origine risalirebbe al fatto che divenne luogo d’incontro fra i soldati che alloggiavano nel vicino Castelletto e le loro leggiadre fanciulle che qui si recavano a lavare i panni. Molto meno romanticamente, secondo altri, si trattava invece di prostitute degli attigui postriboli. Quindi “fons morosus o amorosa”, la fonte dell’amore.

Altro racconto ne farebbe derivare l’origine dal cavaliere teutonico Benedictus Van Rosen. Costui, di passaggio nella nostra città, in attesa d’imbarcarsi per la crociata, decise invece di restare a Genova e di impiantare nella piazza una fabbrica di birra. Per storpiatura dal cognome si sarebbe arrivati a “Marose”.

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“Ancora la piazza lato Via XXV aprile, scorcio di palazzo Spinola e lampione in primo piano”. Foto di Leti Gagge.

Infine, a dar credito all’ultima leggenda, l’etimo farebbe capo a “Stea Mou Rousu” (Stefano moro litigioso) che qui aveva un’osteria chiamata “Ostaia de figge du Mou Rousu”.

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“La piazza da un altro punto di vista”. Foto di Leti Gagge.
"Palazzo Interiano Pallavicino".
“Palazzo Interiano Pallavicino”.

Per quanto gradevoli e credibili siano queste storie sono, non trovando conferme scritte, niente più che favole o supposizioni. La spiegazione c’è, basta leggerla affissa nelle tre lapidi incastonate all’angolo del palazzo Interiano, accanto alla farmacia, che narrano le vicende della “Fontana Marosa”. La prima risale al 1206, la seconda al 1427, l’ultima al 1609.

Da queste si evince come la piazza, nonostante dal ‘400 fino al 1868 fosse intitolata “Fontane amorose”, debba in realtà il suo nome alla sorgente medievale del 1206 chiamata, per la potenza dei suoi getti, “Fons marosus”. La fontana viene descritta come un imponente monumento a tre arcate, provvista di numerose vasche e abbellita con diverse statue sul fastigio.

Sotto l’attuale pavimentazione stradale esiste ancora la cisterna profonda 17 metri che ne raccoglieva le acque. La monumentale fontana venne demolita nella seconda metà del ‘500 per dare spazio all’accesso a Strada Nuova e a Piazza del Portello. Dal XVI sec. divenne la piazza più elegante e mondana della Superba. Sede di spettacoli teatrali, tornei e giostre cavalleresche che sfruttavano come impareggiabile quinta lo sfarzo dei palazzi affrescati. Ospitò diverse manifestazioni durante il Carnevale e, soprattutto, in occasione delle visite dei potenti del tempo.

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“Cartolina della collezione di Stefano Finauri. Carrozze in transito e carrozze in sosta”.

Come testimoniato dalla ringhiera, detta “i faeri da posta” che si affaccia sul lato di Via Luccoli, nell’800 costituiva il luogo per la sosta dei cavalli dei corrieri.

Al di là della storia, ognuno faccia proprio il racconto che maggiormente lo soddisfa…

In Copertina: Un torneo in Strada Nuova. Genova Collezione Orso Serra. Il quadro di autore ignoto risale al primi decenni del XVII secolo. Qui, odierna Piazza Fontane Marose, fino al secolo precedente si allestivano per celebrare ricorrenze particolari I tornei.

 

Il Palazzo dei Marmi…

“Le cinque statue, da sinistra a destra Oberto, Corrado, Opizzino, Galeotto, Giacomo”.

… storie di consoli, capitani, ammiragli…

Affacciato su Piazza Fontane Amorose (questa dal ‘400 al 1868 l’antica denominazione di Piazza Fontane Marose) al n.6 è impossibile non notare il palazzo caratterizzato dalla facciata a fasce bicrome di marmo e pietra, il classico bianco del marmo di Carrara alternato al nero della pietra di Promontorio. Venne costruito fra il 1445 e il 1449 nell’area dove si ergeva un’antica torre della famiglia. Si tratta del Palazzo di Giacomo Spinola, meglio noto, per il suo particolare aspetto, con l’appellativo “dei Marmi”.

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“Palazzo Giacomo Spinola”. Foto di Leti Gagge.

In origine l’edificio e fino al 1832 sorgeva, sullo stile di Piazza S. Matteo, sopra una piazzetta sopraelevata che fiancheggiava la prosecuzione di Via Luccoli verso Salita Santa Caterina dove si trovava l’omonimo varco.

Con l’apertura ottocentesca di Via XXV aprile  le sue caratteristiche vennero significativamente stravolte non solo nel prospetto esterno ma anche negli ambienti interni.

 

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“Decori sul prospetto angolo Via XXV aprile. In evidenza l’edicola e una cornucopia”. Foto di Leti Gagge.

Il recupero del palazzo nella versione in cui oggi lo possiamo ammirare è stato avviato dagli architetti Calza e Badano a partire dal 1989.

Al primo piano nobile si alternano quattro quadrifore e cinque nicchie con le quattrocentesche statue di illustri personaggi del Casato: Corrado, Opizzino, Oberto, Galeotto e Giacomo. Sulla facciata sono poste le relative lapidi che ne raccontano le eroiche gesta e ne permettono l’identificazione.

La prima di queste inerente Oberto recita ad esempio:

“Sum Spinula Obertus Loculo Qui Cognitus Astris/

Imperio Obtinui Ianuam Comitante Popello/

Attamen Aurigenam Socium Sme Marte Posci”.

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“Oberto Spinola regge lo scudo del casato”.

Oberto, Console e Capitano del Popolo, insieme al suo omonimo appartenente ai Doria diede origine alla ventennale diarchia dei “due Oberti”. A costoro si deve l’edificazione del primitivo nucleo del futuro Palazzo Ducale.

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“Corrado Spinola”.

La seconda ricorda Corrado, tre volte eletto Console della Repubblica e Ammiraglio di Aragona e Sicilia per conto del re di quelle terre.

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“Opizzino Spinola”

La terza celebra Opizzino, capitano del Popolo, figura diplomatica e uomo di punta dell’Impero in città.

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“Galeotto Spinola”.

La quarta menziona Galeotto, ultimo capitano del popolo insieme a Raffaele D’Oria, dal 1335 al 1339, prima della rivoluzione “popolare” che portò all’elezione, nel 1339 appunto, del primo Doge Simone Boccanegra.

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“Giacomo Spinola”.

La quinta e ultima racconta di Giacomo il committente del palazzo. Costui fece predisporre la nicchia vuota pronta per ospitare, post mortem, la propria statua auto celebrativa.

Le sculture di Oberto, Giacomo, Galeotto e Opizzino sono contemporanee: realizzate da Domenico Gagini le prime tre, da Giovanni Gagini la quarta.

L’ultima invece, quella relativa al padrone di casa, posteriore di circa 40 anni rispetto alle altre, è opera di Giovanni Antonio Amadeo.

Altri grandi personaggi come l’Ammiraglio Francesco, il Doge Agostino e il Generale Ambrogio dovevano ancora nascere…

Il Palazzo del Vescovo…

Durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale tutta l’area di Sarzano subì gravi danni, nemmeno le chiese di S. Salvatore, S. Agostino e S. Silvestro, vennero risparmiate dalle incursioni aeree e navali degli alleati.

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“Il restaurato Campanile di S. Silvestro con, in primo piano, brani delle antiche mura”. Foto di Leti Gagge.

Di quest’ultima, eretta nel XVII sec., sulle fondamenta del precedente edificio sacro fondato nel 1160, non restò che in piedi, come ultimo eroico baluardo, un mozzicone del campanile, oggi restaurato.

Un anonimo viaggiatore la descrive come piuttosto piccola con tre altari in marmo e colonne rosse ritorte. Per quanto riguarda l’interno scrive: «è […] tutta riccamente indorata. Fra le immagini che si espongono per rappresentare la Deposizione del Signore nel Santo Sepolcro la Settimana Santa, bella è sopra ogni altra, quella che si vede in questa chiesa, opera al certo di Gio Battista Bissone, e tale per la sua leggiadria, per la finezza estrema, ed esatta proporzione di tutte le sue parti con cui è ammirabilmente condotta, che è gran peccato sia in legno e non in marmo eseguita»

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“Il Campanile visto dallo scenografico ingresso della Facoltà di Architettura in Stradone S. Agostino”. Foto di Leti Gagge.

Nel decennio successivo al termine della guerra le macerie di S. Silvestro vennero abusivamente occupate dai senza tetto che ne fecero la propria disastrata dimora, abitando in baracche e improvvisati tuguri. Purtroppo, in questo periodo, complice il disinteresse delle autorità cittadine, il Convento venne depredato di gran parte delle sue opere d’arte, andate ad arricchire qualche preziosa collezione privata.

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“In basso a sinistra il Campanile di S. Agostino, al centro quello di S. Silvestro, accanto inglobato in uno degli edifici della Facoltà uno dei due torrioni, quello quadrato del Palazzo del Vescovo. Dell’altro pentagonale restano solo alcune pietre a segnarne la base. In alto a sinistra il chiostro e i giardini pensili, sullo sfondo immancabile, il mare”.

Fra il 1948 e il 1949 le rovine di S. Silvestro furono utilizzate come ambientazione principale per le riprese del film di René Clement “Au delà des Grilles” (liberamente tradotto in italiano “Le Mura di Malapaga”) interpretato da Jean Gabin e Isa Miranda. Tutta la storia è ambientata nel centro storico della nostra città e costituisce un documento imperdibile per la conoscenza della Genova del dopo guerra.

A metà degli anni ’60, finalmente, si iniziò a ragionare su come recuperare l’area e , durante i relativi scavi archeologici, vennero alla luce importanti resti dei primi insediamenti etrusco-liguri, romani e medievali del Colle.

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“Arco e scalinata dello scenografico accesso oggi, alla Facoltà di Architettura, un tempo al Palazzo del Vescovo”. Foto di Leti Gagge.

Nel 1990 gli architetti Gardella e Grossi Bianchi restaurarono il complesso, ricostruendo le parti crollate come il chiostro, mantenendo i volumi originari, vedi la chiesa e valorizzando le strutture medievali, soprattutto brani di muri e uno dei torrioni all’interno del palazzo del Vescovo. Il monumentale Complesso è divenuto così impareggiabile sede della Facoltà di Architettura dell’Università di Genova.

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“La piccola Crocifissione marmorea”.

Di particolare interesse è il percorso di accesso all’aula “Benvenuto” che costeggia il “muro lungo”, la più antica struttura, ancora visibile, delle fortificazioni del IX e X secolo. Sopra la porta di accesso all’aula, di quello che un tempo, oltre che refettorio delle monache, era stato anche l’alloggio del Vescovo, una graziosa crocifissione marmorea. In questo locale vennero custodite le secentesche sculture della distrutta chiesa di S. Silvestro.

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“Il Portale di Giacomo Gaggini nella sua collocazione originaria”.

Nella zona verso S. Maria di Castello i giardini che degradano sul colle in quell’epoca facevano parte del confinante  complesso di S. Maria in Passione. Quest’area, oggi chiusa da una grata di ferro, costituiva l’antica piazza di S. Silvestro, l’originario ingresso di Convento e Chiesa, dotato di un ricco portale barocco scolpito con due splendidi angeli opera di Giacomo Gaggini e dei maestri Angelo Maria Mortola e Carlo Cacciatori.

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“Lo stesso Portale nella sua attuale posizione nel cortile di Palazzo Rosso”.

Il maestoso portale, recuperato e restaurato, oggi fa bella mostra di sé nel cortile di Palazzo Rosso in Via Garibaldi.

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“Formella raffigurante il Vescovo, incastonata nelle mura lato Stradone S. Agostino”.

Sullo scenografico lato verso Stradone S. Agostino si elevano invece maestosi i familiari bastioni in pietra, incastonati di formelle di marmo con fregi e rilievi.

In questa piazza, l’antico “Castrum”, a due passi dalla millenaria cattedrale di S. Maria di Castello, sopra l’approdo del Mandraccio, non poteva mancare, a vegliare sulle sorti della “Dominante”, il Palazzo del Vescovo.

La chiesa dove splende sempre il sole…

Fuori dalle Mura del Barbarossa, costruite fra il 1155 e il 1163, si trovava la zona militare dove si esercitavano i balestrieri. Tale spazio era detto del “Vastato o Guastato” perché stava ad indicare i luoghi dei “guasti”, ovvero dei lavori di demolizioni e spianate attorno alle mura. Il Vastato e l’attiguo “burgus de praedis” (borgo di Prè) divennero così i siti prescelti per allestire campi di simulazione e allenamento funzionali alle attività belliche. Qui nel tratto compreso fra i due rivi, oggi sotterranei, di Carbonara e Vallechiara, esisteva dal 1228 una piccola chiesa denominata S. Marta del Prato, sulle cui fondamenta verrà successivamente eretta la maestosa Basilica dell’Annunziata. Nel 1508 i frati conventuali di S. Francesco, gli stessi del Castelletto e di Albaro vi si insediarono ed iniziarono i lavori di costruzione ed ampliamento del nuovo edificio intitolandolo al loro patrono, Francesco d’Assisi. Nel 1537 i francescani traslocarono e si ritirarono nella casa madre in S. Francesco del Castelletto. Furono sostituiti dagli Osservanti del convento della Santissima Annunziata di Portoria che ne mutarono il nome in Santissima Annunziata del Vastato. Sul finire del ‘500 i Frati, per ottemperare alle nuove disposizioni emanate dal Concilio di Trento, furono costretti a rinnovare la struttura. Le spese previste erano però di gran lunga superiori alle loro possibilità economiche così cedettero il giuspatronato della cappella maggiore alla potentissima e munifica famiglia dei Lomellini. La nobile e antica casata, padrona della colonia tunisina di Tabarca in cui esercitava la pesca del corallo, aveva accumulato immense ricchezze e non ebbe difficoltà a finanziare i lavori. Costoro ingaggiarono i maggiori artisti del ‘600 genovese; a Taddeo Carlone, Giacomo Porta e Domenico Casella (il cui soprannome “Scorticone” descrive bene il carattere rissaiolo dell’artista) furono affidate le principali opere strutturali e la direzione dei lavori. A questi si aggiunse il fior fiore, il gotha, delle maestranze genovesi del ‘6oo, la cui rinomata scuola aveva da tempo varcato i confini repubblicani: Giovanni e Giovanni Battista Carlone, Gioacchino Assereto, Domenico Piola, Luca Cambiaso, Giovanni Battista Paggi, Gregorio De Ferrari, Andrea Semino, Aurelio Lomi, Giovanni Andrea De Ferrari, Il Guercino, Luciano Borzone, i marmisti il marsigliese Pellè e il già citato Giacomo Porta, Procaccini, Bernardo Strozzi, lo scultore Tommaso Orsolino.

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“La principale delle tre navate della Basilica”. Foto di Leti Gagge.

La decorazione della cupola venne affidata ad Andrea Ansaldo che vi si dedicò nei tre anni antecedenti la morte, avvenuta a soli 54 anni, dipingendola con la magnifica scena dell’Assunzione. Per tutto il ‘700  le vicende della chiesa ruotarono attorno alle fortune della schiatta dei Lomellini che, estinguendosi nel 1794, non assistettero all’umiliazione della confisca della struttura, infelice conseguenza dell’effimera e neonata Repubblica Ligure del 1797.

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“Nella cupola sopra l’altare l’Annunciazione di Andrea Ansaldo”. Foto di Leti Gagge.

I frati, in base alle disposizioni napoleoniche, abbandonarono il convento nel 1810 e vi fecero ritorno  solo nel 1815 quando ospitarono Papa Pio VII, di passaggio in città e in viaggio verso Roma, dopo la prigionia francese. Il Pontefice vi celebrò con solenni e memorabili funzioni l’Ascensione il 4 e la Pentecoste il 14 maggio.

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“Il Pronao della facciata neoclassica disegnato dal Barabino e completato dal Resasco”. Foto di Leti Gagge.

La scenografica facciata neoclassica con l’ormai familiare pronao caratterizzata da sei colonne in stile ionico, costituisce l’intervento strutturale più recente, essendo stato portato a termine nel 1867 sulla base dei progetti dell’architetto Carlo Barabino e del suo successore Giovanni Battista Resasco (i due colleghi e amici avevano anche realizzato il Cimitero Monumentale di Staglieno).

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“Particolari dei cicli pittorici della volta”. Foto di Leti Gagge.

La Basilica dell’Annunziata rappresenta la summa, il capolavoro del Barocco genovese; l’effetto d’insieme è abbagliante, un tripudio di marmi, stucchi, affreschi, ornamenti in oro zecchino, ogni singolo centimetro è decorato come si conviene. Sembra sempre che vi splenda il sole, un’irruzione dirompente e artificiale dai riflessi abbacinanti. Il celebre filosofo francese Montesquieu visitandola, ne rimase talmente affascinato, da definirla “la più bella chiesa di Genova”.  Molti furono le personalità attratte dalla bellezza della Basilica ma la descrizione, a mio parere più appropriata, rimane quella  che ne tracciò il letterato parigino Adolphe Karr.

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“La volta dorata e affrescata”. Foto di Leti Gagge.

«…l’ Annunziata ha l’interno tutto dorato, tutto letteralmente, e i giorni di festa le colonne di marmo sono rivestite di damasco o velluto crimisi a frangie d’oro». Lo scrittore osserva la sostanziale differenza che contraddistingue le chiese genovesi da quelle francesi. In Francia la luce penetra misteriosamente e crea una «…dolce musica di colori che si armonizza con la musica dell’organo…», grazie alla forma ogivale delle finestre ed alla presenza di grandi vetrate. In Italia, invece, le volte basse e quadrate e la presenza di grandi finestre permettono al sole di entrare bruscamente, senza creare quella dolce armonia tanto cara al transalpino che, a proposito dello stile di vita genovese, prosegue «…non si mangia e non si dà da mangiare, non ci si veste e si va a una chiesa o un palazzo. La chiesa d’oro e il palazzo di marmo».

Non la pensava diversamente lo scrittore americano Mark Twain che nei suoi appunti annotava:

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“Gli interni”. Foto di Leti Gagge.

 potrei dire che la chiesa dell’ Annunziata è una foresta di bellissime colonne, di statue, di dorature, di dipinti quasi senza numero, ma non darei un’idea esatta della cosa, e a che servirebbe? Fu costruita interamente da un’antica famiglia, che vi esaurì il suo denaro. Ecco dov’è il mistero. Avevamo idea che solo una zecca sarebbe sopravvissuta alla spesa…».

Durante la Seconda Guerra Mondiale l’Annunziata subì diversi bombardamenti, il più grave dei quali, quello del 29 ottobre 1943, causò danni irreparabili e la perdita degli importanti cicli pittorici di Domenico Fiasella.

I lavori di ripristino condotti nel dopoguerra hanno riconsegnato la Basilica al suo antico splendore  e restituito, ai suoi ammiratori, legittimo orgoglio e giustificato stupore.

Se, come disse Carlo V a proposito del suo impero, a sottolinearne la vastità, “nel mio regno non tramonta mai il sole”, lo stesso si può dire della Nunziata di Genova, la chiesa “dove risplende sempre il sole”.

Gli aromi e gli odori della stanza… del tesoro

“Caroggio del Promontorio”, così un tempo era chiamato Vico Casana, perché conduceva verso lo scomparso colle di Piccapietra, spianato poi per far spazio alle odierne Via Roma e Galleria Mazzini.

L’attuale nome del vicolo trae origine dal turco “Chasana” che indicava la stanza del tesoro del sultano di Costantinopoli.

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“La salita di Vico Casana”. Foto di Leti Gagge.

Nel medioevo il termine casana venne associato al tesoro del banco dei pegni e con il titolo di casanieri furono identificati i prestatori privati di denaro. Costoro offrivano palanche a tassi elevati, insomma erano dei veri e propri strozzini.

Ma con l’istituzione del Monte di Pietà le attività di questi usurai ebbero un significativo ridimensionamento. Genova, dal canto suo, già dal 1403 aveva creato il Magistrato della Misericordia e dal 1442 l’ospedale di Pammatone proprio per tutelare la popolazione da queste lucrose prassi.

 Il nuovo Ente nacque nel 1463 a Perugia per volere dell’ Ordine dei Francescani, comunità alla quale apparteneva anche Frate Angelo da Chivasso che a lungo dimorò nella nostra città e che ne favorì la diffusione.

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“Mosaico custodito nel vicino palazzo della Carige che rappresenta Padre Angelo da Chivasso accompagnato da un fratello dell’ordine. Sullo sfondo, si riconoscono, le Torri di Porta Soprana”.

Costui infatti, abile e stimato predicatore, si distinse nell’opera di  fondazione nel 1483 del primo Monte di Pietà genovese, istituto che  successivamente contribuì  a diramare anche a Savona.

Percorrendo la salita ammiriamo i preziosi gioielli che costituiscono, tuttora il suo “tesoro”:

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“Cappa, piastrelle, pavimento e paioli della cucina dell’antica tripperia”. Foto di Leti Gagge.

Al civ. n. 3  s’incontra “l’antica tripperia, già Cavagnaro”, fondata nel 1890, l’ultima rimasta delle circa 200 in cui ci si poteva imbattere nel centro storico ad inizio del ‘900. Pavimenti alla genovese, bancone in marmo, cucina a ronfò con cappa aspirante piastrellata, pentoloni e paioli di rame in cui, oltre alle trippe, segno dei tempi, già preparate in tutte le maniere, si può gustare la famosa “sbira”, il brodo di trippa con cui facevano colazione i Camalli.

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“Riflessa negli specchi del bistrot le Cafè de Paris, Leti Gagge, l’autrice della foto”.

Dal civ. n. 20 r  “Il Cafè de Paris” un elegante bistrot, arredato fine ‘800 e in stile liberty, perfettamente conservato, proviene invece un invitante ed avvolgente aroma di caffè.

Al civ. n. 7r sulla base del nobile portale in marmo due suggestivi rilievi raffiguranti, su uno sfondo di alberi e rocce, Ercole in lotta con Anteo il primo, Ercole contro il leone Nemeo, il secondo.

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“All’angolo con Via David Chiossone l’edicola della Madonna Regina”.

All’angolo con Via Chiossone  l’edicola    con statua secentesca della Madonna Regina sulla cui base l’epigrafe recita “Sub tuum praesidium”. Fra quelle  in stucco una delle meglio conservate, mirabile esempio del barocchetto genovese applicato non ad una opulenta chiesa, bensì ad una semplice Votiva di strada.

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“Al civ. n. 7 Ercole combatte Anteo”

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“Al civ. n. 7 Ercole smascella il leone Nemeo”.

Nel frattempo Ercole ed Anteo hanno sospeso la loro lotta, ingolositi dall’appetitoso odore di trippa che impregna di aromi “il caruggio del tesoro”, si sono presi una pausa…  e non stupitevi se osserverete anche la chioma del leone Nemeo, riflessa nello specchio del Cafè, mentre sorseggia soddisfatto il suo aperitivo. Tali visioni non sono frutto della vostra fantasia ma di “ quell’aria carica di sale, gonfia di odori…” così piacevolmente diffusa nei nostri inimitabili caruggi, magici a tal punto da alterare la percezione che abbiamo di essi.

In copertina foto di Giancarlo Cammilli.

                                                                                                                                                             

“Umbre de muri muri de mainé”…

Nel maggio 1938 Benito Mussolini, in veste di Capo del Governo, visitò Genova che per l’occasione inaugurò la statua detta del “Navigatore“, opera dello scultore Antonio Maria Morera. In realtà quello che venne mostrato al Duce era un calco in gesso poiché l’originale sarà terminato ed esposto solo l’anno successivo.

Il monumento al marinaio, Piazza della Vittoria , l’attigua Viale Brigate Partigiane e Piazza Rossetti si collocarono nell’ambito del progetto di edilizia fascista coordinato dall’architetto Piacentini che ridisegnò completamente la zona della Foce.

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“Foto d’epoca che ritrae il Navigatore nella conformazione originaria con la scritta sul basamento “Giovinezza del Littorio fa di tutti i mari il mare nostro e, dietro all’arco, le scuri dei fasci che spuntano”.

L’artista scolpì la sua idea di un marinaio forte e possente attorno alla cui figura, nel semicerchio, incise il motto “Vivere non necesse, navigare necesse est”. La massima deriva dallo storico Plutarco il quale, a sua volta, la attribuì a Pompeo che doveva convincere il suo equipaggio, restio ad affrontare la tempesta. I marinai infatti, timorosi per la propria sopravvivenza, non volevano salpare mentre era necessario che lo facessero poiché a Roma, di quel carico di grano proveniente dall’Africa, aveva urgenza. Di fronte al bene comune, in questo caso di Roma, la paura di non farcela ed il rischio di naufragare o morire, doveva passare in secondo piano. Questo significava l’eroico messaggio del condottiero romano. L’autore eseguì il bozzetto, per sottolinearne la mascolina potenza, completamente nudo ma, causa il puritanesimo dell’epoca, il pube venne ricoperto da una succinta ed imbarazzante cintura. Fu scelto come modello l’atleta genovese Nicolò Tronci, campione italiano di ginnastica, che aveva partecipato alle Olimpiadi di Berlino del 1936.

Ai lati erano posti dei fasci littori e sul basamento originale inciso il monito “Giovinezza del Littorio fa di tutti i mari il mare nostro” in seguito, per ovvi motivi politici, vennero rimossi i primi, sostituito il secondo.

Il poeta Gabriele D’Annunzio prese il monumento come fulgido esempio dell’arditismo nazionalistico: “La statua del Navigatore è una forte e serena raffigurazione dell’uomo ligure di mare, rude, tenace e semplice che, armato di un pesante remo, scruta l’orizzonte lontano, a guardia ideale del suo porto e della sua città. La prepotente anatomia muscolare del torace e dei bicipiti, delineate e modellate con forza, ma senza esagerazioni, è chiaramente allusiva alla potente capacità operativa e manovriera dei pesanti antichi remi lignei, armati di pesante cuoio”.

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“Il Navigatore al giorno d’oggi, depurato dei simboli fascisti, ma con lo sguardo sempre rivolto al mare e al suo infinito orizzonte”.

Anche se per fini propagandistici, il Vate colse argutamente l’essenza del navigatore ligure in generale e genovese in particolare; ammiragli, esploratori e marinai, naviganti coraggiosi ed intraprendenti, “Umbre de muri muri de mainé con il cuore sulla terraferma ma lo sguardo sempre rivolto all’orizzonte, a quell’infinito leopardesco del “e il naufragar m’è dolce in questo mar”.

L’anonimo poeta genovese, d’altra parte, già nel ‘200 aveva colto nel segno: “Noi che sempre navegemo e ‘n gran perigor semo en questo perigoloso mar, ni mai possamo repossar…”.