Benedetto l’eroe della Meloria… (terza parte)…

Benedetto salpò da Genova il 10 giugno 1288 con le due sole navi avute in dote dalla Repubblica e, sapendo che si sarebbe dovuto confrontare con forze ben maggiori, si diresse subito alla volta di Focea dove ingaggiò altre due navi e in otto giorni allestì la sua nave preferita, la “Divizia”.

Davanti al porto di Tripoli, oltre alla flotta della principessa Lucia che rivendicava per ragioni ereditarie il possesso della città, si schierarono la galea del gran maestro dei Templari, una di quello degli Ospitalieri, una del  siniscalco del Regno gerosolimitano e un’armata comune allestita da pisani e veneziani.

Il genovese non si scompose, entrò nel porto a gonfie vele pronto a sfidare chiunque e il giorno dopo intimò la resa al contingente nemico che, seppur superiore di numero, non osò opporre resistenza ben conoscendo la forza dello Zaccaria.

“Il glorioso gonfalone di S. Giorgio”

Nel nome di S. Giorgio stipulò trattati commerciali privilegiati e accordi vantaggiosi con i rappresentanti della città e ne sottopose la giurisdizione alla Repubblica.

Genova però, non accolse il dono con piacere perché sapeva, come temuto, che ciò gli avrebbe cagionato danni nei rapporti con l’Egitto; quindi non solo non nominò il podestà ma nemmeno inviò soccorso al suo ammiraglio, intendendo così  dimostrare la propria estraneità ai fatti. 

Zaccaria coinvolse il re del vicino stato confinante di Cipro (interessato a mantenere la zona nell’area d’influenza cristiana) sancendo un accordo sia economico che militare in base al quale la Repubblica si impegnava a fornire una flotta di presidio. Analogo patto mercantile stipulò anche con il monarca d’Armenia.

Il Senato genovese si rifiutò di ratificare tale accordo preferendo scontentare il sovrano di Cipro che non il sultano del Cairo.

Nel frattempo l’Egitto aveva mosso le sue soverchianti forze contro la città ed una coalizione di ciprioti, veneziani e cristiani in genere aveva provato a resistere. Preso atto della disperata situazione i veneti abbandonarono la lotta e Benedetto, temendo che costoro gli portassero via le galee, li seguì a ruota non prima di aver imbarcato più uomini, donne e bambini possibile.

"Mappa di Tripoli".
“Mappa di Tripoli”.

I musulmani presero la città, la razziarono, la rasero al suolo e uccisero tutta la popolazione maschile. Donne e bambini furono ridotti in schiavitù. Benedetto sbarcò a Cipro i superstiti di Tripoli e ribussò vanamente alle porte dei regni cristiani d’Oriente per riprendersi il maltolto. Un aiuto insperato gli giunse solo dalla colonia genovese di Caffa che inviò tre galee. Ben poca cosa per affrontare la potenza egiziana ma, forte del rinforzo ottenuto, per pura rivalsa, attaccò un legno recante le insegne del sultano.

Merci e prigionieri furono condotti a Genova e consegnati come trofeo di guerra. Genova sprofondò nel terrore, come giustificare al principe orientale tale oltraggio? Un’ambasceria guidata da Alberto Spinola fu inviata ad Alessandria per restituire merci e uomini con tanto di umilianti scuse. Fu giurato che nulla mancava al carico e che il danno sarebbe stato risarcito. Il sultano, soddisfatto, rinnovò le convenzioni commerciali e diplomatiche con la Superba.

A partire da quest’episodio in poi  Benedetto non godette più della stima di prima da parte dei suoi concittadini ma, per riconoscenza e rispetto dell’impresa della Meloria, nessuno osò proporre l’onta dell’esilio.

Ripulito il Mediterraneo dai pirati, il Bosforo dai corsari, sconfitta Pisa e preso atto che la sua città non poteva o non voleva veramente opporsi all’avanzata saracena dell’Egitto (suo antagonista nel commercio dell’allume) rivolse la sua attenzione alla Spagna dove era stato chiamato per combattere altri saraceni, i temibili marocchini. Costoro infestavano lo stretto di Gibilterra danneggiando i traffici della Castiglia e foraggiando le truppe  moresche per la conquista dell’Europa.

"Lo Stretto di Gibilterra".
“Lo Stretto di Gibilterra”.

Entrò in carica nel 1291 con una formazione di dodici galee con l’obiettivo di contrastare la pericolosa flotta africana. Compito non facile visto che nel 1285 cento navi spagnole si erano ritirate di fronte alle trentasei dell’emiro.

Accortosi che il naviglio nemico era molto più agile e maneggevole del suo e che per questo riusciva a sfuggirgli, apportò una storica modifica, l’introduzione del “terzarolo” cioè del terzo rematore (da qui anche il verbo “interzare dei veneziani”). Questo accorgimento  avrebbe compensato la carenza di agilità con una maggiore potenza dinamica.

"La galea con il terzarolo".
“La galea con il terzarolo”.

Benedetto, forte di questa innovazione tattica, fece quello che nessun ammiraglio castigliano fino ad allora aveva anche solo provato ad immaginare: il giorno di S. Sisto, il 6 agosto 1291, sette anni esatti dopo la Meloria, con le sue 12 galee si parò davanti alle 28 saracene remando con la solita andatura in modo da non insospettire i nemici.

"Balestriere genovese con la sua manesca".
“Balestriere genovese con la sua manesca”.

Quando le vele marocchine furono a tiro di balestra Benedetto diede ordine di attaccarsi ai remi e, prima che potessero raggiungere la riva africana e sfuggirgli, le raggiunse e ne catturò 12 davanti ad un incredulo e impotente emiro che, da terra, assistette alla disfatta. Gli equipaggi delle rimanenti 16, una volta sbarcati, furono massacrati dai loro stessi compagni in quanto colpevoli dell’umiliazione patita. Le 12 imbarcazioni catturate invece, attraverso il Guadalquivir, furono portate fino a Siviglia come bottino e donate al re Sancio IV di Castiglia. Fu la leggendaria battaglia di Marzamosa che fruttò al genovese la massima delle onorificenze, il titolo di “almirante mayor de la Mar”, alloro conquistato ai danni dei catalani che si tramandavano il titolo da generazioni.

Il sovrano comprese che la sua scelta era contraria al tentativo di forgiare e premiare una stirpe ispanica comune quindi diede l’appalto ai catalani per costruire nuove navi e acquistò quattro delle sette galee del genovese. Inoltre nominò “adelantado mayor de la frontera” un suo fedele connazionale, il comandante Mahte de Luna. Questi prese gradualmente il comando sia delle operazioni terrestri che di quelle marittime di fatto sminuendo il ruolo del genovese. Benedetto non poté, lui figlio di una città in cui la carica di ammiraglio era di gran lunga superiore a quella di qualsiasi comandante terrestre, fare altro che rinunciare all’incarico. Il comandante Mahte de Luna non riuscendo a convincere Benedetto a sottostare alle sue dipendenze lo denunciò come traditore e si impossessò delle quattro navi con i relativi equipaggi.

"Stemma della Castiglia e Leon".
“Stemma della Castiglia e Leon”.

Le imbarcazioni furono sequestrate ma i marinai si rifiutarono di obbedire, pronti alla morte, agli ordini degli spagnoli. “Prendiamo ordini solo da Benedetto Zaccaria, il vero e unico almirante mayor” dissero i capitani. Per intervento reale Benedetto e i suoi equipaggi furono rilasciati.

Gli spagnoli continueranno la loro guerra contro i Mori senza particolari successi fino a quando un altro genovese Egidio Boccanegra nel 1334 si impossesserà della roccaforte di Algesiras.

Benedetto Zaccaria intanto proseguirà la sua avventura in Francia al servizio di Filippo il Bello per conto del quale sfiderà, prima di far vela nell’olimpo dei signori del mare, i popoli del Nord….

In copertina: galea medievale.

Continua…

Benedetto l’eroe della Meloria… (seconda parte)…

Nel 1282 era scoppiata la guerra che si trascinò per due anni con esito incerto; la vittoria arrideva ora ai genovesi, ora ai pisani. Questi ultimi sembravano in vantaggio, ormai padroni della Sardegna e, a differenza dei liguri lacerati da lotte intestine, uniti e per questo vicini al successo.

Il 5 aprile del 1284 Benedetto Zaccaria issa lo stendardo di S. Giorgio e salpa al comando di 30 galee in assetto da guerra. Il 9 aprile si presenta davanti a Porto pisano provocando i nemici. Inizia a presidiare tutti i collegamenti con Corsica e Sardegna; nel giro di due mesi i convogli mercantili genovesi riprendono a navigare sicuri, mentre quelli pisani non osano uscire dal porto. Il genovese impone ai toscani il blocco commerciale con le isole e con le colonie del Levante e taglia loro i rifornimenti marittimi. I pisani allora tentano di far circolare le proprie merci su imbarcazioni appartenenti a nazioni neutrali come Amalfi, Barcellona e Venezia. Benedetto non chiede di meglio, esperto com’è nella guerra di corsa, in due mesi cattura numerosi vascelli, si impossessa di merci ed equipaggi, rendendo vano anche questo tentativo dei rivali.

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“Alcuni pezzi delle catene di Porto Pisano, restituite dai genovesi nel 1860, oggi custodite nel cimitero monumentale di Pisa”.

Costoro, esasperati, proclamano podestà il veneziano Morosini, nella speranza che ciò serva a guadagnarsi il supporto dei veneti. Venezia invece, fedele ai patti, rimane neutrale e le due repubbliche tirreniche devono sbrigarsela da sole. I toscani giocano il tutto per tutto allestendo una poderosa armata di 65 galee e 11 galeoni, stabiliscono di uscire dal porto di sorpresa e di sterminare la flotta di Benedetto che, nel frattempo, dalla Corsica si preparava ad assediare Sassari in Sardegna. Avvertito del pericolo fa vela verso Genova mentre il Morosini contando di tagliargli la via per il ponente, lo attende vanamente al largo di Albenga. Zaccaria rientra invece per la riviera di levante.

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“La battaglia della Meloria”.

Il 31 luglio i pisani si schierano davanti alla Superba dove ad aspettarli, pronte allo scontro, ci sono 58 galee al comando del capitano del popolo Oberto D’Oria. La sera stessa da Portofino giungono anche le navi dello Zaccaria, sfuggite all’imboscata dei nemici.

Ai pisani,  presi in mezzo dalle due flotte, non resta altra scelta che la ritirata verso i propri lidi. La sera del 5 agosto le due flotte genovesi raggiungono i pisani nella loro baia ma Benedetto ha una geniale intuizione, ammaina le vele, nasconde  gli stendardi e si mantiene a debita distanza, sparpagliando la flotta qua e là confondendola fra le imbarcazioni di supporto.

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“La consegna del pallio d’oro alla chiesa di S. Sisto”.

La mattina del 6 agosto, giorno di S. Sisto, i pisani credendosi più numerosi e incoraggiati della stanchezza dei rivali provati per l’inseguimento, attaccano battaglia. Quando lo scontro sembrava volgere a favore dei pisani, Benedetto entra in scena puntando direttamente la capitana del Morosini, strappandole lo stendardo. Catturata la nave ammiraglia dei pisani, accerchia i nemici facendone scempio: 7 galee affondate, 33 catturate, alcune migliaia i prigionieri (fra cui Rustichello autore sotto dettatura di Marco Polo del “Milione”), lo stendardo, il sigillo del podestà, il gonfalone del comune, lo strepitoso bottino.

Il 6 agosto 1284 Genova pone fine alle ambizioni marittime dei rivali. Benedetto a ringraziamento per l’epica vittoria dona, acclamato dalla folla festante, un prezioso pallio d’oro alla chiesa di S. Sisto di Via Prè.

L’anno seguente i Padri del Comune progettano di dare il colpo di grazia definitivo ai rivali inviando Oberto Spinola dal mare e sollevando loro contro fiorentini e lucchesi, secolari nemici, da terra. Il tentativo, per ragioni politiche, fallisce miseramente.

I pisani cercano di risollevare la testa imbastendo una guerra di corsa e piccola pirateria obbligando i genovesi a mantenere un manipolo di navi a presidio delle proprie rotte. Benedetto è ancora una volta il prescelto per il comando.

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“Antica cartina del Porto Pisano, raffigurante le quattro celebri torri”.

L’ammiraglio avrebbe voluto mettere in piedi però una risoluzione definitiva “Pisa delenda est” ma la Repubblica, comunque provata dalla lunga guerra, si accontenta della semplice supremazia.

Zaccaria è insoddisfatto, inoltre dai suoi feudi in oriente giungono notizie poco rassicuranti. E’ tempo di tornare a Bisanzio e riprendere in mano gli affari di famiglia, i commerci e le sue molteplici attività.

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“Il Faro e la Torre della Meloria”.

Prima però di congedarsi nel 1287 compie con 6 navi quello che tre anni prima non riuscirono a fare in 65: a bordo della sola “Divizia” viola il porto militare facendosi largo fra le torri di difesa, mentre un suo sottoposto (capitano Nicolino da Petraccio), al timone delle altre 5, entra nel bacino mercantile spezzandone le catene. Catene che furono, fino al 1860, appese alla chiesa di San Lorenzo. Benedetto rimase gravemente ferito durante l’eroico assalto ma in seguito alla sua coraggiosa impresa, impauriti, i pisani siglarono la pace. I patti furono talmente duri per i toscani che questi, non rispettandoli, videro nel 1290  il loro approdo definitivamente distrutto ed interrato ad opera di Corrado D’Oria. Alla stessa maniera le catene conquistate nel 1290 furono esposte sulle principali porte e chiese della Superba

Come a suo tempo auspicato da Benedetto “Pisa delenda est”.

Zaccaria, ristabilitosi dalle ferite e rientrato dall’oriente dove in pochi mesi aveva sistemato le sue faccende private, viene richiamato a Genova.

I successi dello Zaccaria gli procurarono molti onori ma anche parecchie invidie. Le gesta dell’ammiraglio rimbalzavano dal Tirreno a Costantinopoli, così i padri del comune, colsero l’occasione della richiesta di aiuto proveniente da Tripoli, per allontanarlo dal Tirreno dove la sua fama ormai precedeva le sue galee. La colonia del regno latino versava in grave difficoltà oggetto delle mire di varie nazioni; la Repubblica lo nominò Vicario del Comune in Oltremare, affidandogli però due sole galee. La missione era ambigua e rischiosa perché avrebbe potuto risultare invisa agli interessi “in loco” sia dei veneziani che degli egiziani.

in questo modo sia che il suo mandato fosse fallito o riuscito, sarebbe stato facile dimostrare, a seconda dell’occorrenza, l’estraneità della Repubblica e riversare tutta la responsabilità sull’ammiraglio, come se avesse agito per interessi personali e privati, senza compromettere quindi le relazioni diplomatiche del Comune.

Ma Benedetto troppo avvezzo agli intrighi di corte era uomo dalle mille risorse…

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“Alcuni anelli delle catene di Porto Pisano esposti sotto le arcate del palazzo del mare, meglio noto come S. Giorgio”.

In copertina: La Battaglia della Meloria. Illustrazione tratta dalle trecentesche Croniche del lucchese Giovanni Sercambi.

Continua…

Benedetto l’eroe della Meloria…

Il mondo intero onora Cristoforo Colombo l’esploratore delle Americhe, molti conoscono Andrea Doria il difensore della cristianità, alcuni ricordano Guglielmo Embriaco il conquistatore di Gerusalemme.

Quasi nessuno, sa di Benedetto Zaccaria, l’eroe della Meloria, eppure questo straordinario personaggio poliedrico merita di essere posto sullo stesso piano dei suoi illustri concittadini; politico, diplomatico, mercante, ammiraglio. Il suo campo d’azione è sbalorditivo da Genova, all’Impero Bizantino, dalla Francia al nord Europa, dalla Castiglia a Tripoli dove, deluso per non essere riuscito a ripristinare l’antica roccaforte genovese, per rappresaglia, sfida e umilia le navi saracene. Al comando della flotta castigliana sconfigge l’invitto stuolo del Marocco, di quella francese devasta la terra di Albione, sotto l’insegna di S. Giorgio distrugge i legni pisani alla Meloria e, sprezzante del pericolo, entra da solo in Portopisano violando lo scalo nemico. Al servizio dei re francesi, 500 anni prima di Napoleone, organizza il blocco continentale ai danni degli inglesi.

Eppure l’esordio non fu dei più promettenti infatti, il giovane Zaccaria, rampollo di una nobile famiglia possidente nella zona De Castro (S. Maria di Castello) nel 1259 ricevette il suo primo incarico dalla Repubblica: la difesa del porto di Tiro in Libano dalle mire nemiche. Fu così che i veneziani si presentarono forti di 24 galee mentre i genovesi ne contavano solo 20, di cui 10 al comando di Benedetto e 10 di un altro ammiraglio: Zaccaria uscì dal porto e affrontò i veneti, mentre il collega, inspiegabilmente rinunciò allo scontro. Catturato dai nemici, impressionati per il coraggio dimostrato, venne incarcerato per mesi e rilasciato solo in cambio della promessa che mai più avrebbe osato affrontare le insegne di S. Marco. Sarà questa l’unica sconfitta della sua gloriosa carriera. Il genovese rimarrà a cercar fortuna in oriente dove, al servizio dell’imperatore di Bisanzio, avrà modo di perfezionare e dimostrare la sua arte marinara.

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“Il porto di Focea”.

Le coste vengono ripulite da pirati, corsari, saraceni e da chiunque osi ostacolare i commerci. Con i proventi dei suoi traffici allestisce una flotta in grado sia di trasportare merci che di dar battaglia. La sua galea, la “Divizia” armata come una corazzata, rinforzata nei fianchi, potenziata nelle vele, diviene il terrore del Bosforo. L’imperatore, riconoscente, gli concede in feudo il porto di Focea. Divenuto consigliere e ambasciatore per conto di Bisanzio amplia la produzione e il commercio dell’allume di rocca, prezioso minerale presente sul suo territorio. Questo prodotto serviva ai conciatori di cuoio, a pittori e mosaicisti, ai farmacisti che lo usavano come emostatico ma, soprattutto ai tintori che, come prescritto in appositi statuti lo utilizzavano per fissare e rendere più brillanti i colori sui tessuti (possedeva egli stesso una rinomata tintoria lungo il Bisagno). Il pregiato composto proveniva anche dall’Italia, dal nord Africa, dall’Egitto e dall’Asia Minore ma Benedetto acquistò gran parte delle miniere concorrenti, esercitando un vero e proprio monopolio che ne fece uno degli uomini più ricchi del suo tempo. Ma non era questo il solo commercio in cui il genovese primeggiava: le sue navi caricavano grano e cereali in Ucraina e Bulgaria, sete e pellami in Oriente, vendeva armi, in particolare spade e coltelli, in Corsica acquistava il sale per rivenderlo nel Levante ed essendo questo monopolio di Genova, seppe lucrarvi sopra con delle vere e proprie speculazioni finanziarie. L’unica mercanzia, in quel tempo molto in voga, della quale non v’è invece traccia, è la tratta degli schiavi.

"Allume di rocca".
“Allume di rocca”.

Acquistò un fondaco privato a Caffa, stipulò accordi privilegiati con l’Armenia, Cipro, la Siria, instaurò contatti e avamposti sul Mare di Azov, operò ad Alessandria d’Egitto. Le sue imbarcazioni frequentavano Maiorca, Almeria, Siviglia, Cadice e Ceuta in Spagna, Marsiglia ed Aigues Mortes in Francia, Bruges nelle Fiandre, ovunque ci fosse un lembo di mare c’era una galea del genovese.

Passano gli anni, ormai la fama di Benedetto Zaccaria, non ha più confini. Dopo 25 anni è tempo di ritornare, Genova, nel momento del bisogno, per la resa dei conti con Pisa, l’eterna rivale, si affida al suo più illustre ammiraglio…

continua….

Genova la conosci…

“Genova la conosci: è imponente, solida, quasi altera, pulita, benestante; notevolissima è la diffusione della lingua tedesca negli alberghi e nei negozi… vi sono più insegne tedesche a Genova che a Trieste o Praga…

Alla fine della settimana ritornerò, avendo consumato buona parte dei miei onorari editoriali, presto vedrò l’ultimo olivo, l’ultima magnolia e così via…”.

In questa lettera ad un amico, datata 17 settembre 1905, il padre della psicanalisi Sigmund Freud esternava il desiderio di rientrare nella sua dimora di Rapallo.

La città di marmo…

“In nessuna parte d’Italia, né del mondo, si è usata tanto, sino all’abuso, questa pietra (il marmo), preziosa e carissima in altri paesi, ma qui trattata col disprezzo dell’abbondanza fino al punto di servire molte volte per acciottolare le strade (…)

A notte inoltrata, quando l’illuminazione pubblica incomincia a venir meno, queste strade strette, con le loro pareti di marmo che sembrano risalire fino alle stelle che occhieggiano, ricordano al passante le sconvolte gallerie di una cava nella quale il piccone ha tracciato capricciosamente profili e rilievi: alla luce del sole queste ferite sono prodigi d’arte. Le antiche glorie della Repubblica genovese, la potenza che le dettero i suoi marinai e commercianti si rivela in questi grandi palazzi che erano abitati dai patrizi liguri, quelle famiglie che, con intrighi e cospirazioni, si disputavano le cariche di doge o di capitano della Repubblica…. Quarantasette palazzi, tutti splendidi nel loro interno, e tutti di marmo dalle fondamenta all’ultima balaustra, si contano nelle quattro vie che costituiscono la spina dorsale della città.”

Così annotava nel 1896 il celebre scrittore spagnolo  Vincente Blasco Ibanez, autore di “Sangue e arena” e dei “Quattro cavalieri dell’Apocalisse”, nei suoi appunti di viaggio durante il suo soggiorno genovese.

Breve storia dei rapporti fra Genova e la Sardegna….

La storia della Sardegna affonda le proprie radici in tempi antichissimi, quando ancor prima dell’avvento dei Greci, era nota con il nome di Ichnusa. A me però interessa narrare delle sue vicende a partire dall’epoca medievale quando nel 534  l’isola fu conquistata dal generale bizantino Belisario.

Già dall’VIII sec. i coraggiosi guerrieri dell’impero d’Oriente, nonostante la strenua difesa, non poterono impedirne l’occupazione da parte araba. Soltanto nel 1022 grazie all’aiuto di genovesi e pisani i sardi riuscirono finalmente a liberare la loro terra costringendo gli invasori alla ritirata. Fu così che nel 1175 le due potenti repubbliche si spartirono l’isola: Genova a nord e Pisa a sud.

Per la Superba, se da un lato la Corsica rappresentava un imprescindibile baluardo difensivo, dall’altro la Sardegna significava un territorio da sfruttare. Quest’ultima infatti  era fonte di lana, formaggi, sale, grano, ferro e pellame tutti prodotti molto appetibili per gli interessi mercantili dei genovesi. Pisa e Genova non erano le sole a nutrire ambizioni sull’isola infatti, nel 1073 papa Gregorio ne rivendicò la sovranità, unitamente a quelle di Corsica, Spagna e Ungheria minacciando nel 1080 i sardi che, se non si fossero sottomessi alla sua volontà, sarebbero stati ceduti ad una di queste potenze straniere.

Nel XII sec. genovesi e pisani ottennero dalle rispettive Chiese (le arcidiocesi delle due Repubbliche erano potentissime), a parziale indennizzo dell’attività prestata durante le Crociate, importanti tenute agricole e corposi privilegi fiscali quali l’esenzione daziaria.

 A quest’epoca risale la ripartizione della Sardegna in quattro giudicati  (unità amministrative completamente autonome): Torres o Logudoro, Gallura, Cagliari e Arborea. I genovesi si insediarono a Cagliari e poi a Torres mentre i Pisani occuparono il Logudoro e la Gallura.  

"S. Giorgio e i quattro mori, la bandiera della Sardegna".
“S. Giorgio e i quattro mori, la bandiera della Sardegna”.

 

A metà del ‘200 anche l’imperatore Federico Barbarossa decise di intromettersi nella questione cercando, a seconda degli alleati del momento, di infeudare il Regno di Sardegna prima a Guelfo VI di Toscana, poi a Barisone d’Arborea e infine al comune di Pisa. Naturalmente i Genovesi non la presero bene e, una volta tramontata la stella degli Hohenstaufen, se ne rimpadronirono sconfiggendo alla Meloria nel 1284 l’eterna rivale.

Nel 1297 papa Bonifacio VIII pose fine alle diatribe attribuendo la sovranità della Sardegna all’Aragona. Le grandi famiglie genovesi, fra le quali gli Spinola e i Doria ne presero atto “obtorto collo” ma per conservare le loro signorie, misero in atto una intelligente strategia; prima che gli spagnoli si impossessassero realmente dell’isola nel 1325, organizzarono numerosi matrimoni misti con la nobiltà locale, tramandandosi così il titolo di Giudice nei vari territori e mantenendo così una certa autonomia.

La famiglia che ne trasse i maggiori vantaggi fu quella dei Doria che a partire da Andrea (solo un antenato omonimo del celebre ammiraglio) fu sempre presente nell’amministrazione dell’isola. All’inizio del XIV sec. addirittura Branca Doria, quel personaggio a cui si deve la celebre invettiva di Dante, prima provò ad ottenerne l’investitura da parte della Santa Sede, poi di farsi nominare re nel 1311 dall’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo.

"Castello Doria a Chiarimonti".
“Castello Doria a Chiaramonti”.

 

Oggetto delle questioni politiche erano il controllo delle saline di cui la Repubblica di Genova deteneva il monopolio e il possesso delle miniere di piombo argentifero di Villa Chiesa.

Nonostante la Sardegna sia rimasta nell’orbita spagnola fino al trattato di Utrecht del 1713, quando venne ceduta all’Austria, i Genovesi seppero tutelare con astuzia i propri interessi. Nel 1720 dopo tre anni di guerre la Quadruplice Alleanza (Francia, Inghilterra, Impero, Olanda) siglò la pace di L’Aia. In ottemperanza di questo trattato Filippo re di Spagna rinunciò alle sue pretese isolane in cambio della promessa austriaca della successione a Parma, Piacenza e Toscana del figlio Carlo. In questo contesto Vittorio Amedeo II di Savoia ricevette dall’Austria la Sardegna in cambio della Sicilia e ottenne di commutare il titolo di re di Sicilia che già deteneva, in quello di re di Sardegna. Con l’avvento dei Savoia Genova gradualmente andò a perdere i privilegi consolidati da secoli fino, con l’ignomignoso trattato di Versailles del 1814, a diventare essa stessa, acquistata dagli inglesi, parte del Regno di  Piemonte e Sardegna.

Storia di un baldacchino…

…. di un trono… di giochi di potere… di un Arcivescovo e di un Doge…
La nomina di Stefano Durazzo ad Arcivescovo di Genova nel 1635 da parte della Santa Sede fu causa di attrito con le autorità civili della Repubblica.
Questi infatti, per circa due anni non mise piede in città delegando la carica ad un suo fidato Vicario.

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“Il Cardinale Stefano Durazzo Arcivescovo di Genova nel 1638… quadro del Carbone esposto a Palazzo Bianco”.

Il Cardinale, una volta decisosi ad impossessarsi della sua cattedra, pretese di entrare in San Lorenzo in baldacchino e di essere chiamato con il titolo di “Eminenza”.
Il Senato rigettò tale richiesta e questi, per tutta risposta, si rifiutò di incoronare quello che avrebbe dovuto essere il primo Doge con tutte le attribuzioni regali, Agostino Pallavicino. Il novello Doge venne così incoronato, fatto inaudito, dall’Abate di Santa Caterina, nell’omonima chiesa e non in Cattedrale, dall’Arcivescovo.
Non contento l’alto prelato respinse anche la richiesta del Senato di erigere, in posizione rialzata rispetto a quella vescovile, un baldacchino da collocarsi, all’interno di San Lorenzo, al posto della cattedra episcopale.
Genova, infatti, da circa un anno aveva eletto a pro

"Ritratto del Doge Agostino Pallavicino del 1638".
“Ritratto del Doge Agostino Pallavicino del 1638”.

pria Regina, la Madonna e riteneva queste iniziative necessarie per ottenere riconoscimenti formali, in merito al nuovo titolo regale, da parte delle altre potenze europee.
La misura era colma… ormai lo scontro fra l’autorità ecclesiastica e quella civile rischiava di portare ad un incidente diplomatico con il Vaticano.
Fu così che, nel 1640, Papa Urbano VIII richiamò a Roma il Cardinale per destinarlo come legato pontificio a Bologna.

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“La cappella del Doge a palazzo Ducale”.

Otto anni più tardi nel 1648, Durazzo rientrato a Genova fu, a causa di un’altra diatriba, di nuovo oggetto di domanda di espulsione da parte del Senato.
Questa volta però il Papa Innocenzo X non accolse la richiesta e il Cardinale regnò per altri sedici anni, governando con pugno energico e fermo, la Curia genovese.
Alla sua morte, avvenuta nel 1667, la Repubblica, soprannominandolo “il Borromeo genovese”, nonostante i frequenti attriti, intese riconoscerne le indiscusse doti e qualità… doti e capacità che, oltre ad Agostino Pallavicino, almeno una dozzina di Dogi ebbe modo di testare sulla propria pelle durante i suoi, seppur framezzati, ventinove anni di potere (dal 1635 al 1664).

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“La sala del maggior consiglio dove avveniva l’elezione del Doge”.

 

Storia di Mediterraneo e della Signora del Mare…

Al tempo in cui il cielo si specchiava tutto il giorno nel mare e l’acqua e la terra si contendevano lo spazio, gli otto venti di Mediterraneo giocavano a rincorrersi, scherzavano con le onde, gareggiavano con i gabbiani e, come discoli troppo vivaci, non davano mai tregua.

Un giorno Mediterraneo, stanco dei loro capricci, andò lontano in cerca di quiete e trovò riparo in un golfo sconosciuto dove, come una perla incastonata nella roccia, sorgeva la bella Genova.

Non appena l’onda spumeggiò lungo il Mandraccio, sotto il colle di Sarzano, rimase ammirato dallo spettacolo che gli si parò davanti: mura maestose aggrappate ad imponenti montagne, campanili e torri che si arrampicavano gli uni alle altre, caruggi stretti e misteriosi e poi un porto brulicante di navi e di marinai affaccendati, colori nitidi e profumi inebrianti, persino il sole sbirciava curioso.

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“I colori del tramonto di riflettono nel Porto Antico”.

Mediterraneo non si era ancora ripreso dall’emozione quando giunsero i venti che lo avevano, dopo averlo cercato dappertutto, finalmente scovato. Anche gli otto fratelli, per un attimo, rimasero sbalorditi e si placarono, la bellezza di Genova, li aveva ammutoliti.

Ma subito Tramontana salì sulle montagne, prese la rincorsa, e si tuffò in mare schizzando Mezzogiorno che, alterato si scatenò da sud in una lotta veemente con il fratello. Accorsero Ponente e Levante per dividerli ma vennero allontanati, ciascuno verso la Riviera che da loro prende il nome. Anche Libeccio e Scirocco, dal caldo temperamento, iniziarono a soffiare forte contrastati dai freddi Maestrale e Grecale, nel frattempo, giunti da nord.

Eolo stesso non avrebbe saputo come fare per ripristinare l’ordine!

 Così Il mare, preoccupato che le bufere, scuotessero la sua bella Genova la avvolse in un tenero e protettivo abbraccio. Da allora i due innamorati non si sono più separati, dal loro amore è nato Ligure e i venti, placati, si sono spartiti le stagioni.

Ancora oggi, ogni sera, Genova arrossisce all’appassionato tramonto che Mediterraneo inscena per la sua sposa, la signora del mare.

In copertina: tramonto sul Porto di Genova. Foto di Stefano Eloggi.

 

La Congiura dei Fieschi… seconda parte…

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“Ritratto di Giannettino Doria di F. Salviati, conservato nel Palazzo del Principe”.

La notte fra il 2 e il 3 gennaio dal palazzo di Via Lata, terminata la cena, Gian Luigi Fieschi si diresse con circa trecento uomini in arme verso la Porta dell’Arco affidandola in custodia al fratello Cornelio, comandò a Gerolamo e ad Ottobono di occupare Porta di S. Tommaso (il varco di accesso alla Darsena dove erano ancorate le galee dell’ammiraglio), superò Porta di S. Andrea proseguì lungo S. Donato e S. Bernardo fino a giungere in porto dove l’esercito si divise, una parte pronto a liberare i turchi, l’altra a occupare le galee. Allo sparo stabilito di un cannone i congiurati avrebbero dovuto impossessarsi delle porte sopra citate e complici gli schiavi musulmani liberati in Darsena, catturare le galee dei Doria.

A Tommaso Assereto era stato affidato il compito di conquistare Porta di S. Tommaso cosa che gli riuscì grazie al tradimento di un tal Borgognino guardia repubblicana ma anche vassallo dei Fieschi che facilitò  quindi l’ingresso dei ribelli. Questi al comando di un manipolo di archibugieri fatti arrivare su piccole imbarcazioni dal mare e con l’aiuto del Verrina salito su una galea pontificia ingaggiava battaglia con le guardie dell’Arsenale. Intanto da terra l’Assereto veniva raggiunto dal Fieschi e le navi dei Doria furono conquistate. Gian Luigi a bordo della sua galea chiudeva l’ingresso della Darsena ma, quando le cose avevano preso ormai la piega sperata, nello spostarsi dalla “Capitana” alla “Padrona” due dei legni del Principe, cadde in acqua imprigionato nella sua pesante armatura, morendo affogato senza che nessuno, nel trambusto, se ne accorgesse.

Nel frattempo Giannettino, insospettito dai clamori e dagli spari provenienti dal porto, temendo una rivolta degli schiavi musulmani in Darsena, si era diretto verso la Porta di S. Tommaso dove trovò la morte ferito prima da uno sparo di archibugio di un miliziano, trafitto poi dalla spada di Ottaviano Fieschi.

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“La congiura del Fiesco a Genova di Friedrich Schiller”.

Nonostante l’omicidio del Doria, la presa delle principali porte, la cattura delle galee e la messa in libertà dei turchi, la notizia della morte di Gian Luigi si sparse rapidamente e affievolì lo slancio dei ribelli, rendendo vani i tentativi di Gerolamo di spronare gli insorti.

Approfittando della confusione circa trecento musulmani si impossessarono della galea “Temperanza” e in fretta e furia presero il largo. I ribelli timorosi si rifugiarono nelle proprie case, lasciando i Fieschi isolati di fronte al loro misfatto. Gerolamo rientrato in Via Lata fu subito invitato dal Senato a lasciare, in cambio dell’indulto, la città e raggiunse il suo castello di Montoggio.

Verrina, Sacchi, Calcagno e Ottobono fecero vela sopra una nave pontificia verso Marsiglia, cercando protezione presso i francesi.

Andrea Doria intanto, insieme ai suoi familiari e ai suoi pretoriani, si era rifugiato presso il castello Spinola di Masone. Appreso del fallimentare esito della “rassa” (congiura in genovese) l’indomani, nel pomeriggio del 3 gennaio, rientrò e riprese il comando della città.

La congiura avvenuta a Genova ebbe grande risonanza presso tutte le corti europee, divenendo fonte di ispirazione nel corso dei secoli successivi per scrittori, poeti e musicisti.

hitler e i fieschi
“Hitler”.

Grande successo riscosse ad esempio nel ‘700 “La congiura del Fiesco a Genova” di Friedrich Schiller e perfino Hitler ne rimase influenzato come testimoniato da alcuni brani del suo “Mein Kampf”.

Addolorato per la perdita dell’erede designato, Andrea Doria mise in atto un’atroce ed implacabile vendetta….

continua…

In Copertina: stampa raffigurante la caduta in mare di Gianluigi Fieschi.

La Congiura dei Fieschi… prima parte…

Correva l’anno 1547 e da tempo ormai Andrea Doria aveva legato le sorti di Genova alle fortune spagnole, scatenando il malcontento sia dei francesi (che lo consideravano un traditore) che dello Stato Pontificio (alleato dei transalpini). In città infatti la fazione della nobiltà nuova, volta ad una politica più mercantile e vicina alla Francia, rimproverava a quella vecchia, filo spagnola capitanata dai Doria, l’immobilismo finanziario.

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“Andrea Doria ritratto di Sebastiano del Piombo, presso il Palazzo del Principe”.

Iniziò così a formarsi, promossa dai nobili come i Fieschi, messi in secondo piano dallo strapotere dei Doria, una corrente di pensiero che avrebbe voluto sovvertire l’ordine costituito.

A queste ragioni di carattere politico generale secondo alcuni si aggiunsero motivazioni personali quali l’odio maturato da Gianluigi Fieschi nei confronti dei Doria rei, a suo dire, di essere venuti meno ai patti contratti con il padre Sinibaldo e di essersi arricchiti alle sue spalle. Per altri invece il vero movente sarebbe stato di natura amorosa scatenato da una presunta tresca tra la moglie di Gianluigi, Eleonora Cybo e Giannettino Doria.

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“Alessandro Farnese, Papa con il nome di Paolo III, padre di Pierluigi. Ritratto di Tiziano”..

Fu così che il Conte di Lavagna, ottenuta l’approvazione francese, chiese l’appoggio anche del Duca di Piacenza Pierluigi Farnese figlio di papa Paolo III.

Il Pontefice combattuto fra le richieste dell’erede e i rapporti amichevoli di vecchia data con l’ammiraglio preferì invece mantenere una posizione neutrale limitandosi a fornire, per non scontentarlo, quattro galee al Fieschi.

Il piano era quello di uccidere i Doria e di impossessarsi della città restituendole, a detta loro, la libertà. Fra i congiurati parteciparono i fratelli del Conte, Cornelio, Ottobono e Gerolamo, numerosi fuoriusciti, Tommaso Assereto, Raffaele Sacco (giureconsulto dei Conti di Lavagna), il nobile lombardo Vincenzo Calcagno e Giambattista Verrina (l’unico non nobile fra i congiurati di rilievo).

Il 2 gennaio Gian Luigi introdusse in città la sua milizia acquartierandola in parte in una delle galee pontificie ancorate in Darsena, in parte nel suo palazzo di Via Lata. Fece entrare la soldataglia alla spicciolata da una delle porte della città travestita, per non dare nell’occhio, in abiti campagnoli. Sapendo del ricevimento in programma quella sera presso il lussuoso palazzo di Via Lata, per cui sarebbero necessitate abbondanti libagioni e numeroso personale, nessuno si sarebbe insospettito.

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“Ritratto del Conte Gianluigi Fieschi”.

Il Conte, dal canto suo, non mentiva perché la cena ci fu davvero, un convivio al quale aveva invitato molti nobili e aspiranti tali con l’intento di aggregarli alla rivolta. Il consenso fu unanime a parte due dei partecipanti che vennero imprigionati per non rischiare che diffondessero la notizia.

Notizia che, “come dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca”, in verità da giorni si era sparsa nelle corti europee fino a giungere, avvertito dal Gonzaga governatore di Milano, all’orecchio di un preoccupato Carlo V.

L’imperatore aveva, tramite il suo ambasciatore Figueroa, subito avvertito il Principe ma questi, di solito attento e pronto a soffocare ogni dissenso, per paura di eccessive intromissioni spagnole, aveva minimizzato il pericolo. Andrea non credeva infatti che Gianluigi, figlio di Sinibaldo suo antico amico ed alleato, potesse ordire tale tradimento.

Dal canto suo il Fieschi nel pomeriggio aveva diabolicamente recitato la sua parte, facendo visita ai Doria nella loro dimora di Fassolo dove, alla presenza di un rasserenato Figueroa, aveva addirittura giocato con i figli di Giannettino….

continua…