“Il Vecchio e il Mare”…

Il celebre cronista americano capitò varie volte in Liguria, a Genova, in Val Trebbia e a Rapallo in particolare. Da Genova infatti nel 1918, al termine della prima guerra mondiale, si era imbarcato per tornare in patria. Interessante, anche se non propriamente edificante, è la descrizione che ne fece lo scrittore americano nel  1922 in “Che cosa ti dice la patria”: ”Pioveva a dirotto quando passammo per i sobborghi di Genova e anche andammo molto piano dietro ai tram e ai camion, il fango schizzava sul marciapiede così che la gente si affrettava a rifugiarsi nelle porte delle case quando ci vedeva arrivare. A San Pier D’Arena, il sobborgo industriale di Genova, c’era una larga strada con delle rotaie da una parte e dall’altra, e ci tenemmo nel mezzo per evitare d’infangare gli uomini che tornavano a casa dal lavoro. Alla nostra sinistra avevamo il Mediterraneo. C’era mare grosso, le onde si rompevano e il vento ne portava gli spruzzi fino all’automobile. Il letto di un fiume che quando eravamo passati venendo in Italia era largo, asciutto e pieno di pietre, adesso scorreva in piena e l’acqua arrivava fino agli argini. Quest’acqua fangosa scolorava in quella del mare e quando le onde rompendosi si assottigliavano e diventavano bianche, anche l’acqua gialla si schiariva e fiocchi di spuma, portati dal vento, volavano attraverso la strada.

“Lo sguardo sornione e beffardo di Ernest Hemingway”.

Una grossa automobile ci sorpassò ad alta velocità e una cortina d’acqua fangosa ricoperse il parabrezza e il radiatore. Il tergicristalli automatico si muoveva avanti e indietro appannando il vetro. Ci fermammo a mangiare a Sestri (Ponente). Non c’era riscaldamento nella trattoria e tenemmo addosso pastrano e cappello. Potevamo vedere la macchina fuori, attraverso la finestra. Era coperta di fango e stava accanto a barche tirate a secco lontano dalle onde. Nella trattoria il nostro fiato faceva nuvolette.

La pasta asciutta era buona; il vino sapeva d’aceto (qui concorda con Magone) e lo allungammo con l’acqua. Dopo il cameriere portò una bistecca con patate fritte. Un uomo e una donna sedevano all’estremità più lontana della sala. Lui era un uomo di mezza età e lei giovane e vestita di nero. Durante tutto il pasto si vide il suo respiro nell’aria fredda e umida. L’uomo la guardava e scuoteva la testa. Mangiavano senza parlare  e lui le stringeva la mano sotto la tavola. La donna era bella ed entrambi sembravano tristi. Avevano vicino una valigia.

Avevamo i giornali e lessi forte a Guido (l’autista) il resoconto dei combattimenti a Shangay. Dopo mangiato, Guido uscì col cameriere in cerca di un posto che nella trattoria non esisteva e io pulii con uno straccio il parabrezza, i fanali e la targa posteriore. Quando Guido tornò voltammo la macchina e partimmo. Il cameriere lo aveva portato dall’altra parte della strada in una vecchia casa. Le persone che l’abitavano erano molto sospettose e il cameriere era rimasto con lui per vedere che non rubasse niente”.

Nel febbraio del 1923, Hemingway, giunto nel Tigullio in compagnia della prima moglie Hadley, per una fugace vacanza, descrisse una piovosa giornata invernale trascorsa nell’hotel Riviera di Rapallo in un breve racconto intitolato “Il Gatto sotto la pioggia”.

C’erano solo due americani alloggiati in quell’albergo… La loro camera era al primo piano e dava sul mare. Dava anche sul giardino pubblico e sul monumento ai caduti.

«La loro stanza era al primo piano – dicevamo – e dava sul mare. Dava anche sul giardino pubblico e sul monumento ai caduti. Nel giardino pubblico c’erano grandi palme e panchine verdi. Col tempo bello c’era sempre un pittore col suo cavalletto. Ai pittori piaceva come crescevano le palme, e i vivaci colori degli alberghi affacciati sul giardino pubblico e sul mare. Gli italiani venivano da lontano a vedere il monumento ai caduti, che era di bronzo e luccicava sotto la pioggia. Pioveva. La pioggia gocciolava dai palmizi. L’acqua stagnava nelle pozzanghere sulla ghiaia dei sentieri. Il mare si rompeva in una lunga riga sotto la pioggia e scivolava sul piano inclinato della spiaggia per tornare su a rompersi di nuovo in una lunga riga sotto la pioggia. Le macchine erano sparite dalla piazza vicino ai monumento. Oltre la piazza, sulla soglia del caffè, un cameriere stava guardando fuori verso la piazza deserta».

 Ernest era innamorato del clima e della bellezza dell’Italia e amava la Liguria.  Con la moglie lo scrittore si fermò a Rapallo, in quegli anni uno tra i più vivaci centri della cultura mondiale, per trascorrere qualche giorno in compagnia di Ezra Pound.

Anche Jan Sibelius, Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud, Butler Yeats ed Hermann Hesse erano assidui  frequentatori  del  Tigullio.

“Spencer Tracy protagonista della versione cinematografica nel 1958 del Vecchio e il Mare”.

 Nel 1945 ancora al seguito dell’esercito americano, nelle vesti di corrispondente di guerra americano nei giorni successivi alla liberazione, attraversò la Val Trebbia e la Val D’Aveto, luoghi dove era già stato in uno dei suoi viaggi nel 1927. Partito da Chiavari e diretto a Piacenza, fu anzi costretto a fermarsi una ventina di giorni in zona Vicosoprano.  Fu in quell’occasione che scrisse una frase destinata restare storica e a rendere legittimamente orgogliosi i valligiani: «Oggi ho attraversato la valle più bella del mondo» – con riferimento a entrambe le vallate che (Aveto e Trebbia) dal punto di vista di un americano erano la continuazione l’una dell’altra.

Nel 1948 tornò ancora a Genova dove, all’apice del successo, ormai venerato intellettuale, non passò di certo inosservato, vedendolo scorrazzare su e giù per la Riviera a bordo di una vistosa Buick azzurra decapottabile. L’anno successivo Hemingway soggiornò per l’ultima volta a Genova. Ormai era giunto il tempo per lo scrittore di tornare a Cuba e comporre il suo romanzo capolavoro, chissà, magari anche in piccola parte ispirato dalle nostre atmosfere, “Il Vecchio e il Mare”.

 

“Il lupo della steppa… o di mare?”…

Hermann Hesse spesso, in attesa d’imbarcarsi per i suoi frequenti viaggi in oriente, sostò nella nostra città. 

Il grande poeta tedesco, sublime pittore non solo con le parole ma anche con il pennello dei  suoi natii panorami montanari, scoprì la Superba e, lo dice lui, se ne innamorò. Comprese la differenza fra la limitatezza delle prospettive lacustri, a cui era intimamente legato, e l’infinita, smisurata apertura dell’orizzonte marino, inteso come metafora di nuovi spazi da scrutare e sogni da rincorrere.

La Liguria diviene allegoria del viaggio interiore. Nel suo primo romanzo di un certo successo del 1904, intitolato “Peter Camenzind”, il futuro premio Nobel per la letteratura del 1946, scrive:

“Acquerello di paesaggio alpino di H. Hesse”.
“Il poeta amava scrivere, verseggiare, dipingere, prendere appunti all’aria aperta”.

 “A Genova mi arricchii di un altro grande amore. Era una limpida giornata ventosa, appena dopo mezzogiorno. Avevo appoggiato le braccia ad un largo parapetto: Genova ricca di colori si stendeva alle mie spalle, mentre sotto di me vivevano e si ingrossavano i grandi flutti azzurri del mare. Il mare. Con il suo cupo mugghiare e i suoi desideri  incompresi  l’eterno ed immutabile mi si avventava contro, ed io avvertii in me stringere eterna amicizia, per la vita e per la morte, con quei flutti azzurri e schiumosi. Altrettanto fortemente mi commosse l’ampio orizzonte marino. Nuovamente rividi, come  già nella mia  fanciullezza, l’odorosa azzurra lontananza che mi aspettava invitante simile ad una porta aperta… Per uno oscuro impulso crebbe dentro di me l’antico e doloroso desiderio di gettarmi fra le braccia di Dio ed affratellare la mia povera esistenza all’infinito ed all’eterno”.

Ed eccolo l’incontro concreto con il mare:” A Rapallo lottai per la prima volta contro le onde del mare, e nuotando assaggiai l’acre sapore dell’acqua salata, e provai la potenza dei flutti. Tutto attorno onde azzurre e chiare, scogli color avana, un cielo profondo e tranquillo, e l’eterno, incessante rumoreggiare delle acque.

“Copertina del romanzo Peter Camenzind”.

La vista delle barche che scivolavano al largo sull’acqua, con  la loro nera alberatura e le vele bianche, o il piccolo pennacchio di fumo di un piroscafo che passava lontano mi colpiva ogni volta… Oltre alle mie predilette, le irrequiete nuvole, non conosco simbolo dell’ardente brama di errare per il  mondo più bello e più pregnante di quello di una nave, che passa a grande distanza, diventando sempre più piccola sino a scomparire nell’orizzonte aperto”.

“Per chi suona la campana”…

“Genova a metà del XV sec.”.
Da notare oltre alla Torre dei Greci, sorella minore della Lanterna a destra dell’ingresso del porto, sul Molo Vecchio, le due torri della Darsena, il Castelletto, e la particolare copertura piramidale di S. Lorenzo.
Incisione in legno realizzata nel 1493 dalla bottega di Michael Wolgemut e successivamente colorata a mano.
Per il “Liber Chronicarum” (Cronache di Norimberga) di Hartmann Schedel, stampato a Norimberga il 12 luglio 1493 da Anton Krobergerl.
“La torre campanaria di destra, terminata nel 1522 da Pietro Carlone da Osteno”. Foto di Leti Gagge.

Nel progetto di ampliamento trecentesco della cattedrale di S. Lorenzo le torri campanarie avrebbero dovuto essere due. Causa la morte di colui che le aveva progettate solo una, quella di destra che ancora oggi, con i suoi 60 metri domina il centro storico, venne portata  a termine nei primi decenni del ‘500. Dell’altra, quella di sinistra, non rimane altro che, nella configurazione tuttora visibile, il basamento sormontato dall’elegante loggiato quattrocentesco. Come testimoniato dalla xilografia datata 1493 di Michael Wolgemut, la più antica rappresentazione della città, a quel tempo non esisteva nemmeno la cupola, progettata poi nel ‘500 dall’Alessi, ma solo, al suo posto, una curiosa copertura piramidale. Poco distante nei paraggi della Cattedrale si diramano un Vico ed una Piazza intitolati alla famiglia dei Valauri, o Valori, Piazza e Vico Valoria.

Costoro, che erano i campanari della chiesa di S. Lorenzo, vi si stabilirono e tramandarono il mestiere per oltre due secoli, probabilmente aggregandosi alle numerose maestranze normanne ed antelamiche che operarono alla cinquecentesca ricostruzione del Duomo. Sette, di epoche e provenienze diverse, le campane che i Valauri suonavano con perizia, scandendo il tempo, gli avvenimenti e le cerimonie della città.

“La copertina di Le Campane, il secondo dei cinque racconti scritti ed ispirati a Genova a partire dal 1844. Gli altri quattro sono il celeberrimo Racconto di Natale, il Grillo del focolare, la battaglia della vita e il patto con il fantasma”.
“Piazza Valoria, la dimora dei campanari di San Lorenzo”.

Sull’abilità dei campanari genovesi, a dire il vero, Charles Dickens la pensava diversamente. Durante uno dei suoi soggiorni genovesi, infatti, rimase infastidito dal fracasso dei campanari delle chiese di Albaro. Nel momento in cui si era seduto al tavolo con la ferma intenzione di lavorare, era salito dalla città un tale frastuono di campane da farlo impazzire. Il vento gli aveva portato tutti i rintocchi dei campanili di Genova e le sue idee si erano messe a vorticare fino a perdersi in un turbinio di irritazione e stordimento. Scrive: «…specialmente nei giorni festivi, le campane delle chiese suonano incessantemente; non in armonia, o in qualche conosciuta forma sonora, ma in un orribile, irregolare, spasmodico den den den, con una brusca pausa ogni quindici den o giù di lì; una cosa da impazzire.»., «…avere trovato il titolo e sapere come sfruttare lo spunto delle campane è una gran cosa. Che mi assordino pure da tutte le chiese e conventi di Genova, ormai: non vedo altro che la cella campanaria di Londra in cui le ho collocate…».

Lo scrittore anglosassone ne trasse dunque ispirazione per comporre uno dei suoi celebri cinque racconti di Natale intitolato, appunto, “Campane” in cui il protagonista vede dipanarsi i principali eventi della propria esistenza, ritmati dai rintocchi, in un’atmosfera onirica, dei bronzei batacchi.

“I Mille all’imbarco a Quarto dei Mille>”.

Ultima curiosità, al civico n. 4 della piazza aveva sede lo studio fotografico di Alessandro Pavia, colui che riuscì ad immortalare i ritratti di tutti i 1092 garibaldini facenti parte della spedizione dei Mille.

In Copertina: Piazza dei Valoria. Foto di Leti Gagge.

La Madonna del Galeotto…

Le edicole votive nel centro storico costituiscono una preziosa istantanea non solo architettonica e religiosa del loro tempo ma rappresentano anche un originale pretesto per raccontare storie, fatti, leggende di cui sono state silenti testimoni:

Narra, ad esempio, un’antica leggenda che due guardie stavano conducendo in catene verso il Palazzetto Criminale un prigioniero che continuava a professarsi a squarciagola innocente.

Una volta giunti in Campopisano il detenuto si gettò ai piedi davanti ad un’edicola dichiarando la propria estraneità in relazione ai reati per i quali era imputato.

Alzò le mani al cielo e, quando in un fragore assordante, le catene si ruppero di colpo, i militi gridarono spaventati al miracolo.

Di fronte a tale manifestazione divina infatti decisero di lasciare subito libero il mal capitato ma il galeotto non ne volle sapere.

Questi pretese di essere regolarmente processato e prosciolto da ogni accusa direttamente dal tribunale.

L’immagine della Vergine protagonista di questo portentoso accadimento, tramandato nei secoli, assunse il nome di “Madonna del Galeotto”.

“La cinquecentesca edicola della Madonna del Rosario, sostituita con un calco di Madonna con Bambino del sec. XVIII, oggi vuota”..

Quale sia l’edicola in questione rimane ancora d’incerta attribuzione: secondo alcuni sarebbe quella vuota presente sotto l’arcata del ponte di Carignano, secondo altri invece sarebbe quella posta in Vico Superiore di Campopisano al n. 3.

La prima, in muratura, conteneva una statuetta cinquecentesca della Madonna del Rosario, sostituita con un calco di Madonna con Bambino del sec. XVIII. La statuetta oggi è custodita presso la vicina ex chiesa di San Salvatore.

La seconda, collocata in una nicchia semicircolare, accoglie la statua marmorea, purtroppo mutila in alcune sue parti, della Madonna con Bambino e San Giovannino.

Quale che sia la vera Madonna del Galeotto, ogni edicola ha la sua suggestiva storia da raccontare.

“Quattro amici al bar”…

Il Bombardino, una delle più diffuse bevande montanare, nacque al rifugio “Mottolino” di Livigno in provincia di Sondrio.

Fin qui nulla di strano se non fosse che ad ideare il cocktail più apprezzato in tutte le mescite dell’arco alpino sia stato un giovane genovese che, dopo aver prestato servizio presso gli alpini, prese in gestione una baita della zona.

Seduto con quattro amici al bar, in una gelida sera come tante, proprio come nella canzone di Gino Paoli, non cambiò il mondo ma inventò un miscuglio di latte, zabaione e whisky bollente con l’auspicio che riscaldasse dal rigido inverno. Il genovese ed i suoi amici fecero assaggiare la calda pozione ad un cliente che esclamò soddisfatto:” Accidenti! è una Bombarda”. Fu così che venne battezzato il nuovo preparato.

Dopo qualche tempo un lavorante del rifugio rivelò a terzi la ricetta del Bombardino contribuendo così alla sua rapida diffusione su tutte le piste da sci del circondario, fino a superare i confini regionali . Al latte venne sostituita la panna montata e al Whisky il Brandy o il Rhum.

Nacquero così le tre varianti con cui ancora oggi è possibile gustarlo:

Calimero con zabaione e caffè espresso; Pirata con zabaione e rhum, Scozzese con Zabaione e Whisky.

Esistono tuttavia delle versioni “free style” in cui i liquori vengono mischiati a piacimento purché collante comune rimanga l’uovo dello zabaione.

Anche sulla neve ci si scalda il cuore con un sorso di Genova!

“Sostiene Pereira…”

Antonio Tabucchi è stato uno dei pochi pisani apprezzati dai genovesi. Un rapporto che lo scrittore amante del Portogallo, di Pessoa e della sua cultura, ha avuto modo di consolidare quando nel 1978 venne chiamato ad insegnare nell’ateneo genovese. Genova e Lisbona due città molto simili, con parecchie cose in comune: entrambe affacciate sul mare, inebriate da aromi e profumi portuali, dove il vento regna sovrano; caruggi stretti dove luce ed ombra giocano a nascondino, strade arrampicate in salita alla ricerca di uno scorcio di cielo, di un raggio di sole, sempre appese ad un filo dell’orizzonte. Proprio in quel punto dove cielo e mare si fondono nell’infinito. Genova e Tabucchi, come Lisbona e Pessoa; l’autore di “Sostiene Pereira” ne “Il filo dell’orizzonte”, edito da Feltrinelli nel 1986, aveva così descritto la nostra città:

«Ci sono giorni in cui la bellezza gelosa di questa città sembra svelarsi: nelle giornate terse, per esempio, di vento, quando una brezza che precede il libeccio spazza le strade schioccando come una vela tesa. Allora le case e i campanili acquistano un nitore troppo reale, dai contorni troppo netti, come una fotografia contrastata, la luce e l’ombra si scontrano con prepotenza, senza coniugarsi, disegnando scacchiere nere e bianche di chiazze d’ombra e di barbagli, di vicoli e di piazzette».

“La copertina del filo dell’orizzonte”.

Storia di un cavaliere, di un santo…

… di un miracolo… di una sorgente… di chiese…

Appartenente alla nobile schiatta della famiglia alessandrina dei Canefri, il giovane Ugo s’imbarcò da Genova alla volta di Gerusalemme dove, in veste di cavaliere gerosolimitano, prese parte alla terza Crociata (1189-1192).

Di ritorno da quella formativa esperienza si arruolò nei Cavalieri di S. Giovanni, gli antesignani del Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta.

Ugo compì la sua metamorfosi, da combattente sul campo, ad infermiere nelle retrovie. Gli venne affidata la prestigiosa gestione dell’Ospitale (l’appellativo Commenda risale al XIV sec.) di San Giovanni dove, per circa 50 anni, si dedicò al soccorso e all’assistenza dei pellegrini in partenza o al rientro dalla Terrasanta.

Uomo pio e timorato di Dio, terminate le sue attività quotidiane, amava ritirarsi in solitaria preghiera in una piccola grotta lungo la collina sovrastante l’ospizio, vicino ad un torrentello che sgorgava tra Oregina e San Barnaba. Il rivo scorreva a cielo aperto e sfociava nel mare nei pressi dell’antico approdo di Capo d’Arena, intitolato poi, a Santa Limbania.

“S. Ugo, nelle vesti di cavaliere di S. Giovanni, accoglie i pellegrini”.

Numerosi i miracoli di cui è stato protagonista: aver salvato una nave da un naufragio e trasformato acqua in vino, questi ed altri prodigi, raccontati da un ciclo di piccoli affreschi dipinti sulla navata di sinistra della chiesa Inferiore, nei resti della cappella a lui intitolata.

Ma il più celebre di questi episodi fantastici è noto come “Il Miracolo di S. Ugo”:

leggenda narra che, desideroso di accontentare le lavandaie del nosocomio che per pulire i loro panni erano costrette a percorrere in salita un tragitto lungo e faticoso, fece scaturire da un masso del fossato una fresca e zampillante sorgente.

Le inservienti infatti lamentavano la scarsità d’acqua che si accumulava nel fossato solo dopo lunghi giorni di pioggia. Fu così che il Santo, dopo ripetute preghiere, fece sgorgare dal sasso una polla perenne, utile non solo alle domestiche, bensì a tutta la popolazione dei paraggi.

“Archi e colonne della chiesa Inferiore di S. Giovanni”.

Di fatto la Piazza davanti alla stazione di Porta Principe, chiamata “Acquaverde”, prende il nome dallo stagno formato da quel rivo.

 Nella seconda metà dell’800, in seguito ai lavori di costruzione ed ingrandimento dello scalo ferroviario, questi luoghi della memoria sono stati sepolti e distrutti ma la sorgente, in un primo momento scomparsa, non si è arresa all’oblio dei tempi ed ha ripreso a sgorgare rigogliosa.

La polla esiste tuttora e rifornisce la fontanella posta in Via Prè, vicino all’ingresso della chiesa Superiore di S. Giovanni e, all’interno della stazione, i bagni e le utenze della stessa.

“Interni in pietra di Promontorio della chiesa Superiore di S. Giovanni”.

La fonte, per secoli, è stata ritenuta possedere virtù taumaturgiche e i luoghi del Santo venerati e onorati dalla cittadinanza con l’erezione di una cappella a questi dedicata.

Il miracolo di S. Ugo è egregiamente rappresentato da un settecentesco quadro di Lorenzo De Ferrari custodito, sopra un altare laterale, nella chiesa Superiore di S. Giovanni. Se l’edificio Inferiore merita assolutamente menzione per la magica (cappelle di S. Brigida e S. Margherita) atmosfera in cui è avvolto, non da meno è il tempio Superiore, l’ultima splendida testimonianza di una chiesa interamente costruita in pietra nera di Promontorio, la pietra indigena proveniente dalla cava di S. Benigno, luoghi dell’anima dove, con un po’di fantasia, si possono ancora ascoltare il metallico scalpitio dei cavalieri, i lamenti dei malati, le urla di Cardinali assassinati, lo sferragliare dei Crociati, le arringhe dell’Embriaco e… le preghiere di S. Ugo.

“Fossato di S. Ugo”. Dipinto di James Holland (1799-1870).

“Genova, una città piena di sorprese”…

Fin da piccolo, essendo la madre genovese, Paul Valéry prese a frequentare Genova in ripetuti soggiorni. La dimora della zia Vittoria Cabella, sita dietro il Coro di S. Luca, divenne punto di partenza per le sue escursioni nel centro storico:« Genova è ricca di monumenti e trascorro i giorni a visitarli. La cattedrale è bella, gotico-moresca con statue del tempo antico, iscrizioni che tento di tradurre con quel poco di latino che è rimasto in me. Ho visitato molti palazzi pieni di quadri. Tra gli altri, il palazzo del celebre Andrea Doria, ammiraglio delle Galere, alleato a volte della Francia, a volte dell’Austria. Ho visto una sala del quattordicesimo secolo con vecchi quadri dell’epica. Mi sono seduto sulla poltrona dove si sono seduti prima Carlo V e in seguito Napoleone», scriveva il giovane in una lettera indirizzata ad un amico nel 1887.

“Salita S. Francesco dove, al civico n. 7, per lungo tempo il poeta fu ospite degli zii”.

In seguito alla morte del padre Valéry abbandonò presto Montpellier e nel 1892 si trasferì con la famiglia in casa degli zii genovesi che, nel frattempo, avevano traslocato nella nuova abitazione al civico n. 7 di Salita S. Francesco di Castelletto.

“Questa città, tutta visibile e presente a se stessa, rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava acuto il poeta.

“La lapide che ricorda la Nuit de Genes, affissa in Salita S. Francesco”.

Fu un periodo di forte instabilità emotiva per il giovane Paul che, nelle notti tra il 2 e il 6 di ottobre, in una città sferzata da piogge e temporali, visse un’esperienza di dolore e travaglio interiori così potenti, da fargli ritenere inutili sia la poesia che la sua stessa esistenza. Quel momento passò alla storia nei manuali di letteratura come la celebre “Nuit de Genes” in cui la tempesta metereologica trovò corrispondenza con quella interiore, a tal punto, da indurlo all’abbandono della poesia e al silenzio per i successivi vent’anni.

Nei primi giorni d’ottobre del 1895 Valéry visitò nuovamente Genova, di ritorno da un giro in altre città italiane, come Trieste, Venezia e Milano scrisse al suo amico e collega Gide: «Rimango un po’ a Genova, dopo ieri sera…».

Nel 1910, dopo 15 lunghi anni, il poeta rientrò in città per salutare la madre ospite, sempre in Castelletto, nella nuova abitazione dei Cabella, di S. Maria della Sanità e, nei suoi appunti, annotò:

“La cucina in marmo di palazzo Montanaro, casa di Valéry, oggi abitazione privata ma, grazie alla lungimiranza dei proprietari, visitabile su appuntamento. Marmi e graniglie in perfetto stile genovese”.

 «Rivedere Genova -dopo quindici anni- mi dà molte emozioni[…]Ho là molti ricordi della mia infanzia, della mia adolescenza…»… e ancora…

«Genova, città dei gatti. Angoli neri. Si assiste alla sua ininterrotta costruzione dal tredicesimo al ventesimo secolo[…] Sullo sfondo, il monte Fasce, grigiastro e rosato, colore elefante. Carruggi. Qui, moltitudini di bambini giocano attorno a povere prostitute nude, o seminude che si offrono sulla soglia dei loro bassi aperti.[…] Si va nella vita complicata di questi profondi sentieri come si entrerebbe nel mare, nel fondo vero di un oceano stranamente popolato[…] Odori concentrati, odori ghiacciati, droghe, formaggi, caffè abbrustoliti, cacao deliziosi finemente tostati[…] Cucine fragranti. Queste torte gigantesche, farine di ceci, mescolanze, sardine all’olio, uova sode imprigionate nella pasta, torte di spinaci, fritture. Questa cucina è antichissima. Genova è una cava d’ardesia».

“L’ottocentesco mobilio della cucina a ronfò, tipologia di arredo molto diffusa nelle dimore patrizie genovesi”.

Genova cessa di rappresentare per Valéry il ricordo disincantato della gioventù e diviene il “luogo dell’anima”.

 Nell’aprile del 1924, tornando da Roma, dopo aver incontrato Mussolini per un colloquio sulla situazione intellettuale in Europa, fece una breve sosta a Genova: «…Contento ed emozionato di ritrovare la mia città Genova. Tutto mi parla qui. Io la preferisco a tutte le Rome».

“Paul Valéry, scrittore, poeta, filosofo”.

Ormai illuminato accademico di fama internazionale Valéry tornerà altre volte in città, l’ultima delle quali, nel 1933 ospite dell’Università in Via Balbi dove, come un cattedratico qualunque, terrà la sua “lectio magistralis” senza minimamente fare cenno al suo legame con la Superba.

Valéry, in verità, non ha dimenticato e ci ha lasciato in eredità una delle più appassionate, a mio parere, descrizioni della città:

“Ha una distesa di cupole, di monti calvi,di mare,

di fiumi, di neri fogliami, di tetti rosa.

E quella Lanterna così alta ed elegante,

 

e meandri popolosi, labirinti affollati,

 

le cui viuzze salgono, scendono, si intersecano improvvisamente,

 

sbucano sulla veduta del porto.

 

Genova, una città piena di sorprese.

 

Di porte scolpite in marmo, ardesia, casse, formaggi, scale,

 

biancheria al posto del cielo, cancellate,

 

bizzarro dialetto dal suono nasale e irritante,

dalle abbreviazioni strane, vocaboli arabi o turchi.

Mentre Firenze si contempla

e Roma si sogna

e Venezia si lascia vedere.

Genova si fa e rifà”.

 

Storia di una Santa… di una profezia…

Nel 1346 Brigida la santa svedese, sulla via verso Roma dove avrebbe chiesto al Papa l’approvazione per il suo neonato ordine religioso, sostò a Genova Quarto per una settimana. Un giorno si fece accompagnare dalla parte opposta del golfo, nel ponente cittadino, per fare una passeggiata con la figlia  ed ammirare la Dominante dall’alto.

“Santa Brigida”

Fu così che, giunta sul colle del Peralto, in località Mura delle Chiappe, espresse la nefasta profezia: “Un giorno il viandante che passerà dall’alto dei colli che recingono Genova, accennando con la mano i lontani cumuli di detriti, dirà: laggiù fu Genova ”.

 

Probabilmente i genovesi non gli dovevano essere risultati troppo simpatici forse perché la Santa aveva già intravisto in loro quel carattere superbo e altezzoso che, 12 anni più tardi, nel 1358 Petrarca avrebbe scolpito nell’eternità: “Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per genti e per mura, il cui aspetto la indica signora del mare”. Non tutti sanno però che la celebre descrizione del poeta toscano proseguiva con un monito, non molto diverso nella sostanza dalla profezia della Santa “… la stessa potenza, come è già accaduto a molte città, le nuoce e le reca danno, perché offre materia alle contese e alle gelosie cittadine…” 

D’altra parte il conterraneo Sommo Dante nel canto XXIII dell’Inferno, nei versi 151-153, aveva sentenziato:
“Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogni magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?”.

Dante, Santa Brigida, Petrarca, se tre indizi costituiscono una prova, la conferma è sugellata da un’altra predizione, parte di una raccolta di scritture notarili quattrocentesche, custodita presso l’archivio vescovile di Piacenza, opera di un anonimo scrittore:

“Tra Capo di Faro ed Albaro si erge una CIVITAS OPULENTISSIMA, che sarà distrutta dal drago, allora si dirà HIC FUIT IANUA SUPERBA”.

Il drago faceva riferimento al simbolo cittadino rappresentato sul sigillo e sulle monete della città insieme al Grifo. Forse l’anonimo non ricordava che S. Giorgio il drago lo aveva ucciso e che, il Grifone a Genova, simboleggiava la riconquistata libertà.

“Nostra Signora Assunta di Carbonara”. Foto di Leti Gagge.

Nel 1695 la Madonna in persona, dal 1637 Regina di Genova, avrebbe indicato in sogno a Padre Carlo Giacinto, il punto esatto dove erigere un Santuario a lei dedicato, non molto lontano da dove, oltre tre secoli prima, Santa Brigida aveva emesso il suo infausto vaticinio. Il nuovo tempio avrebbe dovuto essere rivolto a nord, cioè a monte, anziché a sud, verso il mare in modo da non essere testimone di quanto profetizzato. Nonostante gli altri numerosi preesistenti santuari: il Gazzo, la Vittoria, Madonna del Monte e Guardia, Nostra Signora Assunta di Carbonara, questo è il nome completo della Madonnetta, divenne l’unico luogo di culto ufficialmente riconosciuto dalla Repubblica.

“Salita di Santa Brigida, in cima alla scalinata l’archivolto, un tempo portone della chiesa, con la statua della santa”.

Dopo la profezia di Santa Brigida e dopo l’erezione del santuario, Genova ha comunque dovuto subire ed affrontare numerose distruzioni e sventure, in particolare il Sacco di spagnoli e lanzichenecchi nel 1522, il bombardamento del re Sole nel 1684, l’occupazione austriaca riscattata dal Balilla nel 1746, il cannoneggiamento inglese del 1800, il massacro del La Marmora nel 1849, i bombardamenti alleati della Seconda Guerra Mondiale e le rappresaglie tedesche nel periodo antecedente la Liberazione Genova. Con buona pace della santa svedese, dei due poeti toscani, e dell’anonimo piacentino, si è sempre rialzata.

“I trogoli di S. Brigida”. Foto di Leti Gagge.

Ma la Superba non ha portato rancore visto che la descrizione del Petrarca è tuttora la più celebre ed apprezzata e alla santa svedese oltre ai trogoli e una strada, sono stati intitolate una chiesa e due conventi nella zona compresa tra Via Prè e Via Balbi.

“La lapide, posta in Salita S. Brigida, in memoria delle vittime della vile imboscata”.

L’8 giugno del 1976 ahimè, proprio sotto l’arco sottostante la statua della santa, in Salita S. Brigida, il procuratore generale di Genova Francesco Coco e due agenti della sua scorta furono barbaramente trucidati da un commando armato delle Brigate Rosse.

Genova non dimentica…

“Alla Liguria”…

Sulle tue montagne, nella ruota

di giovinezza, ho costruito una strada,

in alto fra i castagni;

gli sterratori sollevavano macigni

e stanavano vipere a grappoli.

Era l’estate degli usignoli

Meridiani delle terre bianche,

della foce del fiume Roja.

Scrivevo versi della più oscura

Materia delle cose,

volendo mutare la distruzione,

cercando amore e saggezza

nella solitudine delle tue foglie sole,

e franava la montagna e l’estate.

Anche lungo il mare

Avara in Liguria è la terra,

come misurato è il gesto

di chi nasce sulle pietre

delle sue rive. Ma se Il Ligure

alza una mano,

la muove in segno di giustizia.

Carico della pazienza

di tutto il tempo della sua tristezza.

E sempre il navigatore

spinge lontano il mare

dalle sue case per crescere la terra

al suo passo di figlio delle acque.

“Salvatore Quasimodo”.

 Il poeta siciliano futuro premio Nobel per la letteratura nel 1959 s’innamorò perdutamente della Liguria nel 1930 quando, trasferito al Genio civile di Imperia prima e di Genova poi, ebbe modo di conoscere e frequentare Camillo Sbarbaro ed Eugenio Montale, collaborando alla rivista letteraria “Circoli”.

Tre artisti, di cui due premi Nobel e uno Sbarbaro certo non da meno che, da questa terra incrociandosi, trassero feconda ispirazione per influenzare la poesia mondiale del ‘900.

“Corniglia, aggrappata alla roccia, sospesa fra cielo e mare”.

Quasimodo nella sua ultima raccolta ““Dare e avere” 1960 – ‘65” consegna ai posteri una meravigliosa poesia dedicata alla “Liguria”.

In questo componimento il poeta riesce a rievocare l’asprezza della montagna, il sibilo delle vipere, il canto degli usignoli, lo scrosciare delle acque del Roja e, in un continuo crescendo emotivo, l’eterna lotta fra il mare e la terra.

Ma il verso che da sempre mi ha colpito è quel “Ma se il Ligure alza una mano, la muove in segno di giustizia”… e allora sfilano nella mia mente tutte quelle popolazioni liguri che si opposero fieramente all’occupazione della Roma imperiale; i marinai che, sprezzanti del pericolo, difesero le nostre coste dai Turchi e dai Saraceni; i genovesi tutti che, coraggiosi e indomiti, nel 1684 non si piegarono alla boria del Re Sole; il Balilla e la sua audace ribellione contro gli austriaci; i Capitani De Stefanis e Pareto e la loro disperata difesa contro i bersaglieri del La Marmora; Genova intera che nel 1800, oltre ogni umana aspettativa, resistette all’assedio austro piemontese e inglese; i camalli che nel 1924 protestarono contro l’omicidio Matteotti e impedirono alle Camicie Nere l’accesso al porto; i Partigiani che tra l’8 settembre 1943 e l’aprile 1945 contribuirono alla liberazione della Superba, unica caso in Europa nell’era moderna, dai Tedeschi prima dell’ingresso degli alleati; i lavoratori che scioperarono nel giugno 1960 contro la scellerata idea di convocare il congresso nazionale del rinato Partito Fascista in città, contribuendo alla caduta del governo Tambroni.

L’avara Liguria è la mia terra!

Foto di copertina spiaggia di Porto Pidocchio a Framura.