Da Piazza del Carmine si snoda la tortuosa salita di Carbonara che segue il percorso dell’omonimo sottostante rio, un tempo fonte inesauribile di acque per gli orti e le fasce vicine.
La caratteristica principale della salita è la presenza di case con brani di muri in pietra a vista e, soprattutto, dallo scenografico susseguirsi di archetti intonacati.
Nei pressi di Piazza di Pellicceria si incontra il vico della Tartaruga.
Il caruggio fa parte di quella seria di vicoli senza intestazione che, con la riforma toponomastica del 1868, si decise di intitolare a nomi di animali. Fatto questo che mi ha sempre lasciato perplesso.
Con tanti personaggi infatti che hanno nobilitato nel corso dei secoli la storia, in particolare marittima, cittadina (penso ad esempio Benedetto Zaccaria e Lanzarotto di Malocello che sono ricordati solo a Pegli e i Pessagno a Sestri Ponente) non mi capacito come i funzionari preposti abbiano invece partorito, in ossequio alla moda del momento, una scelta così banale.
In Copertina: Vico della Tartaruga. Foto di Giovanni Cogorno.
Nel porticciolo di Boccadasse è diventato ormai una vera e propria attrazione turistica.
Chi si ferma per una carezza, chi per una foto o un selfie, chi per dargli qualcosa da mangiare (anche se su richiesta dei padroni meglio evitare), tutti comunque cercano Seppia:
il gatto assurto, per la sua ingrugnita e infastidita espressione, a ironico simbolo dell’accoglienza ligure.
Machiavelli
Curiosa anche la sua singolare somiglianza con Machiavelli il gatto scontroso e sospettoso del celebre film del regista genovese Enrico Casanova del 2021 della Pixar -Luca- ambientato nel levante della nostra regione.
Così a Boccadasse alla romantica gatta con “una macchia nera sul muso” di Gino Paoli si è aggiunto il burbero gatto disneyano.
Fin dal Medioevo l’ultimo piano della torre del Palazzo Ducale -O Päxo per i Genovesi- ospitava una cella campanaria.
Diverse campane si sono susseguite nei secoli fino al 1941, quando durante la seconda guerra mondiale, quella presente venne fusa per realizzare dei cannoni.
La campana più duratura di cui si ha notizia durò quasi 300 anni avendo con il suo suono -si dice- udibile fino a Savona, celebrato la vittoria della Lega Santa sugli Ottomani nella battaglia di Lepanto nel 1571.
Nel 1860 in concomitanza di un altro festeggiamento, quello dell’annessione della Toscana e dell’Emilia (a quel tempo Genova apparteneva ai Savoia), il campanone si ruppe.
Stessa sorte ebbe il sostituto che svolse diligentemente il proprio compito fino al 1925 quando anch’esso venne rimpiazzato:
“Calato dalla torre il 3 maggio 1925 per la sua rifusione, il nuovo campanone fu reinstallato il 15 aprile del 1926, con un’imponente cerimonia alla quale partecipò tutta Genova; poi, la domenica del 26 aprile, fece finalmente sentire la sua voce, salutato dal coro festoso di tutte le campane della città“. Testo de A Compagna.
Una voce che inizialmente fu oggetto di numerose lamentele da parte dei genovesi i quali sostenevano avesse un suono sordo e comunque non come quello di una volta.
Costretto così, a rispondere alle critiche, fu il Sig. Boero fonditore, discendente di una dinastia di costruttori di campane che aveva bottega in salita di Mascherona.
L’artigiano, portando ad esempio la campana grossa di San Lorenzo (fusa dal padre) che presentava la stessa distonia e della quale erano ora tutti soddisfatti, spiegava che per ottenere l’armonico effetto sonoro auspicato, il campanone avrebbe dovuto risuonare per un po’ di tempo.
“Purtroppo causa la guerra, nell’aprile del 1941 venne demolito e donato alla Patria, perché con il suo bronzo si fondano nuovi cannoni per la nuova vittoria“. Testo de A Compagna.
O Campanon de Paxo. Cartolina celebrativa de “A Compagna” distribuita in occasione dell’evento.
Grazie all’impegno dell’Associazione “A Compagna”, dal cui sito riporto il verbale dell’evento, nel 1980 O Campanon ha ripreso, come nei secoli precedenti, a scandire i principali avvenimenti cittadini.
“Molti gli anni di silenzio assoluto sulla torre, fin quando – in occasione del Parlamento del 1979 – ai soci viene comunicato che «semmo in graddo de fâ tornâ in sciä Töre de Päxo o Campanon: unna grande azienda zeneize a l’à zà offerto unna grande quantitae de metallo (rammo, bronzo e latton), mentre o Scindico o l’à daeto a sò adexòn». Il 24 aprile 1980, il nuovo campanone ritorna a suonare per tutti i genovesi. “
La cerimonia è ricordata in una lapide sottostante la Torre in cui si legge:
“Genova celebra oggi 24 aprile 1980 o Campanon de Päxo ripristinato nell’antica sede auspice A Compagna generosamente partecipi il Comune e i Cittadini.”
La lapide sottostante la Torre. Foto di Leti Gagge.
“Era la mattina del 26 aprile 1980 ed era stata appena scoperta in Via Tomaso Reggio la lapide commemorativa; l’allora sede de A COMPAGNA, la Loggia degli Abati del Popolo, rigurgitava di invitati, di autorità, di soci: a un certo momento il console Augusto Cavassa si è rivolto al Sindaco di Genova, Fulvio Cerofolini, dicendogli in genovese: «Scio Scindico, oua ch’emmo faeto trenta, scia dovieiva fa trent’un e completâ l’opera, faxendo issâ a bandëa de Zena in scia Töre». I presenti hanno assentito caldeggiando la proposta e il Sindaco, dopo essersi guardato intorno, quasi a voler chiedere conferma della sincerità e della profondità del nostro desiderio, ha detto semplicemente che sì, che la nostra richiesta era giusta e che avrebbe subito dato disposizioni affinché la bandiera fosse issata sulla Torre di Palazzo Ducale (la Grimaldina). E così, dai primi giorni del mese di maggio di quel lontano 1980, tutti i genovesi possono vedere garrire al vento il vessillo rosso-crociato della Repubblica di San Giorgio“.
Il «Campanon de Päxo», voluto dai Soci, che hanno partecipato con una generosa sottoscrizione, è stato fuso ad Avegno dalla Ditta Enrico Picasso e reca sul bordo il verso di speranza di Edoardo Firpo: «Pe questa taera antica sempre ritorna un mäveggioso giorno».
I testi in corsivo sono estrapolati dal sito Ufficiale de “A Compagna”: www.acompagna.org.
Qui esisteva la chiesa fondata nel 1405 intitolata al santo a cui è intestata la via.
Salita San Gerolamo. Foto di Leti Gagge.
Nella parte inferiore caratterizzata dalla classica mattonata tipica delle creuze genovesi si può ammirare il ponte canale dell’acquedotto medievale che si dirigeva verso il Castelletto.
Brani originali del Castelletto inglobati nei palazzi.
Nel cuore di Ravecca si trova la salita della Coccagna.
Sull’origine del toponimo sono state formulate diverse ipotesi:
secondo alcuni deriverebbe dal nome dell’omonima famiglia che aveva possedimenti in zona; secondo altri dalla tradizione di innalzare alberi della cuccagna durante le feste popolari.
Molto più probabilmente invece la genesi del caruggio sarebbe riconducibile alla voce dialettale cocagna che indica la sommità di un colle.
In effetti Salita della Coccagna rappresenta proprio il punto più in alto del tratto di mura del Barbarossa, detto delle murette, che degrada fino a via Ravasco.
Meritevoli di citazione nel vicolo sono un pregevole Medaglione con Madonna col Bambino, all’angolo con Passo delle Murette una settecentesca edicola sempre di Madonna con Bambino in sconcertante abbandono e, poco più avanti, resti di truogoli in pietra addossati al camminamento di ronda delle mura.
In Copertina: Salita della Coccagna. Foto di Stefano Eloggi.
All’inizio di via Buozzi direzione ponente (un tempo via Milano), lasciato sulla sinistra il Palazzo del Principe, si trova l’elegante palazzina di tre piani denominata confidenzialnente dai genovesi “La casa del marinaio”.
In realtà la corretta traduzione del nome SAILORS’ REST” inciso nel fregio marmoreo delle facciate laterali è “Il riposo dei marinai”. L’edificio fu costruito nel 1891 dall’architetto scozzese David Barclay Niven (1864-1942) su incarico della British Shipowners Association per la Genoa Harbour Mission ed era destinata all’assistenza religiosa, culturale e pratica agli equipaggi di religione protestante delle navi britanniche, nordiche e scandinave che numerose facevano scalo nel porto di Genova.
Via Milano, oggi Via Buozzi. Il primo edificio sulla sedia è il Sailors’ Rest.
La struttura fu inaugurata nel gennaio dell’anno successivo sotto la supervisione del Reverendo Donald Miller, della chiesa libera di Scozia, con lo scopo di offrire ai naviganti britannici un ritrovo che facesse ricordare la loro madre patria.
Il Reverendo era convinto infatti che i marinai di Sua Maestà frequentando questo angolo di Albione, lontani da bettole, luoghi di perdizione, donne di malaffare e potenziali disdicevoli risse, avrebbero evitato i pericoli delle tentazioni.
L’edificio del Sailor’s Rest lato via Lattanzi. Foto dell’autore.
Il Sailor’s Rest era infatti dotato di camere in cui riposare, sale ricreative dove praticare le attività in stile pub (carte, biliardo, freccette) e bere (con moderazione), e soprattutto, come ricordato sulla scritta del prospetto principale, “SAILOR CHAPEL AND READING ROOM“, una cappella e una sala di lettura.
Oggi la palazzina, recentemente restaurata, è occupata da una farmacia, da una sezione di un sindacato e uno studio medico.
There once was a ship that put to sea The name of the ship was the Billy of Tea The winds blew up, her bow dipped down O blow, my bully boys, blow (huh)
She had not been two weeks from shore When down on her a right whale bore The captain called all hands and swore He’d take that whale in tow (huh)
Soon may the Wellerman come To bring us sugar and tea and rum (hey) One day, when the tonguin’ is done We’ll take our leave and go
Take our leave and go
Before the boat had hit the water The whale’s tail came up and caught her All hands to the side harpooned and fought her When she dived down below (huh)
She had not been two weeks from shore When down on her a right whale bore The captain called all hands and swore He’d take that whale in tow (huh)
Soon may the Wellerman come To bring us sugar and tea and rum (hey) One day, when the tonguin’ is done We’ll take our leave and go
Take our leave and go
C’era una volta una nave che salpò Il nome della nave era Billy of Tea I venti si alzarono, la sua prua si abbassò “Sta soffiando, ragazzacci miei, sta soffiando” (eh)
Lontana due settimane dalla costa Le si avvicinò una balena nera Il capitano chiamò tutto l’equipaggio a lavoro giurando che Avrebbe preso quella balena (eh)
“Presto arriverà il Wellerman (nave che riforniva di provviste) Per portarci zucchero, tè e rum (ehi) Un giorno, quando smetteremo di tagliare strisce di grasso (di balena) Ci congederemo e torneremo
Prima che la barca toccasse l’acqua La coda della balena si alzò e la presero Tutto l’equipaggio l’arpionò, lottando contro di lei Fino a quando lei si reimmerse (eh)
Lontana due settimane dalla costa Le si avvicinò una balena nera Il capitano chiamò tutto l’equipaggio a lavoro giurando che Avrebbe preso quella balena (eh)
Presto arriverà il Wellerman Per portarci zucchero, tè e rum (ehi) Un giorno, quando smetteremo di tagliare strisce di grasso di balena Ci congederemo e torneremo
Ci congederemo e torneremo e torneremo.
Testo e traduzione del riadattamento del seashanty canto popolare di mare inglese di metà ‘800 “Soon May the wallerman” che racconta della caccia alle balene in Nuova Zelanda
Il 20 settembre 1958 l’entrata in vigore della Legge Merlin che chiude le case di tolleranza, sancisce la fine di un’epoca.
A Genova se ne contavano ben 22 e due strutture, la fondazione di Santa Caterina da Genova e l’Istituto delle figlie dell’Addolorata si attivano per ospitare e confortare le prostitute rimaste senza lavoro.
“Salivano voci e voci canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro dell’ombra ardente, al colle, al colle. A l’ombra dei lampioni verdi di bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mescolava e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni…
… Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso appoggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiedessero su di una duplice ombra”…
“… A te aggrappata d’intorno/ La febbre de la vita / pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto/ Instornellato de le prostitute / E dal fondi il vento del mar senza posa”.
Così scriveva nei suoi Canti Orfici (1914), Dino Campana (1885-1932).
Caruggi e bagasce. Foto di Gigi Tagliapietra.
Emozioni riprese anche da Camillo Sbarbaro (1888-1967) che racconta le sue sensazioni all’uscita di un bordello:
“Esco dalla lussuria/ M’incammino/ pei lastrici sonori nella notte./ Non ho rimorso e turbamento. Sono/ Solo tranquillo immensamente./ Pure qualche cosa è cambiato in me, qualcosa fuori di me/ Che la città mi pare/ sia fatta immensamente vasta e vuota,/ una città di pietra che nessuno/ abiti, dove la Necessità/ sola conduca i carri e suoni l’ore…”.
Lirica tratta dalla raccolta Pianissimo del 1914.
Caproni (1912-1990) invece è meno intimista e, in merito alla lussuriosa vocazione genovese, va dritto al punto:
“Genova che non mi lascia/ Mia fidanzata bagascia. [..] Genova di mio fratello/ Cattedrale. Bordello./ Genova di violino/ di topo di casino./ […] Genova di Sottoripa/ Emporio. Sesso. Stipa./ Genova di Porta Soprana. /d’angelo e di puttana./ […] Fenova di Raibetta/ Di Gatta Mora. Infetta”.
Versi liberamente tratti da Litania (1956) di G. Caproni.
Sempre Caproni nel 1967 traduce invece i versi di un poeta francese André Frenaud (1943-1982) che nella sua “Il silenzio di Genova” scrive:
“[…] e ancora in giro per gli angusti carrugi, /le prostitute poliglotte le belle poppe/ che sanno la lingua d’ognuno./ tutta la gente che inganna la vita nei quartieri bassi,/ quella che sfida, quella che tace ugualmente ostinata,/ i palazzi con gli alti portoni chiusi, le alberature,/ le gru stagliate, se si sale si vedono,/ e, più in alto, il mare”.
Fonti: Canti Orfici, Dino Campana, Milano 1989; Poesie, Giorgio Caproni, Milano 1976; Poesia e Prosa, Camillo Sbarbaro, Milano 1979.
In Copertina: l’inequivocabile batacchio del portone del civ. n. 5 Palazzo Ivrea noto anche come Squarciafico di Piazza Invrea. Un tempo ospitava un lussuoso bordello, oggi un facoltoso studio notarile.
Nel 1893 via Palestro era una signorile strada costruita poco più di una decina di anni prima nel cuore del nuovo centro finanziario cittadino.
La sera di Giovedì 7 settembre il portone del civ. n.10 era aperto per il continuo passaggio di eleganti signori. Una tipica tiepida sera di fine estate, rinfrescata da una leggera brezza marina.
Alla spicciolata arrivarono: Charles De Grave Sells, S. Green, G. Blake, W. Riley, D.G Fawcus, Sandys, E. De Thierry, Johnathan Summerhill, senior e junior, e soprattutto Charles Alfred Payton, console generale di Sua Maestà la Regina a Genova e futuro baronetto dell’impero britannico.
Si accomodarono sfilati mantelli, soprabiti e tube all’interno n. 4, sede del consolato britannico a Genova.
Dall’ora insolita si capiva che non si trattava di una riunione di lavoro, bensì dell’ufficializzazione – nero su bianco – del circolo sportivo che da quasi 2 anni operava nella Superba al fine di svagare i sudditi britannici.
Nasceva così in un ambiente pregno di tabacco avvolto in un’atmosfera satura del fumo delle pipe, tra un bicchiere di scotch e un sorso di Gin, il Genoa Cricket and Athletic Club.
Sopra un semplice quaderno contabile rilegato in tela e cartone una chiara e lineare calligrafia certificava l’accaduto:
‘The club was formed 7th September 1893. Patron il console di Sua Maestà Britannica Charles Alfred Payton; President: Charles De Grave Sells. Vice president: Johnathan Summerhill senior”.
Seguono lo honorary secretary and treasurer Sandys, e il Committee and Management; poi la list of Members che comprende 30 iscritti tutti anglosassoni. Versano una quota associativa di 10 lire ciascuno.
Pochi giorni dopo spedirono un assegno da 28 sterline a Londra con il quale acquistarono gli attrezzi per il cricket (cricket things).
Tutto ciò è giunto a noi grazie a Gianni Brera, appassionato giornalista di football e tifoso del Genoa. Il prezioso documento, il più antico attestato di una fondazione di una squadra di calcio in Italia, dopo essere stato rinvenuto nella biblioteca dello scrittore, è custodito oggi dalla Fondazione Genoa presso l’omonimo museo nel Porto Antico.
Il campo da gioco del cricket era situato a Bolzaneto e George Dorner Fawcus era il capitano sia del Cricket che dei footballers.
Tutti i membri ricevettero dalla società il rules, (copia del regolamento) e l’autorizzazione a contattare i comandanti delle navi britanniche in porto onde organizzare partite con gli equipaggi.
I primi incontri annotati avvenero proprio nel settembre 1893 contro i marinai del Hydaspes e del Cathay. Vennero fatte cucire delle reti dietro alle porte di cricket (purchase string to make cricket net with) per recuperare la palla cosa che nel football in Italia avverrà solo nel 1904.
Testimonianze tuttora visibili della numerosa comunità britannica e di quegli anni pioneristici in città sono la palazzina del marinaio, il Sailor’s Rest fondato per togliere dalle osterie e dai luoghi di perdizione i marinai inglesi e la neogotica chiesa anglicana nella vicina Piazza Marsala n. 3.
La svolta sarà 3 anni dopo quando al club si iscriverà un medico assunto per curare i marinai inglesi sulle carboniere. Il suo nome è Spensley, James Richardson Spensley.
La prima formazione del Genoa campione d’Italia: Baird, De Galleani, Ghigliotti, Pasteur, Spensley, Ghiglione, Le Pelley, Bertollo, Dapples, Bocciardo, Leaver. Genoa-International di Torino 2-1 . Reti Spensley (G), Bosio (I), Leaver dts.
Il Dottore era un poliedrico personaggio dai molteplici interessi: parlava correntemente tre lingue, conosceva sanscrito e greco antico, studiava le religioni orientali, scriveva per il Daily Mail, seguiva il pugilato, spendeva parte del suo tempo e dei suoi introiti per il sostentamento dei trovatelli.
Nel 1910 avrebbe fondato presso la Basilica delle Vigne la prima sezione scoutistica italiana. Oltre a ciò era anche arbitro, portiere e, all’occorrenza, giocatore di movimento.
Lo scatto più celebre di James Spensley che lo ritrae fra i pali.
Così nel 1897 iniziò ad organizzare il Club di football sul modello di quelli della sua madrepatria. Intensificò l’arruolamento di equipaggi e persino di operai delle Ferriere Bruzzo per giocare più partite possibile.
I primi incontri si disputarono a Sampierdarena, sulla piazza d’armi del Campasso (adiacente odierna via Walter Fillak), sui terreni di proprietà di due industriali scozzesi: John Wilson e Alexander McLaren. Si giocava, all’uso inglese, il sabato e il punto di ritrovo era la locale trattoria Gina.
Nell’assemblea del 10 aprile di quell’anno Spensley riuscì a far passare la sua mozione per l’ingresso nel club di soci italiani. Inizialmente l’allargamento fu stabilito in massimo 50 membri ma visto l’inaspettato successo fu presto reso illimitato.
Il campo del Campasso era ormai insufficiente per le esigenze della squadra e il Genoa si trasferì, lungo le rive del torrente Bisagno, nel nuovo campo di Ponte Carrega all’interno degli spazi utilizzati dalla Società Ginnastica Cristoforo Colombo, come pista velocipedistica.
Ricostruzione del campo di Ponte Carrega presso il Museo del Genoa.
Mel 1907 ancora un trasloco, stavolta presso il campo di S. Gottardo nell’omonima frazione sempre lungo il Bisagno, la cui struttura, destinata poi dal Comune all’impianto di un gasometro, si rivelerà presto di capienza inadeguata per ospitare i numerosi tifosi del Grifone.
Poi, finalmente nel 1911, grazie all’intervento del Marchese Emanuele Piantelli socio del Club, il Genoa avrà la sua casa definitiva nel campo “O Campo do Zena” di via del Piano, nel quartiere di Marassi, dal 1933 intitolato al capitano eroe di guerra Luigi Ferraris.
Curiosa anche l’evoluzione dei colori delle maglie: l’abbigliamento originario era derivato dal gioco del cricket e comprendeva, come testimoniato dalla foto del primo campionato vinto nel 1898, una camicia bianca, i pantaloni al ginocchio neri e calze nere. Già a partire dall’anno successivo, la squadra cambierà maglia, indossandone una a righe verticali bianche e blu. Sarà solo tre anni più tardi che il Genoa adotterà la tradizionale maglia a quarti rossoblù, con il rossogranata a sinistra e il blu scuro a destra. La scelta dei colori fu presa in seguito ad una proposta di tre soci del club, i genovesi Paolo Rossi e Giovanni Bocciardo, e lo svizzero Edoardo Pasteur dopo la morte della Regina Vittoria avvenuta nel 1901.
“Quando il Genoa già praticava il football gli altri si accorgevano di avere i piedi quando gli dolevano”.
Nei pressi di Via delle Grazie si trova piazzetta Barisone sui cui palazzi sono ancora presenti arcate in cornici di pietra, archetti e tracce residue di una loggia del XIII secolo.
L’origine del toponimo rimanda alla schiatta dei Barisone il cui capostipite, secondo alcuni storici, sarebbe appunto un tal Barisone di Arborea un Principe Sardo, che tolse la Sardegna ai Saraceni.
Barisone sostenuto poi dai Genovesi, nel 1164 fu incoronato da Federico I (Barbarossa) a Pavia Re di Sardegna previo il versamento di quattromila marchi anticipati dai genovesi che in quell’occasione avevano anche ottenuto favorevoli clausole commerciali ai danni dei rivali pisani.
In realtà non regnò mai sull’isola perché non riuscì a garantire, complice anche il voltafaccia del Barbarossa a vantaggio dei pisani, né le vantaggiose condizioni promesse, né a restituire l’ingente prestito ai genovesi.
Fu imprigionato a Genova per otto lunghi anni prima che i suoi concittadini riuscissero a saldare l’oneroso debito nel frattempo aggravato da cospicui interessi.
Quando finalmente gli fu permesso di rimpatriare non riuscì più a ristabilire la precedente situazione di potere perché Pisa e Genova avevano trovato nuovi accordi sulla ripartizione dei Giudicati dell’isola.
Altri storici ritengono invece questa solo una suggestiva tesi che non proverebbe la paternità del cognome.
Di Barisone, Barisione, Barigione infatti già in quel secolo nei documenti antichi genovesi se ne trovano parecchi: soprattutto avvocati, notai e uomini di legge che si tramandavano la professione di padre in figlio, ma si distinsero anche in ambito religioso come prelati di spicco.
Anche sul significato etimologico del nome non vi è accordo; secondo alcuni è una derivazione dall’ ebraico Bar=figlio e Sion=Gerusalemme e, dunque di origine ebraica; per altri invece dal sassone Bar=Orso e Son=Figlio e perciò Figlio dell’ Orso, di matrice nordica.
In Copertina: Piazzetta Barisone. Foto di Stefano Eloggi.