Via di Scurreria (la nuova).

La via di Scurreria venne aperta nel XVI sec. per volontà di Gio. Giacomo Imperiale per dare un accesso più consono al suo sontuoso palazzo di Campetto.

La zona infatti anticamente nota con il nome di contrada scutaria (odierna Scurreria la Vecchia) perché sede delle officine degli scudai, era un dedalo intricato di stretti caruggi. In un secondo momento nel quartiere si aggiunsero anche le botteghe dei “Toscani”, come erano comunemente indicati i setaioli.

L’inizio della via, dove oggi si trova la farmacia del Duomo, costituiva infatti la piazzetta dei Toscani. Durante alcuni lavori di ripristino della sede stradale avvenuti nel 1843 vennero rinvenute in questo tratto di strada tombe, urne cinerarie in terracotta di epoca preromana e monete romane.

La famiglia Imperiale, molto ricca ed influente anche in oriente, possedeva, come testimoniato dalle iscrizioni sparse qua e la, quasi tutti i palazzi della strada.

All’angolo infatti fra Scurreria e Campetto una lapide certifica i lavori di ampliamento della via:

Io. Iacobvs Imperialis Vincentii . / Pvblico Privatoq. Comodo ac Vrbis Decori / Prospiciens Qvam Plvrimis Domibvs Coe(mp)tis, / et Dirvtis. Viam Hanc, Cvi Ab Avctoris / Familia Nomen Inditvm, Aere Svo / Faccendam Ornandam Sternendamq. / Cvravit. An. Sai. MDXIIIC.

In Copertina: Via di Scurreria con sullo sfondo Palazzo Imperiale. Foto di Stefano Eloggi.

Piazzetta del Ninfeo

Situata alle spalle di via Ravecca si trova la Piazzetta del Ninfeo alla quale si accede da una scalinata che si arrampica nel palazzo all’altezza del mercato di Piazza Sarzano.

L’origine del toponimo non è legata ad alcuna artistica fontana o scultura, bensì omaggia il fecondo accordo avvenuto nel 1261 nella residenza imperiale del Ninfeo (località dell’ odierna Turchia nei pressi di Smirne).

Secondo tale patto il capitano del popolo Guglielmo Boccanegra stipulava alleanza con l’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo.

In virtù – appunto – del Trattato del Ninfeo Genova, nella guerra contro gli imperatori latini, si impegnava ad appoggiare con una potente flotta il monarca bizantino.

Di contro quest’ultimo garantiva in cambio l’allontanamento delle potenze concorrenti (pisani a parte) e privilegi commerciali tali da consentire ai Genovesi il controllo marittimo (a danno dei Veneziani) degli accessi al Mar Nero.

Il campanile di S. Agostino visto dalla scaletta di accesso alla piazzetta. Foto di Stefano Eloggi.

Tale piazzetta è frutto dell’opera di recupero della zona pesantemente devastata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale effettuata l’ultimo decennio del secolo scorso.

Gli architetti hanno cercato, seppur rinnovando e reinventando lo spazio, di mantenere la storicità del luogo. Le case infatti decorate nei tradizionali colori pastello sono di dimensioni tutto sommato rispettose del contesto.

La piazzetta ha conservato la sua vitalità, oltre infatti ad ospitare alcune associazioni, spesso è presidiata da bambini che giocano al pallone o che scorrazzano con le biciclette.

Da qui si possono ammirare brani (in direzione della Salita della Fava Greca) originali delle Mura del Barbarossa, la cupola di Santa Maria Assunta di Carignano e il campanile di S. Agostino.

In Copertina: Piazzetta del Ninfeo. Foto di Rossano Garibotti.

I Segreti di Via Fontane

In una mattina tersa, di quelle che tingono Genova di una luce dorata, Via delle Fontane si svelava in tutto il suo antico fascino. Strada poco frequentata dai turisti, eppure intrisa di storia, collega Via Gramsci con Piazza dell’Annunziata, dove la chiesa omonima si erge con il suo sfarzo barocco. All’esterno, modesta e severa, ma varcando la soglia, esplode in un trionfo di marmi, ori e affreschi, a celebrazione della sua florida esistenza.

Il nome della via trae origine dalle fontane pubbliche che un tempo qui gorgogliavano, alimentate dalle acque fresche del rio Carbonara. Acqua pura, limpida, che scorreva giù dalle alture per dare ristoro ai viandanti, ai mercanti e agli abitanti del quartiere. E come quella stessa acqua fluiva incessante, così la storia di questa strada ha attraversato i secoli, trasformandosi insieme alla città.

L’Annunciazione.

Sotto il porticato dell’edificio che oggi ospita l’Aula Magna dell’università, vi è un’antica lapide dell’Annunciazione, la cui datazione rimane incerta. Quell’edificio, oggi rifatto e modernizzato, racconta di un passato che si intreccia con la spiritualità e il potere. Era la millenaria chiesa di Santa Fede, le cui radici affondano nel lontano periodo del cristianesimo primitivo. Al suo posto, un tempo, sorgeva un tempio pagano, dove si veneravano antichi dei, ma dal 1142 venne affidato ai Cavalieri del Santo Sepolcro. Quei cavalieri, uomini di fede e di spada, qui pregarono e partirono per terre lontane, verso Gerusalemme, in nome della croce.

Il campanile di S. Fede.

Nel 1614, Santa Fede fu ricostruita in splendide forme barocche, ma il suo destino sarebbe cambiato radicalmente negli anni a venire. Napoleone, con la sua lunga ombra, la trasformò in una stalla, come se volesse cancellare in un sol colpo la sacralità di quei marmi, quegli affreschi e quel silenzio. Abbandonata, dimenticata, la chiesa cadde in rovina, finché nel 1926 venne sconsacrata e adibita a deposito di vini.

I suoi tesori, le opere d’arte, i marmi, vennero trasferiti nella nuova chiesa di Santa Fede, che oggi si trova in Corso Sardegna, nel quartiere di Marassi. Oggi, quella che un tempo fu una gloriosa chiesa, ospita uffici comunali, con le sue tre navate e un piccolo chiostro sul retro, testimoniando una storia di trasformazione e rinascita.

Ma Via Fontane non ha smesso di custodire i suoi segreti. Al civico 36a/r, proprio lì dove oggi sorge una palestra comunale, si ergeva un tempo la piccola chiesa di San Tommaso e l’oratorio delle Cinque Piaghe. Ancora oggi, per chi sa guardare, si possono riconoscere tracce di decorazioni esterne e un’antica edicola che un tempo ospitava un grande affresco, ormai scomparso. Ma nel cortiletto, sopra la porta, si scorge ancora una lunetta raffigurante la Madonna Assunta, segno di una devozione mai del tutto sopita.

L’oratorio delle Cinque Piaghe.

Sul fronte dell’oratorio, custodita in un tabernacolo, si trova la statua di San Tommaso. La sua tunica reca una grossa “T”, simbolo inequivocabile, e la statua, sebbene mutila del braccio destro, continua a vegliare su quel luogo come un antico guardiano. Chi passa di lì raramente si ferma a osservarla, ma per chi conosce la storia, quella statua è il segno di una presenza silenziosa, che attraversa i secoli, immune al tempo.

Via Fontane, con il suo intreccio di chiese, oratori, antichi templi e storie di cavalieri, rimane una testimonianza vivente di come Genova sappia fondere il sacro e il profano, il passato e il presente, in un eterno abbraccio.

In Copertina: Via delle Fontane. Foto di Stefano Eloggi.

Torre del Labirinto

La Torre del Labirinto, ancora esistente sebbene in stato di degrado, rappresenta uno degli esempi meglio conservati di strutture simili.

Situata nel quartiere della Coscia, è nascosta tra gli edifici compresi tra via Pietro Chiesa e piazza Barabino, da cui è parzialmente visibile.

Il nome curioso della torre, una delle diciotto presenti in zona in epoca medievale, deriva dal complesso intreccio di vicoli che la circondano.

Questo “labirinto urbanistico” è testimoniato dal toponimo, che richiama il disordine e la caotica disposizione delle strade di questo antico rione, come descritto da Giuseppe Revere nel 1858.

Egli lo definiva un “acervo di strade” dove persino i marinai, scampati alle tempeste del mare, finivano per perdersi, talvolta abbandonando il “timone” sotto l’influenza delle lusinghe di alcune donne locali, con conseguenze non sempre favorevoli per la loro “nave”.

La Torre del Labirinto. Foto di Stefano Ghiglione.

Questo quartiere ha una storia densa di eventi significativi, tra cui l’assalto dell’accampamento francese del generale Massena da parte degli abitanti della Coscia nel 1800, durante il blocco navale di Genova.

Questo atto di ribellione, motivato dalla fame causata dall’assedio, fu un tentativo riuscito di procurarsi viveri.

La Torre del Labirinto, una delle poche strutture sopravvissute di quell’epoca, è accessibile da via Pietro Chiesa, oltrepassando un archivolto chiuso da un cancello.

Nonostante sia celata tra le case, è ancora visibile da Piazza Barabino.

In Copertina: Torre del Labirinto. Foto di Stefano Ghiglione.

Vico superiore di Campo Pisano

All’incrocio tra vico Campo Pisano e vico superiore di Campo Pisano si trovava un tempo un teatro particolarmente caro ai genovesi: il teatrino gestito da Nicola Tanlongo, in arte Ö Feûgo che, insieme al fido aiutante Cincinina allestiva qui spiritosi spettacoli di burattini.

L’attività cessata a causa della guerra riaprì i battenti, purtroppo senza successo, negli anni 80′ del secolo scorso.

Oggi i locali dell’antico locale sono stati trasformati in ristorante.

In Copertina: Vico superiore di Campopisano. Foto di Antonio Corrado.

Vico Veneroso

Vico Veneroso è uno stretto caruggio che fa parte di quel gruppo di vicoli situati sul lato sinistro di Via San Lorenzo scendendo in direzione mare.

Al civ. n. 4 dell’omonima piazza si trova il Palazzo nobiliare di Giovanni Bernardo Veneroso. L’edificio venne distrutto dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale e ricostruito negli anni ’50.

Il caruggio, recentemente riqualificato, deve il nome alla casata dei Veneroso originaria di Ancona secondo alcuni, di Verona secondo altri.

Costoro si stabilirono a Genova nel ‘300 fornendo alla Repubblica diversi senatori e soprattutto due Dogi: Gerolamo di Gio-Bernardo nel 1726 e sui figlio Gio-Giacomo nel 1754.

Con la riforma Doriana degli Alberghi del 1528 furono ascritti nei Lomellini.

In Copertina: Vico Veneroso. Foto di Stefano Eloggi.

Vico dei Parmigiani

In Piazza Fontane Marose a lato di Palazzo Spinola dei Marmi si trova vico dei Parmigiani.

Il caruggio deve al nome al fatto che qui nel Medioevo aveva sede la loggia in cui era permesso alla comunità parmense esercitare i propri commerci.

All’angolo fra vicolo e palazzo Spinola si nota un’edicola di Madonna col Bambino del XVIII secolo.

Sul lato opposto in basso, incastonata nel muro ecco invece una palla di cannone la cui provenienza non è accertata.

Secondo alcuni esperti si tratterebbe di un ricordo del bombardamento del Re Sole del 1684, secondo altri invece di quello del La Marmora del 1849.

In Copertina: Vico dei Parmigiani. Foto di Stefano Eloggi.

Il bassorilievo di Vico degli Adorno

In vico degli Adorno, angolo via Lomellini, si trova un pregevole bassorilievo in pietra nera.

Tale manufatto, risalente al XV secolo, rappresenta la Madonna col Bambino sotto alla quale al centro campeggia il trigramma di Cristo al centrcircoscritto in una ghirlanda retta da due putti.

AI lati due stemmi nobiliari abrasi raffigurati con gusto bucolico fra gli alberi.

Sulla cornice della base è incisa l’epigrafe:

PAX HVIC DOMVI. SEC XV.

In Copertina: il bassorilievo di Vico degli Adorno. Foto dell’autore.

Il misterioso e dimenticato meali!

A Genova ancora per quelli della mia generazione nati inizio anni ’70 la parola meali aveva un significato ben preciso.

Non c’era infatti campetto, oratorio, sagrato, giardinetto o piazzetta dove durante la partita con questo termine venisse identificata la rimessa dal fondo.

Erano gli anni in cui al portiere non era richiesto il saper giocare coi piedi. Per fare bene il suo mestiere, ovvero quello di parare, bastava che sapesse usare con bravura le mani.

A quel tempo dunque la ripresa del gioco dal fondo avveniva con un lancio lungo del pallone che, prima di essere toccato da un compagno, doveva in ogni caso uscire dall’area di rigore.

Così molto spesso ad effettuare tale rinvio non era il portiere, bensì il libero o comunque il giocatore di movimento dotato del calcio più lungo.

Oggi invece è in voga -uso il termine tecnico- la “costruzione dal basso” che prevede l’avvio dell’azione proprio da parte del portiere che passa la palla (che non deve più necessariamente prima di essere toccata da un compagno uscire dall’area grande) ad uno dei due terzini posti ai vertici di quella piccola.

Eppure al di fuori dei confini provinciali la parola meali è sconosciuta. Semplicemente non esiste se non tramandata dalla tradizione orale delle cronache delle partite degli albori. Persino l’Accademia della Crusca interpellata a suo tempo sulla questione della sua genesi non ha saputo fornire una spiegazione definitiva.

Secondo alcuni infatti l’etimo della parola meali deriverebbe da una maccheronica onomatopeica traduzione dall’inglese della domanda rivolta all’arbitro “May I?” (posso battere?) oppure dalla storpiatura di “My line” (batto dalla mia linea) et “similia”.

Secondo altri l’origine sarebbe invece riconducibile all’espressione dialettale “Mèa li! (Guarda lì) per indicare dove mettere la palla per battere il rinvio dal fondo.

Facendo ricerche in rete sull’argomento mi sono imbattuto anche nelle suggestive quanto fantasiose ipotesi formulate dal sito Pagina2Cento secondo il quale la parola meali vanterebbe addirittura origini greche. In proposito riporti pari pari:

“… Un amico tifoso dell’Aris Salonicco ha suggerito che “me allì” in greco significa “con l’altra” (femminile). Starebbe per “gioca dal fondo con l’altra palla”: un cambio di attrezzo, insomma, come oggi i portieri fanno spesso. Ma all’epoca dei pionieri? Difficile.

Un altro amico, stavolta tifoso del Paok Salonicco, l’ha presa più sul filosofico: “se ci pensi, calcio d’angolo o rimessa dal fondo dipendono sempre da una decisione dell’arbitro, nonostante i giocatori pretendano sempre di aver ragione. Tutti sostengono di dire la verità al direttore di gara. E quando il fischietto decide, eccoci in presenza di un giudizio preso “me alithia”, che in greco vuol dire con verità. Per il corner era già popolare la parola inglese, ma goal kick no. Meali vuol dire che l’arbitro ha deciso per la rimessa dal fondo e che il suo giudizio è la verità di cui prendere atto”.

Meali deriverebbe da “Me alithia” in forma contratta? Mah… forse. Nessuno degli altri al tavolo aveva una spiegazione migliore. Tutti concordavano però su una cosa: meali aveva sicuramente un’origine ellenica, come (secondo i greci) il 99,99% delle parole nel mondo occidentale.

Avevo solo un ultimo quesito per loro: d’accordo l’origine greca, ma come si spiegherebbe l’uso di meali solo a Genova e nelle sue immediate vicinanze? Con questa domanda, ero sicuro di averli messi nel sacco. Mi hanno risposto in coro: “Semplice. Siete una città di mare e chi domina il mare, dai tempi dell’Iliade, sono i marinai greci. Saremo venuti a giocare da voi e vi avremo insegnato la parola meali”.
Parola che poi, in Grecia, non hanno mai utilizzato”.

Greci o non greci sicuramente il football in Italia, proprio per via degli scambi marittimi con gli inglesi, è nato proprio a Genova nel 1893 con la fondazione del Genoa CFC e quindi è plausibile che la parola meali sia frutto di questa contaminazione inizialmente onomatopeica poi assorbita nella lingua genovese.

Meali! Ovvero “Compagni guardate” avvertimento rivolto dal battitore ai giocatori sulle ali che sta per rilanciare in loro direzione.

Qualunque sia l’origine della parola di cui nella lingua italiana non si ha traccia, per me che da ragazzino facevo il portiere, il rinvio dal fondo, che sia io o il libero a calciare, sarà sempre il meali!

In Copertina: Meali battuto dal portiere durante una partita di campionato inglese di inizio secolo. Immagine tratta da Ulimouomo.com.