“Ebony and Ivory”…

Prima di percorrere Vico Sotto le Murette ed ammirare i brani delle antiche mura del Barbarossa, allo sbocco con la scalinata che scende verso le Mura della Marina, si trova  l’oratorio di S. Antonio della Marina.

 

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“L’oratorio di S. Antonio Abate, con le sue lapidi in facciata, si sporge timido dalle Mura della Marina da cui prende il nome”.

Venne costruito nei primi anni del XV sec e, causa il bombardamento del 1684 del Re Sole, ricostruito nel XVII sec. Con l’occupazione francese e relativa soppressione napoleonica degli ordini religiosi, fu adibito a stalla. Nel 1828 venne recuperato e restaurato su progetto dell’architetto Carlo Barabino che lo rivisitò in chiave neoclassica.

L’esterno risulta piuttosto anonimo e la facciata sembra sbirciare timida il mare. Dal punto di vista storico, tuttavia, è interessante l’edicola posta a lato del portone con Sant’Antonio e Madonna con Bambino del 1637, sulla cui mensola sono scolpite le chiavi della città a simboleggiare il fatto che da quell’anno la Madonna è la Regina di Genova. Sotto di essa la dicitura un tempo affissa sulle porte della cinta muraria secentesca: “Posuerunt me custodem” (mi misero a protezione).

Ancora più sotto la commovente e relativamente recente lapide che recita:

 “SALVE MARIA MATER NOSTRA,

DI GENOVA REGINA E SIGNORA,

DA OGNI MALE PROTEGGI,

LA PATRIA ED IL MARE NOSTRO

I NAVIGANTI GUIDA RICONDUCI IN PORTO

I GENOVESI FIGLI TUOI TI INVOCANO

AVE MARIA”Anno Mariano 1954   23 Maggio

 

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“Decori, stucchi, fregi, marmi e affreschi degli interni”.

Al suo interno invece, complice il fatto che dal 1939 vi sono confluite anche parte delle collezioni degli oratori di San Giacomo delle Fucine, dei Re Magi, di S. Maria di Castello di San Bernardo delle Anime della Foce, si rimane incantanti dalle strabilianti opere d’arte che vi si trovano:

Su tutte il celeberrimo Cristo Moro delle Fucine del Bissoni del 1639 ritenuto il primo esempio di grande crocifisso processionale ligure. Scolpito in  legno di giuggiolo tinto al naturale con fregi in tartaruga e fogliame d’oro. Il gonnellino insieme agli altri orpelli d’argento e i diamanti con cui era decorata la scritta “INRI” sono stati depredati dalle truppe napoleoniche.

 

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“La settecentesca cassa processionale di S. Giacomo che abbatte i Mori, commissionata al Navone dalla Confraternita di S. Giacomo delle Fucine”.
“S. Giacomo che abbatte i Mori”. Foto di Roberto Crisci.

Non da meno sono poi il Cristo Bianco, datato 1710, opera del Maragliano e la strepitosa tardo settecentesca cassa processionale con San Giacomo Maggiore che abbatte i Mori di Pasquale Navone, proveniente anch’esso dalla Confraternita delle Fucine.

Vi sono poi affreschi ottocenteschi di Giuseppe Passano e soprattutto quelli cinquecenteschi di Luca Cambiaso, tele di Orazio Cambiaso e di altri artisti minori della scuola genovese che si sono impegnati nel raccontare gli episodi salienti della vita del santo.

Di pregevole fattura infine l’altare ottocentesco con le tre relative statue frutto del talento di Ignazio Peschiera.

“Il secentesco Cristo Moro”. Foto di Roberto Crisci.

L’oratorio inoltre, fatto singolare e curioso, avendone ereditato il titolo dalla vicina dismessa chiesa, è sede della parrocchia di S. Salvatore, il cui sconsacrato edificio ospita l’aula magna della facoltà di architettura.

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“Il settecentesco Cristo Bianco”.

 “Ebony and Ivory live together in perfect  harmony” cantavano in duetto Paul Mc Cartney e Stevie Wonder… e se nel mondo questa resta ancora un’utopia irrealizzata, il “ Cristo Moro” e quello “ Bianco”, nell’oratorio di S. Antonio della Marina, convivono in perfetta armonia.

 

 

 

“La Tenaglia… pardon Le Tenaglie”…

“Non si deve muovere la Bastia di Promontorio per far Tenaglia fino che non sia finito il cinto in detta parte”. Così, in fase di progettazione delle Nuove Mura, annotava Padre Fiorenzuola l’architetto incaricato dello studio per la costruzione del nuovo forte. La vecchia bastia cinquecentesca (eretta in realtà intorno al 1478) di promontorio che “tenerebbe netto Cornigliano e il principio della Polcevera, essendo che fino a Coronata può tirare, difenderebbe la Lanterna, L’Oliva e San Pier d’Arena, perché tutti questi lochi lo domina benissimo”, nel 1633 con il completamento delle Mura, venne atterrata. Sul relativo piano si edificò, come struttura complementare alla cinta, la fortificazione avanzata a “Tenaglia”; costruita su due mezzi bastioni laterali, con un piccolo cortile intermedio a due lunghi lati paralleli delimitanti, nell’insieme, un recinto fortificato a 217 metri s.l.m.

Circa un secolo dopo, nel 1747 dopo la cacciata austriaca del Balilla, vennero rinforzati i parapetti del forte perché fossero in grado di opporre maggiore resistenza alle artiglierie nemiche.

Nel 1797 durante la rivolta antifrancese vi si asserragliarono i ribelli genovesi che, dopo dura lotta e numerosi caduti, furono sconfitti dagli invasori.

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“In basso a sinistra il muro del Forte lato monte, in alto a destra quello delle mura. Le due strutture erano collegate mediante un ponte levatoio i cui meccanismi sono ancora visibili proprio nel punto in cui, all’ingresso, è stata rinvenuta la lapide con la dicitura Tenaglie”.

La storia del forte mutò dopo l’annessione ai Savoia del 1816 che provvidero ad elevare la cortina settentrionale e della fronte a ponente con il contemporaneo innalzamento di cortine in parallelo a chiusura del perimetro. Si ottenne così un corpo continuo a “L” con al suo interno una caserma ma indipendente e in posizione più avanzata rispetto alle mura secentesche. Per questo venne collegato alla cinta mediante un ponte levatoio.

In occasione dei moti insurrezionali del 1849 contro i Savoia Il Tenaglia venne occupato dagli insorti e fu riconquistato dai piemontesi solo grazie al tradimento di un personaggio ambiguo proveniente da Torino.

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“L’interno del Forte su tre livelli interrati nei quali erano ricavati gli alloggi e le latrine delle truppe e degli ufficiali”. In tempi più recenti, come testimoniato dall’argano sovrastante e dalle stazioni di carico, era utilizzato come deposito e magazzino”.

Costui a conferma del detto “piemontesi falsi e cortesi”  seppe ingraziarsi  i ribelli a tal punto da strappare loro il comando del Forte e riconsegnarlo alle truppe regie che, sotto la guida del Capitano Govone dei Bersaglieri, avevano già ripreso possesso anche del Crocetta e del Belvedere.

Durante la Seconda Guerra Mondiale la fortezza, utilizzata come postazione per una batteria antiaerea, causa i bombardamenti patiti, subì gravi danni alla cortina meridionale e il crollo totale della caserma nella zona centrale.

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“La lapide posta sulla colonna di sinistra del portone d’ingresso recante la dicitura Tenaglie”.

Curiosa è poi la storia legata al nome, visto che nella toponomastica ufficiale, il forte è sempre stato identificato con il nome “Tenaglia” al singolare mentre recentemente i volontari dell’associazione che ne hanno ottenuto dal Demanio la concessione, hanno rinvenuto una targa coperta dai rovi e nel più completo abbandono. La lapide posta all’ingresso, vicino a dove un tempo c’era il ponte levatoio, reca scolpito il titolo al plurale, “Tenaglie”. Incuriositi da questo particolare costoro hanno effettuato delle ricerche secondo le quali tale variante risalirebbe a documenti sia cinque che settecenteschi. Probabilmente si è passati dal plurale al singolare poiché tenaglia in francese si traduce “Tenaille” e, quindi di conseguenza, così è rimasto per tradizione e storpiatura popolare.

 

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“Una delle postazioni a cui erano ancorati i cannoni dei Tedeschi preposti alla difesa aerea”.

Come in ogni forte o castello che si rispetti non poteva infine mancare  la caccia al tesoro: due interessanti vicende sono infatti legate a presunti gruzzoli lasciati dai militari nei secoli; il primo risalirebbe al tempo di Napoleone, il secondo all’epoca della Seconda Guerra Mondiale. A proposito  di quest’ultimo leggenda narra che, molti anni dopo il termine del conflitto, un soldato tedesco armato di pala si sia presentato al picchetto di guardia con la bizzarra e, per altro non esaudita, richiesta di accedere al forte per recuperare il suo ingente patrimonio che aveva sepolto lì al tempo in cui l’artiglieria tedesca sparava contro l’aviazione alleata.

Posto in posizione strategica dalla sua sommità si gode di un panorama invidiabile che domina sulle Valli Polcevera e Bisagno e che spazia dalla Madonna della Guardia, al Gazzo, a Capo Mele fino al Promontorio di Portofino.

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“Il Muro su cui sono ancora visibili i segni dei proiettili sparati, durante le esercitazioni di tiro, al tempo della Seconda Guerra Mondiale”.

Da alcuni anni Il Tenaglie o Tenaglia che dir si voglia è stato recuperato e restituito alla cittadinanza grazie all’operato di un gruppo di volontari della “Piuma Onlus” che, in occasione di determinati eventi apre, con meraviglia dei visitatori, la storica struttura.

“Dar di culo sulla ciappa”…

Nei pressi di S. Giorgio è situata un’antica piazzetta la cui conformazione è stata stravolta dalle opere di fine ‘800 per la realizzazione di Via S. Lorenzo.

I portici che proseguivano fino al molo vecchio sono stati demoliti e sostituiti da quelli ottocenteschi, i relativi magazzini del Porto Franco che occupavano tutto lo spazio (odierna Via Turati) scomparsi.

Al loro posto un parcheggio, il sottopasso e la sopraelevata. 

Il toponimo trae origine dalla parola araba “Reba o rayba” che significa mercato o magazzino delle biade.

Fin dal ‘200 la piazza era identificata con il diminutivo di Raibetta perché dedicata allo smercio di legumi e per distinguerla dall’attigua e più importante Raiba, lo spazio assegnato alla compravendita dei cereali.

"Il porticato all'angolo con Vico delle Compere, di fronte a Piazza della Raibetta".
“Il porticato all’angolo con Vico delle Compere, di fronte a Piazza della Raibetta”. Foto di Leti Gagge
"Cartolina raffigurante Piazza della Raibetta e, sullo sfondo, palazzo S. Giorgio".
“Cartolina raffigurante Piazza della Raibetta e, sullo sfondo, palazzo S. Giorgio”. Collezione Stefano Finauri.
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“Dar di culo sulla ciappa. Immagine conservata nei musei di S. Maria di Castello”.

Nello stesso spiazzo vi era anche “la clapa piscium” ovvero il mercato del pesce.

Qui avveniva un singolare rituale di messa alla berlina che vedeva protagonisti coloro i quali si macchiavano di fallimenti: al malcapitato venivano requisiti tutti i beni restanti in favore dei creditori e doveva, fra l’ilarità dei concittadini chiamati a raccolta, patire l’umiliazione di sbattere tre volte le natiche sulla pietra.

Da qui il nostrano, per dire che si è toccato il fondo, “dar di culo sulla ciappa”.

In Copertina: Piazza della Raibetta.

Strade Nuova, Grande e Nuovissima…

La morfologia del centro storico genovese si era sempre dipanata in epoca medioevale intorno al concetto di “piazza castello” attorno al quale la famiglia egemone costituiva la propria consorteria con fondaci, magazzini, attività mercantili e artigianali, chiesa e dimora gentilizia (vedi ad esempio i Doria in Piazza S. Matteo, gli Embriaco nell’omonima piazza, i Cattaneo Della Volta in San Giorgio).

Gli spazi consolidati nei millenni non bastavano più a contenere gli slanci di grandezza dei nobili genovesi che, a metà del ‘500 in pieno Rinascimento, cominciarono a concepire la loro rivoluzione viaria e immobiliare, un percorso che si sarebbe snodato per oltre due secoli.

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“Alcune delle tavole della pubblicazione di Rubens”.

Fra il 1551 e il 1558 si procedette allo sbancamento della collina sottostante il Castelletto e alla demolizione del vicino postribolo in S. Francesco per permettere l’edificazione dei primi palazzi in Strada Maggiore o Nuova (poi Via Aurea, oggi Via Garibaldi), una via monumentale voluta, su progetto di Bernardino Cantone, per offrire residenze di prestigio alle principali famiglie patrizie.

La strada aveva come unico accesso il varco da Piazza Fontane Marose poiché l’odierna Piazza della Meridiana era occupata dai terreni di Palazzo Durazzo. Come ancor oggi possiamo intuire tutti i palazzi lato monte ed alcuni verso valle, erano impreziositi da meravigliosi giardini pensili, una piccola Babilonia, che si arrampicavano fino sotto al Castelletto.

I terreni per l’edificazione delle dimore furono una vera e propria operazione di speculazione edilizia promossa dal Comune che, bisognoso di palanche, aveva diviso in lotti la proprietà per venderli all’asta.

Nel 1622 il pittore fiammingo Rubens rimase particolarmente affascinato dalle sfarzose dimore di Strada Nuova a tal punto da pubblicare un volume “I Palazzi di Genova” a loro dedicato in cui le indicava  ai compatrioti come modello architettonico da imitare.

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“Strada Nuovissima, oggi Via Cairoli”.

Nel frattempo l’espansione residenziale era continuata a ponente con l’apertura di Strada Grande del Guastato su disegno di Bartolomeo Bianco (Via Balbi) iniziata fra il 1602 e il 1613, completata nel 1655, i cui appalti vennero affidati appunto alla ricca famiglia dei Balbi che vi fece costruire , fra gli altri, il futuro Palazzo Reale. Proseguita con la realizzazione  di Strada Nuovissima  (Via Cairoli) nel 1786 il progetto si concluse con i  prolungati lavori terminati sul finire del ‘700 a causa degli imponenti sbancamenti resisi necessari per consentire il livellamento e quindi il collegamento fra le due arterie costruite in tempi diversi.

 

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“Via Balbi, dove si trovano Palazzo Reale, gli atenei umanistici, la chiesa di S. Carlo e S. Vittore, quella oggi sconsacrata, sede della biblioteca universitaria, di S.S. Gerolamo e Francesco Saverio”. Foto di Leti Gagge

Genova era ora attraversata da una nuova direttrice che collegava il ponente cittadino al centro fino a Piazza Fontane Marose e poi, attraverso Salita S. Caterina, si dirigeva verso la valle del Bisagno e la collina di Albaro.

Il cerchio si chiuderà solo nel 1832 quando l’architetto Carlo Barabino traccerà strada Carlo Felice (Via XXV aprile) che unirà il percorso a Piazza De Ferrari collegandolo al nuovo centro cittadino e alle Vie Giulia e Consolazione (Via XX settembre).

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“Via Carlo Felice, oggi Via XXV aprile”.

Genova muta il suo baricentro ma non il suo fascino.

Bomba su bomba…

Fin dai tempi remoti innumerevoli sono state le volte in cui Genova è stata distrutta, umiliata, offesa:

penso ai Cartaginesi guidati da Magone che nel 205 a.C. la rasero al suolo, ai Saraceni nel 935 d.C. che ne violarono il litorale, per non parlare di francesi, spagnoli, austriaci, inglesi e Savoia.

"Il bombardamento del 1684 illustrato da Jan Karel Donatus".
“Il bombardamento del 1684 illustrato da Jan Karel Donatus”.

Il terribile sacco di Genova ad opera degli spagnoli nel 1522 ma senza dubbio alcuno l’aggressione ordita nel 1684 da Luigi XIV re Sole entra di diritto fra le più terribili. Non da meno fu l’assedio austro inglese del 1800 ricordato per l’eroica e strenua resistenza portata avanti dalla città comandata dal generale nizzardo Massena.

Che dire poi del vergognoso eccidio del 1849 perpetrato dai bersaglieri del generale La Marmora per conto dei Savoia?

In tempi più recenti durante la seconda guerra mondiale i bombardamenti degli alleati provocarono circa 9000 vittime civili oltre a danni incalcolabili agli impianti industriali e al patrimonio artistico della città.

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“I resti del complesso conventuale di S. Silvestro in Sarzano dopo i raid del 1942. Genova colpita al cuore”.

Genova come recita l’antico motto “flangar non flectar” mi spezzerò ma non mi piegherò che si può anche leggere al contrario “Flectar non flangar” mi piegherò ma non mi spezzerò, si è sempre orgogliosamente rialzata.

Le prime avvisaglie si ebbero il 11 e 13  giugno 1940,  cioè nei giorni immediatamente successivi all’entrata in guerra dell’Italia quando Inghilterra e Francia iniziarono i primi attacchi aerei. Ma il 14 giugno di quell’anno fu la data che rimase impressa nella memoria dei genovesi poiché  i Francesi intentarono addirittura un’azione navale contro Savona e Genova. L’operazione ebbe esito di poco conto ma scalfì non poco l’umore della popolazione e il morale dell’esercito, proiettati subito nello scontro, senza neanche aver avuto il tempo di realizzare la gravità della situazione.

Nel periodo compreso fra il 1941 e il 1945 gli storici hanno calcolato che i bombardamenti distrussero o danneggiarono gravemente 16000 edifici in tutta l’area comunale.

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“La chiesa di S. Stefano dopo il bombardamento dell’8 agosto 1943”.

La Superba dovette subire ben 86 incursioni aeree volte non solo a colpire le industrie e il porto ma anche il centro abitato con l’intenzione di terrorizzare la popolazione.

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“La zona atterrata di S. Donato in cui si staglia eroico il suo campanile”.

Il 9 febbraio 1941 le navi inglesi provenienti da Gibilterra attuarono “l’operazione Grog” entrando, di sorpresa, senza incontrare alcuna resistenza nel golfo di Genova seminando morte e distruzione. Dalle 8:15, così raccontano le cronache del tempo, fino alle 9:45 i britannici scaricarono sulla Superba 273 proiettili di grosso e 782 di piccolo calibro. Circa 300 tonnellate di bombe provocarono 141 morti, 227 feriti e 2500 senzatetto, oltre 250 gli edifici distrutti, quattro navi ancorate in porto affondate e le acciaierie dell’Ansaldo danneggiate gravemente. In quest’occasione venne colpita anche la Cattedrale dove però l’ordigno non esplose. Via XX settembre, la civica biblioteca Berio, il centro storico e le colline, le zone maggiormente colpite.

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“La lapide che ricorda le vittime della tragedia della galleria delle Grazie”.

Legata sempre ai bombardamenti è la tragedia che si verificò nella galleria delle Grazie presso Porta Soprana dove, la notte fra il 23 e il 24 ottobre 1942, 354 genovesi morirono calpestati dalla ressa di persone che, terrorizzate, cercavano di entrare nel rifugio.

L’anno seguente l’8 agosto 1943 è il teatro Carlo Felice ad essere distrutto in compagnia delle chiese di S. Stefano, Consolazione e S. Siro. Ben 169 le tonnellate sganciate su Genova, 100 morti e circa 13000 senza dimora. In quel nefasto autunno la città subì altri 6 bombardamenti causa di 1250 case abbattute.

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“Recco in macerie”.

Fu in questo periodo che la riviera di Levante perse uno dei suoi borghi più affascinanti; per via della posizione strategica del suo ponte ferroviario Recco, in seguito a 27 incursioni aeree fra 10 novembre del ’43 e l’agosto del’44, venne rasa al suolo.

In quell’anno anche Genova venne oltraggiata da 51 devastanti blitz culminati con il crollo, il 10 ottobre del ’44, della galleria di S. Benigno, causato da un fulmine che fece brillare delle cariche esplosive le quali, a loro volta, innescarono lo scoppio di un treno carico di munizioni, ricoverato nella galleria. Sotto i detriti del promontorio perirono 2000 persone.

Nel 1945 a gennaio i bombardamenti furono undici, a febbraio quattro e in marzo tre. Se ne contarono ancora sette anche in aprile quando, finalmente, Genova suonò la diana dell’insurrezione restituendo la libertà ai suoi cittadini.

Sottoripa…

Con i suoi 900 metri di copertura è stato il più lungo centro commerciale del medioevo.

Il suo porticato venne costruito per volere dei Padri del Comune a partire dal 1125 fino al 1133, addirittura 30 anni prima dell’erezione delle Mura del Barbarossa e, per questo, costituisce la più antica opera pubblica di rilievo. Il suo percorso si snodava da Porta di S. Fede fino al molo vecchio senza però soluzione di continuità. Ne sono testimonianza il  breve tratto fra Vico San Marcellino e Vico del Campo, detto “Sottoripa La Scura” per via della sua sopraelevazione e per i porticati più bassi e arretrati rispetto alla ripa. Sarà questa la zona destinata nel ‘600 al ghetto ebraico.

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“Particolari dei decori sulle volte del porticato”.

Sotto ripa letteralmente significa “sotto la riva” perché il porticato infatti era a diretto contatto con i moli del porto antico e lì sotto vi si ricoveravano le imbarcazioni. Con l’allargamento e la sostituzione dei moli di legno con quelli in pietra il porticato andò progressivamente allontanandosi dal mare dal quale distava in origine circa 5 metri. Si impose poi ai commercianti di costruire a proprie spese una copertura che proteggesse le botteghe e le attività commerciali dalle intemperie. In cambio essi ottennero di potervi erigere sopra le proprie abitazioni e la concessione dei relativi spazi commerciali.

Ancora fino al secolo scorso Sottoripa era il luogo dove si concentravano scagni, uffici, taverne e trattorie, dove si ingaggiavano marinai e camalli, dove si contrattavano i prezzi delle merci, un colorato e variegato bazar degno delle casbah orientali. Da qui si diramavano dedali di caruggi diretti verso il cuore della città vecchia oggi, per via della risistemazione ottocentesca del fronte mare, scomparsi.

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“Le Terrazze di Marmo costruite fra il 1835 e il 1839 su progetto dell’architetto Ignazio Gardella senior”.

Nel 1836 in pieno regno sabaudo la zona venne rivoluzionata con sbancamenti e demolizioni resesi necessarie per l’apertura della “Carrettera Carlo Alberto”, oggi Via Gramsci, voluta dai piemontesi per snellire il congestionato traffico del porto.

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“Brani dell’antico acquedotto medievale”.

Per lo stesso motivo vennero edificate nel medesimo periodo anche le “Terrazze di marmo” abbandonate poi nel 1885 con l’avvento del trasporto ferroviario. Si concepì allora l’apertura di Via S. Lorenzo cosa che comportò la faraonica opera di arretramento degli attuali palazzi della strada e di Via Vittorio Emanuele II, oggi Via Turati verso levante. I portici da palazzo S. Giorgio a Piazza Cavour vennero abbattuti ed ampliata la piazza stessa. Era questa la parte identificata come “Ripa cultellinorum” dal nome dello stretto vicolo a fianco del porticato dove avevano bottega  coltellieri, fonditori, fabbri, lanternai, bilanciai e i laboratori di metallo utili per gli usi di bordo.

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“Dettaglio delle secolari colonne del porticato con il sovrastante acquedotto”. Foto di Leti Gagge

 

Si procedette, a partire dal 1893, a rivoluzionare tutto l’antico assetto del fronte mare con i riempimenti per la costruzione della Circonvallazione a mare (Corsi Quadrio e Saffi), sparirono all’altezza di Via Ponte Calvi fino a Vico Morchi, le costruzioni sopra il porticato e con esse le tracce dell’antico acquedotto medioevale lungo l’originario percorso romano. Nel tratto compreso tra Vico del Serriglio e Via al Ponte Reale se ne possono ancora oggi ammirare brani superstiti.

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“Il fronte mare di Piazza Caricamento com’era un tempo prima dello scempio”.

I bombardamenti della seconda guerra mondiale completarono lo stravolgimento, avendo provocato danni incalcolabili, causarono l’abbattimento di numerosi palazzi circostanti e la cancellazione di contrade intere come il caso dello scomparso Vico Lanterna.

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“L’orrida e blasfema palazzata di cemento con a fianco un’esterrefatta e imbarazzata Torre Morchi”.

Il colpo di grazia, ancora oggi un’offesa inaccettabile al nostro panorama, ce lo ha inflitto il Ministero della Pubblica Istruzione quando nel 1950 innalzò, incastonato fra le torri medioevali, quell’indescrivibile mostro architettonico di cemento che si affaccia molesto ed estraneo in Piazza Caricamento.

Nonostante ciò Sottoripa, con i suoi odori, colori, suoni e profumi mantiene tuttora inalterato il suo fascino “in saecula saeculorum”.

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“Sottoripa all’imbrunire”. Foto di Leti Gagge

Due Statue dimenticate…

All’inizio dell’attuale Via Gramsci lato Piazza Caricamento, annerite dalla fuliggine e asfissiate dallo smog, si trovano due statue dimenticate e poco note perché difficilmente visibili se non alzando lo sguardo.

Sono le immagini di due dei personaggi più illustri della storia di Genova realizzate, in due nicchie ricavate dalle facciate dei rispettivi palazzi, dal celebre scultore genovese  G.B. Cevasco, a quel tempo appena diciottenne, ma già apprezzato maestro dell’arte dello scalpello:

Al 99r l’ammiraglio Andrea Doria, il signore del mare, colui che nel 1528 liberò la Superba dalla dominazione francese rispondendo a chi gli offriva in signoria la città: “Genova è nata libera e libera deve restare” (discorso in favore dell’Unione delle varie fazioni politiche pronunziato di fronte alla cittadinanza). Raffigurato qui nella sua cotta di rappresentanza pronto ad impugnare la spada a difesa della città.

Il cartiglio sottostante recita:

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“La statua di Andrea Doria al 99r”

Io a libertà ti rendo

Da te, mia patria

Ad esser grande apprendo.

Al civico n. 9 ecco invece Cristoforo Colombo l’esploratore, colui che allargò i confini del mondo conosciuto e aprì nuovi sbocchi e frontiere commerciali e che, ovunque si trovasse, sempre un pensiero in cuor suo serbava per Genova: “Benché il corpo sia qui, il cuore è costantemente lì” (lettera ai concittadini indirizzata al Banco di S. Giorgio). Qui rappresentato in una veste elegante con, posato sopra ad una colonna, il globo a portata di mano.

La relativa epigrafe declama:

Dissi, volli, il creai

Ecco un secondo

Sorger nuovo dall’onde

Ignoto mondo.

Di fronte, parzialmente occultato dalla sopraelevata, l’orizzonte infinito del mare, il loro comune habitat naturale.

“La statua di Cristoforo Colombo al civ. 9”.

Infinito al quale sempre seppero andare oltre…

Chiostro di S. Andrea…

Dietro la casa di Colombo, sotto le torri di Porta Soprana, si trova uno degli angoli più apprezzati dai turisti in città: si tratta del Chiostro di S. Andrea, protagonista di romantici scatti fotografici, nell’immaginario collettivo silente testimone della presenza del futuro esploratore.

Pochi sanno però che in precedenza si trovava nella zona occupata dall’attuale Piazza De Ferrari e che se non fosse stato per l’opposizione dell’architetto D’Andrade, sarebbe anch’esso andato distrutto come, qualche decennio dopo, sarebbe accaduto alla casa natale di Niccolò Paganini.

Nel 1905 in occasione dei lavori di ampliamento dell’attuale Via XX Settembre, venne quindi smontato e, in attesa di trovargli nuova locazione, ricoverato in S. Agostino e lì dimenticato fino al 1923  quando, con perizia e passione venne rimontato dallo studioso Angelo De Marchi.

Dell’originario chiostro romanico facente parte del monastero benedettino di S. Andrea resta solo la parte interna, il resto è andato perso nei secoli.

Nel 1810 il Chiostro, venne sbarrato da pesanti grate di ferro per impedirne, visto che nel frattempo il complesso era stato convertito in carcere, l’accesso ai detenuti.

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“Dettaglio di un capitello con angeli e fregi floreali”.

 

La struttura è a colonne binate con 32 coppie di capitelli e sei colonne per angolo. I capitelli sui lati sud ed ovest sono originali dell’epoca romanica mentre quelli a nord e ad est risalgono al tardo ‘200.

Numerose e singolari sono le sculture che lo adornano, si notano in particolare; un cavaliere accompagnato da una dama con mantello; un pastore, un cane e tre caproni all’interno di una scena bucolica; un contadino che ara il campo con i buoi; un carro trainato da un cavallo e muli che trasportano pesi; un’adorazione dei Magi; Adamo ed Eva; Daniele nella fossa dei leoni; due centauri; diverse figure di angeli; una donna che tiene per le corna un ariete; un mostro che ingoia una colonna, due aquile ad ali spiegate ed un cervo.

Lo stile richiama molto da vicino quello dei maestri antelami che operarono sulle porte della città, di S. Fede in particolare, e in Cattedrale.

Molto significativi e suggestivi ad esempio, perché simili a quello scolpito all’ingresso del portale destro della cattedrale sono, entrando da destra, due cagnolini incisi sulla base delle colonnine ad angolo. Tre cagnolini dormienti concepiti, a guisa di sigla, dai maestri dello scalpello.

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“Uno dei due cagnolini dormienti”.

 

Storia di una Briglia e di un Cavallo…

Re Luigi XII, occupata Genova nell’aprile del 1507, decise di dotarla di una poderosa fortezza che, insieme a quella del Castelletto, gli avrebbe consentito di tenere in scacco la Superba. Osservando infatti il litorale dal Molo vecchio aveva intuito che, posizionandola ai piedi della Lanterna e fornendola di adeguate artiglierie, avrebbe controllato l’accesso al porto e dominato la città.

Il Sovrano oltre a sottomissione e fedeltà pretese dalla cittadinanza il favoloso esborso di 40000 scudi necessari per l’erezione del “chateau neuf” da posizionarsi sul promontorio di Capo di Faro.

Il progetto iniziale prevedeva una costruzione a pianta quadra di circa 60 passi per lato e l’abbattimento del vecchio Faro. Fortunatamente il Senato genovese, preoccupato per quanto stabilito, donò 200 scudi d’oro al progettista dei lavori, l’ingegner De Spin, affinché rinunciasse allo scellerato proposito di demolizione della Lanterna. 

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“Trionfale arrivo di re Luigi XII a Genova in una illustrazione di Jean Marot”.

Per iniziare i cantieri giunsero in città, ingaggiati dai francesi, oltre mille operai e numerose maestranze antelamiche provenienti dalla Lombardia.

I lavori furono completati nell’ottobre dell’anno successivo e gli invasori la battezzarono, con l’inquietante appellativo di “Mouvesine de Co’ de fa”. I genovesi invece da subito la identificarono come la Briglia” per simboleggiare l’oppressione nemica o, più semplicemente in ragione della sua collocazione, “Fortezza della Lanterna”.

Così la descrive lo storico Uberto Foglietta: “sporge lungamente nel mare dal quale è quasi tutto bagnato, e col quale si tiene con la terra è separato da lei con un’altra apertura a a terra, e in mezzo vi sino due dirupate grotte, si che per niuna maniera si può accostare ad esso contro la voglia di quelli che tengono lo scoglio”.

Le cortine e i bastioni della Briglia si alzavano a picco sul mare assecondando la morfologia della scogliera. Era ritenuta una delle più imponenti ed inespugnabili fortezze d’Europa, fornita di artiglierie di ultima generazione, sorvegliata agli ordini del comandante Houdetot, da un presidio di 100 arcieri, 150 soldati e 50 bombaroli.

I genovesi, con l’aiuto degli spagnoli, si ribellarono alla dominazione foresta e, sotto la guida del Doge Ottaviano Fregoso, ripresero la città. Iniziò così uno snervante assedio lungo 16 mesi volto a conquistare la rocca e ad espellere definitivamente il contingente nemico. Le artiglierie francesi  però risposero colpo su colpo alle batterie genovesi del Molo e di Sampierdarena, rendendo vana ogni speranza di cedimento.

Nonostante il blocco navale imposto dal Doge al fine di impedire i rifornimenti al fortilizio, i transalpini inviarono in soccorso una nave, partita da Marsiglia, carica di vettovaglie e munizioni per le truppe asserragliate.

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“Il Doge Ottaviano Fregoso,  rappresentato da Lazzaro Tavarone a poppa di una scialuppa insieme al nocchiero Emanuele Cavallo seduto ai suoi piedi e a tre vogatori, prende possesso della Briglia”.

Il comandante del legno francese nel marzo 1513 tentò di ingannare i genovesi issando il vessillo di S. Giorgio. Una volta giunto a tiro di cannone delle quattro galee poste a difesa dell’ingresso del porto, si aprì un varco a colpi di bombarda riuscendo ad attraccare alla Fortezza.

Se l’azione avesse avuto esito positivo l’assedio dei genovesi sarebbe stato vanificato; ma grazie al coraggio di due capitani Emanuele Cavallo e Andrea Doria che a bordo della loro nave, sfidarono il fuoco di sbarramento della Briglia e riuscirono ad agganciare l’imbarcazione francese, l’epilogo fu ben diverso.

Durante il duro scontro il capitano francese tuffatosi in mare cercando la fuga, venne catturato insieme ad altri 32 marinai e, con essi, imprigionato; sei furono gli impiccati. La nave sequestrata ai nemici fu ancorata nel porticciolo sotto Sarzano.

 Andrea Doria, rimasto ferito, per il coraggio dimostrato ebbe onori e rinnovati incarichi, Emanuele Cavallo la riconoscenza del Doge e l’esenzione perpetua dalle tasse per sé e per gli eredi.

La guarnigione francese, nonostante la carenza di provviste, continuò eroicamente la resistenza ad oltranza. In un primo momento si pensò di minare la “Mouvesine” dalle fondamenta, poi di incendiarla, ma entrambi i tentativi ebbero risultati deludenti.

Il 16 marzo 1514 il presidio francese provato dalla fame e abbandonato dalla madrepatria, finalmente si arrese. II Doge, ordinò nonostante le suppliche francesi di risparmiarla, l’atterramento della Briglia. All’ingente spesa preventivata per l’abbattimento della Fortezza  contribuì personalmente in maniera significativa Fregoso stesso.  Allo spettacolo della demolizione affidata agli artificieri e ai maestri antelami, assistettero nobili e principi  giunti da tutta Italia.

Oltre alla Briglia purtroppo anche la torre del Faro era rimasta gravemente danneggiata e solo nel 1543 i Padri del Comune deliberarono di ripristinarla.

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“La Briglia in primo piano quasi copre la Lanterna”.

La Lanterna venne restaurata utilizzando sia pietre provenienti dalla cava di Carignano, magistralmente lavorate dai “piccapietra” dell’omonimo quartiere, che i resti della Fortezza e, a lavori ultimati, elevata all’attuale altezza di 117 metri dal livello del mare. Venne decorata all’esterno sul prospetto orientale con il fregio del Comune (S. Giorgio e i Grifoni) dipinto dal maestro Evangelista da Milano.

Al suo interno a metà delle scale venne posta  la famosa lapide scritta, a celebrazione della definitiva libertà conquistata poi nel 1528 ad opera di Andrea Doria, dal letterato e annalista Jacopo Bonfadio:

“Anno della nascita di Cristo 1543, e quindicesimo della restituita libertà; Pietro Gio Battista Lercari e Luciano Spinola, Padri del Comune, riedificarono questa Torre  che i nostri padri avevano costruita e che rimase distrutta nel  1512  dai proiettili, nell’assedio della rocca della Lanterna”.

Nel 1626 la Lanterna divenne il fulcro e parte integrante del nuovo progetto delle Mura Nuove terminate nel 1639, l’ultima cinta muraria della città.

Ad ogni Cavallo la sua Briglia…

Benedetto l’eroe della Meloria… (quarta parte)…

Sul finire del ‘200 i rapporti fra le due monarchie si erano inaspriti per via delle rivalità sorte fra i Normanni, nuovi sudditi francesi e i marinai spagnoli di Baiona, al servizio del Regno d’oltre Manica. I Francesi, imparentatisi con i regni del nord (Danimarca e Norvegia), confidavano nell’aiuto di quest’ultimi per sconfiggere i nemici ma, a causa dello scoppio di una guerra, costoro furono costretti a rivolgersi ai genovesi, signori del Mediterraneo, per fronteggiare gli inglesi nell’Atlantico. Come in passato già aveva fatto Luigi il Santo al tempo delle sue crociate, conferendo per la prima volta il titolo di ammiraglio di Francia ad Ugo Lercari e Guglielmo da Levanto e a Guglielmo Boccanegra la costruzione del porto di Aigües Mortes, a Filippo il Bello parve scontato ingaggiare Benedetto Zaccaria.

Fu così che sul finire del 1294, per volere del sovrano francese, Benedetto prese il comando della flotta con il titolo di “amiraus géneraus”. Ispezionò  i porti e stabilì che questi dovessero essere organizzati come quello di Siviglia.

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“Il porto di Aigües Mortes in Camargue fondato a metà ‘200 dal genovese Guglielmo Boccanegra”.

Stilò un preventivo di spesa molto preciso e documentato per allestire la flotta, ingaggiare i marinai risistemare i porti e formare il personale.

Aumentò la paga mensile degli equipaggi da 35 a 40 soldi perché, parole sue “il soldo dei buoni marinai è guadagnato, quello dei cattivi è perduto”. Impose, per avere più opzioni nell’arruolamento, il divieto di navigazione. In questo modo avrebbe avuto maggiori richieste d’imbarco e più possibilità di scelta. .

Presentò al re un piano d’azione articolato in quattro punti:

1) ordinaria guerra sul mare.

2) saccheggio costante dei porti nemici e rogo di ogni galea conquistata.

3) ovunque possibile, effettuare sbarchi e causare devastazione.

4) rifiuto dello scontro a terra con i nemici finalizzato a risalire rapidamente a bordo per ripetere la stessa aggressione in altro luogo.

Così facendo il nemico, non sapendo quando e dove sarebbe stato attaccato sarebbe stato costretto, a causa della paura, ad aumentare il presidio delle coste con conseguente incremento delle spese per la difesa del litorale. I sudditi, insoddisfatti per l’eccessivo esborso delle tasse necessario per mantenere le armate, si sarebbero ribellati mentre gallesi e scozzesi avrebbero trovato terreno fertile per rinfocolare le loro mire secessioniste. Le richieste del genovese furono esaudite, anzi di gran lunga superate, visto che il monarca armò 57 galee e 223 navi in grado di ospitare a bordo circa 7000 uomini.

"Filippo IV il Bello".
“Filippo IV il Bello”.

Forte dell’alleanza con l’Olanda e con le città basche, 500 anni prima di Napoleone, Benedetto replicò in grande quanto realizato contro Pisa , mise in atto il blocco continentale alla perfida Albione, ma l’isola riuscì a sopravvivere grazie al consolidamento dei canali commerciali con le Fiandre. Benedetto allora si concentrò sugli scali del mare del nord indebolendo la flotta mercantile fiamminga.

Nel frattempo i due stati, stanchi di combattersi, nel 1298 avevano stabilito una tregua e in quel periodo suggellarono matrimoni di stirpe: Edoardo d’Inghilterra impalmò Margherita di Francia e il di lei figlio Edoardo II la sorella di Filippo il Bello.

Costei, Isabella di Francia, fece deporre e assassinare il marito. Edoardo loro erede concorse alla successione del trono di Francia contro Filippo di Valois dando origine alla guerra dei cent’anni.

In questo mutato e complesso contesto il compito di Benedetto non aveva più ragion d’essere quindi, rispettati gli impegni presi con la corona e imposto ai nordici la forza dei genovesi anche sull’Atlantico, nel 1300 si dimise dal ruolo di ammiraglio supremo.

Sarà comunque un suo concittadino Ranieri Grimaldi nel 1304 a portare a termine l’interrotto progetto di ridimensionamento della flotta mercantile fiamminga.

Era giunto il tempo per Benedetto di tornare, ancora una volta, ad occuparsi delle proprie faccende in Oriente.

In quegli anni infatti le orde mongoliche avevano tolto ai musulmani i territori della Siria e l’ammiraglio partì entusiasta per aggregarsi, lieto di riprendere il discorso interrotto in precedenza con l’Egitto. Quando ormai le armate del sultano sembravano sul punto di cadere sconfitte sotto i colpi del Khan Ghazan, questi fu richiamato in patria per soffocare una rivolta intestina e la spedizione fallì miseramente.

I successivi tentativi di organizzare altri interventi furono soffocati sul nascere da papa Bonifacio VIII che temeva che dietro a questi propositi di riconquista si celassero solo gli interessi di singoli individui e non dell’Occidente intero.

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“Porto di Siviglia nel ‘500 ma già da secoli genovesi avevano qui basi privilegiate”.

Ad aggravare la situazione i veneziani sconfitti da Lamba Doria a Curzola nel 1298, per rivalsa, avevano preso a devastare i domini della Repubblica in oriente, possesso di Focea incluso. Da troppi anni infatti Zaccaria mancava dai suoi feudi e il mare di Bisanzio era tornato ad essere infestato da pirati, turchi e catalani, resisi baldanzosi a causa di un’imbelle marineria greca. Anche i traffici di allume che tanto avevano arricchito Benedetto cominciarono ad essere in pericolo. Il genovese, stanco di aspettare il supporto del re di Costantinopoli, più volte chiamato in causa, decise di farsi giustizia da sé e, con abile colpo di mano, da fine e coraggioso stratega quale era, rinforzò le difese di Focea ed occupò l’isola di Scio.

Riuscì così ad annoverare fra le sue proprietà due dei principali prodotti del levante, oltre all’allume di Focea, ora anche il mastice di cui l’isola era l’unica produttrice. Il mastice era molto apprezzato in oriente per gli elaborati aromatici, per la realizzazione di un liquore e per profumare e candeggiare i denti. In Europa veniva utilizzato invece per rendere le vernici trasparenti e per scopi farmaceutici.

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“Il mare e il suo infinito orizzonte”.

Benedetto aveva conseguito il monopolio dei commerci di allume e mastice, con le sue navi ancorate dal Mediterraneo all’Atlantico aveva mercanteggiato pellami, armi, grano e spezie in tutto il mondo. Aveva trattato alla pari con i re, ricoperto le massime cariche militari per conto di Spagna e Francia, ridotto all’impasse gli inglesi, combattuto, sfidato e vinto quasi tutti i popoli del mare, imponendo la legge dei genovesi. A chi gli ricordava le difficoltà che avrebbe incontrato durante le sue battaglie, spesso molto ardite, probabilmente avrà risposto: ”io sono genovese, in mare, sono gli altri a doversi preoccupare di me”.

Ma sicuramente l’impresa di cui, in cuor suo, andava più fiero era la leggendaria vittoria della Meloria sui pisani, occasione in cui aveva reso eterno onore e prestigio alla sua città natale.

Nel 1307, ormai vecchio, stava ancora progettando l’ennesimo viaggio in oriente quando si ammalò gravemente.

Morì nei primi mesi dell’anno successivo a casa sua, a Genova proprio di fronte al porto, con lo sguardo rivolto lontano verso il mare, il suo mare.

In copertina: Il porto di Focea.