Storia di liti… di mercanti…

… di vendette…
Nell’anno 1380 un gruppo mercanti genovesi si reca, dalla colonia di Galata, quartiere di Costantinopoli di loro pertinenza, al di là dello stretto in zona di ingerenza greca.
Scoppia una lite con furti e omicidi…

Il Podestà genovese chiede così al Basileus greco giustizia e soddisfazione.
Nella piazza principale vengono radunati i colpevoli in attesa di essere giudicati.
I genovesi attendono l’esecuzione e invece assistono ad una scena, per loro, surreale… ai condannati viene rasata la barba (grande punizione nel mondo ortodosso).
Il Podestà genovese, sentendosi schernito, promette ai concittadini vendetta così dopo qualche tempo scatena ad arte una rissa in piena Galata.

torre galata
“La Torre di Galata, simbolo di Costantinopoli, fu eretta dai genovesi nel 1348”.


Ora è il turno dei Greci a pretendere giustizia quindi i colpevoli vengono a loro volta disposti sul palco dell’impiccagione.
Di fronte a sacerdoti, notabili, nobili e autorità d’ogni genere il Podestà ordina che siano calate loro le braghe e, fra l’incredulità dei presenti, dispone che siano rasati i peli del sedere dato che i genovesi la barba la portano non sul viso, ma sulle chiappe.

 

Storia di una battaglia… la battaglia…

… di una piazzetta speciale… e di 9000 massacan.

Nell’anno del signore 1284, dopo secolare contesa, Genova nella più imponente delle battaglie navali medioevali, dinnanzi allo scoglio della Meloria, sconfigge definitivamente Pisa, l’odiata rivale.
Vengono condotti in città 9000 prigionieri destinati ai lavori manuali ma dopo mesi di stenti molti di loro non supereranno l’inverno.
Sotto la pavimentazione a “risseu”(mosaico ligure di ciotoli di mare), in occasione dei lavori di restauro per le Colombiadi, sono stati rinvenuti numerosi resti umani che testimoniano come quello fosse il cimitero a loro destinato.

"La Torre della Meloria".
“La Torre della Meloria”.
Questo magico luogo ha fornito spunto per una colorita spiegazione del termine massacan secondo la quale i Nobili genovesi portavano i loro figli a guardare i prigionieri mentre faticavano e, indicandoli dicevano con disprezzo:”Mia sta massa de can”.
D’altra parte che tra i due popoli non corresse buon sangue è testimoniato dal vecchio adagio che recita:
“Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”.
Altre fonti raccontano invece di un attacco turco alla città nel ‘500 sventato dalla prontezza e dal coraggio degli operai che stavano lavorando alla costruzione di porta Siberia, o meglio, del Molo.
Costoro avvistarono i saraceni all’orizzonte e al grido di “massacan” (ammazza i cani) saltarono sulle galee e li respinsero.
Secondo i glottologi queste sono solo fantasiose ipotesi perché l’origine della parola, per la prima volta citata nel 1178 in relazione ad un tal Anrico Maçacano, magister antelamo savonese (cioè tagliapietre) che esercitava tale professione, risale all’etimo diffuso anche in altre lingue e dialetti con il significato di “ciottolo, pietra arrotondata” della quale ci si serviva per scacciare (ed eventualmente ammazzare) i cani molesti. Da qui il passaggio a “sasso” in genere, poi a “pietra da costruzione” e infine, per estensione, nell’area ligure a “muratore”. Se già in alcuni documenti savonesi nel 1272-1273 il termine significava “pietra da costruzione”, lo si trova per la prima volta in volgare genovese nel 1471 e poi nel 1475 legato ai magistri antelami che operavano a Caffa in Crimea (Piccolo dizionario etimologico ligure” del Prof Fiorenzo Toso ed. Zona 2015).
In ogni caso i racconti leggendari relativi ai pisani di Campo Pisano e ai turchi di Porta Siberia sono, per me, ricchi di fascino e come tali li tramando.
 

Storia di Corsari… genovesi…

Siamo nell’anno del Signore 1230 allorchè le autorità cittadine, viste le numerose lamentele dei Paesi vicini, sono costrette ad arrestare i Capitani e gli equipaggi di alcune galee, ree di predoneria.
I primi vengono condannati a morte, i marinai dei secondi, al taglio della mano.
Dato che in città non c’è famiglia che non abbia un parente fra i condannati, scoppia una vera e propria sommossa.
“Il vascello Neptune”. Foto di Leti Gagge.

Nemmeno l’intervento dell’Arcivescovo riesce a far tornare il Podestà (che ricordo, per statuto, era foresto) sui propri passi.
Così dinnanzi alla prigione si radunano le donne che affrontano impavide, a sassate, i militi della Guardia.
Il Podestà stesso, si lancia a cavallo in mezzo alla folla ma, lo stallone scivola e questi si rompe una gamba.
Il Podestà rifiuta le cure dei medici genovesi preferendogli quelle dei milanesi, suoi concittadini.
Morirà dopo tre giorni…
Nel frattempo viene eseguita la sentenza ma i primi due Capitani, appesi alla forca, non muoiono così, nel nome di Dio e di S. Giovanni, il Podestà moribondo comandò che fossero lasciati liberi e con loro tutti gli altri Corsari!

In Copertina: il vascello Neptune ricostruzione cinematografica utilizzata nel 1986 per il film “Pirati” con Walter Matthau di Roman Polánski

Storia di due Re… di un Diploma…

e dell’autonomia genovese….
Nell’anno del Signore 958 il Re d’Italia Berengario II e suo figlio Adalberto coreggente, rilasciano alla città di Genova un Diploma, il più antico dei privilegi conosciuti concessi ad una comunità italiana.
Di fatto, in questo straordinario documento, i Reali riconoscono ufficialmente alla nostra città, una certa autonomia:
“In nome di Dio eterno, Berengario e Adalberto re per propizia e clemenza divina….
Confermiamo e rafforziamo a tutti i nostri fedeli abitanti nella città di Genova tutte le loro cose e le loro proprietà avute sia per contratto sia per donazione e tutte le cose che possiedono secondo la loro consuetudine, che a qualunque titolo o acquistarono con obbligazione o che a loro pervennero dalla parte di padre e madre; tutte le cose nella città e fuori totalmente confermiamo e rafforziamo più pienamente, assieme alle terre, vigne, prati, pascoli, boschi, campi seminati, rive, petraie, peschiere, monti, valli, pianure, acque, corsi d’acque, servi e serve d’ambo i sessi, e tutte le cose che possono dirsi e chiamarsi che detengono secondo la loro consuetudine.
Pertanto ordiniamo che nessun Duca, Marchese, Conte, Visconte o Sculdascio, decano, o qualsivoglia piccola o grande persona del nostro regno osi penetrare investendosi di potere nelle loro case o prenda dimora o tenti di compiere offesa o molestia, ma sia consentito a quelli di vivere pacificamente e quietamente…
Se qualcuno dunque avrà tentato di rompere o violare la norma di questa nostra conferma per qualsiasi intento, sappia che dovrà versare mille libbre d’ ottimo oro, la metà alla nostra camera e la metà ai predetti uomini e ai loro eredi o proeredi.
Affinché ciò sia più veramente creduto e più diligentemente osservato da parte di tutti, dandovi vigore con le nostre proprie mani, abbiamo ordinato che sia impresso con il sigillo del nostro anello.
Le firme dei serenissimi re Berengario e Adalberto.
Il cancelliere Uberto ha sottoscritto per ordine dei re.
Dato il xv giorno delle calende d’agosto, nell’anno 958 dell’Incarnazione del Signore, ottavo di regno dei re Berengario e Adalberto, nella prima indizione.
Redatto in Pavia felicemente nel nome del Signore.”
(Cit. passi scelti e tratti dal Diploma stesso il cui originale è conservato presso l’archivio di Stato).
Prima ancora che sorgessero i Comuni “gli abitanti di Genova” vengono riconosciuti giuridicamente come tali, addirittura senza l’intervento del Vescovo (che sarà invece determinante nell’istituzione della Compagna).
I Re si riservano gli atti giudiziari ma riconoscono il diritto consuetudinario genovese.
I Genovesi si consideravano sudditi del “regnum in terra” ma assolutamente liberi in quello del mare, per il quale non hanno bisogno di riconoscimento o permesso alcuno.
Su queste basi otterranno poi, con diplomatica perizia, ulteriori e più ampie autonomie dai successivi Sovrani… fino al “superbo” e leggendario “Abbiamo già dato” pronunziato in faccia dell’ imperatore Federico Barbarossa…
ma questa è un’altra storia.
 

Storia di due grandi ammiragli…

… dell’eterno dilemma tra il senso del dovere e la patria… tra l’etica gerarchica e quella individuale….
Nell’anno del signore 1435 Genova è sotto l’influenza della famiglia milanese dei Visconti.
Così i genovesi, per conto di Filippo Maria, combattono in mare con i propri valorosi ammiragli i temibili aragonesi.
Mentre Francesco Spinola è impegnato nella difesa di Gaeta, Biagio Assereto, partito in suo soccorso, incrocia di fronte a Ponza la flotta catalana superiore per numero, quindi baldanzosa e sprovveduta perché certa della vittoria.
Invece il genovese infligge loro una sconfitta umiliante e clamorosa utilizzando la consolidata tattica di inserire una parte delle forze nella mischia in ritardo.
Vengono fatti prigionieri il Re, due suoi fratelli e numerosi principi e baroni, il gotha della nobiltà catalana.
Il faraonico bottino viene spartito per ordine dell’ammiraglio, che nulla tiene per se, fra i suoi ufficiali e marinai.
Genova, orgogliosa, festeggia per tre giorni e tre notti l’incredibile vittoria e attende impaziente il rientro dei suoi coraggiosi marinai.
La notizia ha insolita risonanza in tutte le corti d’Europa ma, a sorpresa, il Visconti da ordine che i prigionieri non vengano sbarcati a Genova, bensì a Savona per poi condurli direttamente a Milano.
Le vie della politica sono assai contorte, poco inclini alla gloria e più sensibili agli aspetti concreti; senza alcun consulto con Genova, i nobili aragonesi, Re Alfonso compreso, vengono liberati in cambio di un congruo riscatto.
L’orgoglio genovese è ferito ma non basta perché a loro, ironia della sorte, viene ordinato di allestire una flotta per ricondurre gli aragonesi in patria.
Il vaso è colmo, Francesco Spinola, i nobili e il popolo insorgono, uccidono Opizzino d’Alzate, commissario milanese in città, costringono il suo successore Trivulzio, a rifugiarsi dentro al Castelletto e, dopo averlo assediato, radono al suolo la fortezza.
Agli occhi dei genovesi l’Assereto, ottemperando agli ordini dei milanesi, si sarebbe macchiato di tradimento (quando invece era corretto, in quanto militare, obbedire).
Vero è che in cambio ottenne l’investitura del feudo di Serravalle, il titolo di governatore di Milano e, soprattutto, l’inclusione nella famiglia stessa dei Visconti.
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“Monumento funebre di Francesco Spinola posto all’ingresso del Palazzo Spinola in Pellicceria, oggi Galleria Nazionale”.


I Capitani della Libertà, fra cui lo stesso Spinola, dispongono l’arresto dei suoi parenti e la confisca dei beni.
Le vicende dell’Assereto seguiranno il destino dei milanesi ai quali si legherà sempre più saldamente prestando il proprio operato anche presso gli Sforza, ma non per questo va dimenticata la sua perizia militare marittima.
Di contro lo Spinola continuerà la sua attività di uomo di mare senza però mai ottenere i successi e raggiungere la fama del rivale.
La figura di Biagio Assereto compare sul prospetto di San Giorgio fra i sei grandi della Patria.
Sulla tomba presso la chiesa di Serravalle in cui è sepolto l’eroe di Ponza, è inciso un laconico: ” Biagio Assereto, generale delle galee della Serenissima Repubblica di Genova, fece prigionieri due Re, un infante e trecento cavalieri.
Morì l’anno 1456″.
Allo Spinola invece, già da quattordici anni passato a miglior vita, non bastò il suo amor patrio per ottenere cotanto onore.
Il fiero condottiero osserva sospettoso, dall’alto della sua rappresentazione equestre nell’atrio della Galleria di Pellicceria, gli ignari visitatori che varcano la sua dimora.

 

Storia di una contesa…

d’onore e di una Chiesa… ormai dimenticata…
Non è la Cattedrale, né S. Agostino, né San Matteo e nemmeno Santo Stefano, bensì Santa Maria in Via Lata, la chiesa gentilizia dei Fieschi.
Costruita nel 1340 a bande bianco nere, marmo di Carrara e ardesia, come nella miglior tradizione del gotico genovese ospitò, come l’attiguo Palazzo, illustri personaggi quali Re Luigi dodicesimo e Papa Paolo terzo.
Il Palazzo dei Fieschi, ritenuto il più sfarzoso della città, venne abbattuto per decreto del Senato, in seguito alla fallita congiura contro i Doria del 1547.
Demolito il palazzo, esiliati i membri della casata, la chiesa, ripulita da stemmi, lapidi ed epigrafi che ne ricordassero le gesta, venne preservata.
A causa di un diverbio dovuto al ritardo dell’inizio di una funzione religiosa a loro imputato, i Sauli vennero invitati dai Fieschi a non presentarsi più nella loro chiesa.
Bandinello Sauli, offeso da tale allontanamento, promise che avrebbe costruito, per tutta risposta, la più grande Basilica che Genova avesse mai visto, la vicina Basilica di Santa Maria Assunta di Carignano.
Nel 1858 cessò la carica dell’ultimo abate dei Conti di Lavagna, il campanile venne abbattuto e, da allora, l’edificio ha subito innumerevoli danni, passaggi di mano e peripezie.

Oggi, sconsacrato, ospita un laboratorio di restauro a pochi passi da Salita San Leonardo che, nel ‘600 fu la sede della Bottega dei Piola, dinastia di artigiani e pittori, insuperati maestri del Barocchetto genovese.

Storia di un Generale… di un Poeta…

e di… un Camallo…

Nel 1915 lo scultore Eugenio Baroni concepisce il famoso Monumento di Quarto dedicato all’impresa dei Mille e all’Unità d’Italia.

"I nomi dei mille scolpiti per l'eternità".
“I nomi dei mille scolpiti per l’eternità”.

Il discorso di inaugurazione è tenuto da G. D’Annunzio che strumentalizza il coraggio dei Liguri e le virtù delle camicie rosse per promuovere l’ingresso in guerra dell’Italia.

"L'inaugurazione del 1915 alla presenza di Gabriele D'Annunzio".
“L’inaugurazione del 1915 alla presenza di Gabriele D’Annunzio”.

La scultura rappresenta un muscoloso Garibaldi nell’atto di scrutare, all’orizzonte, la Libertà.
Vicino a lui i suoi soldati, nudi, pronti alla morte perché protetti dall’angelo della Gloria.
Per meglio rendere il concetto della forza d’insieme della scena, viene scelto come modello per il Generale, il camallo Bartolomeo Pagano, l’imponente futuro Maciste cinematografico.
Nel 2010 sullo scoglio di Quarto, per celebrare i 150 anni dell’impresa e della futura Unità d’Italia, viene issato il Tricolore e ricordata la data del 5 maggio 1860 composta con tutti i nomi dei Mille partecipanti alla spedizione.

 

Nei quartieri…

dove il sole del buon Dio non da i suoi raggi… Storia di un famigerato quartiere…
Da tempi remoti fino al 1350, quando venne inglobato nella cinta muraria, il Borgo di Prè era solo un piccolo agglomerato di casupole e chiese di pellegrini lungo la via verso il ponente.
Secondo alcuni l’origine del nome deriverebbe proprio dal fatto che fosse fuori le Mura e quindi noto come contrada dei prati.
Per altri invece l’etimo risalirebbe alla spartizione del bottino da parte dei Capitani di Galea, detti Predoni, al rientro nell’antistante Darsena:
“Burgus de praedis” così veniva infatti identificato negli antichi atti notarili (i cartolari genovesi costituiscono i più antichi testi d’Europa).
Per altri ancora invece, il nome si assocerebbe all’uso militare di tutta l’area adiacente al Vastato (attuale Nunziata, dove un tempo si esercitavano i Balestrieri) detta appunto “Prae castra” (davanti ai campi).
Il Borgo si inerpicava attraverso ripide creuze, costellate di case di legno, fino al Montegalletto e a Pietraminuta (attuali castello D’Albertis e Corso Dogali).
Nel 1606 con il tracciato della grandiosa Via Balbi i campi vennero espropriati, le creuze interrotte, le chiese demolite e l’intero assetto rivoluzionato.
Le costruzioni di Piazza Caricamento prima e Via Gramsci poi, daranno il definitivo carattere
di Via stretta fra la ferrovia portuale e il quartiere universitario.
Territorio conteso nei decenni dalla malavita organizzata per i propri loschi traffici e luogo di piacere per i marinai di mezzo mondo.
Via Prè presenta numerose meraviglie quali, fra le tante, la celebre e omonima Commenda, il Palazzo Reale e i truogoli di Santa Brigida.
I truogoli di Santa Brigida. Foto di Leti Gagge.
 

Storia di un monumento…

… voluto contro tutto e tutti…
Nel 1919 il quartiere di S. Vincenzo volle erigere un monumento alla memoria dei suoi figli eroicamente caduti durante la Prima Guerra Mondiale.
Il concorso indetto venne vinto da un giovane sconosciuto, tal Francesco Messina, che sarebbe poi diventato il più importante scultore italiano del secolo.La città intera si mobilitò per raccogliere i fondi necessari e molti dei principali artisti genovesi, Govi compreso, aderirono devolvendo una parte degli introiti dei loro spettacoli.
Le autorità che avevano in mente l’arco di Piazza della Vittoria come unico sacrario cittadino, si opposero fermamente all’installazione.
Il comitato dei cittadini lo fece lo stesso collocare, benedetto dai frati della vicina S. Anna.
Il Prefetto fece allora rimuovere il gruppo bronzeo trasportandolo nel cortile di Palazzo Rosso.
La reazione popolare fu talmente indignata che il monumento venne rimontato in Piazza Villa con tanto di onori militari e presenza delle Autorità.
La Piazza prende il nome dal partigiano Goffredo Villa, membro dei Gap, torturato e fucilato dai fascisti, presso il Forte di San Giuliano, nel 1944.
Proprio dove un tempo sorgeva il Castelletto, simbolo dell’oppressione straniera, nella Piazza intitolata ad un Partigiano, campeggia il Monumento della Libertà…
Per NON dimenticare MAI!
 

Storia di un Ammiraglio…

… di un Boia… di Balestrieri…
In epoca medievale le esecuzioni capitali venivano eseguite sulla scogliera del Molo dove le Guardie approntavano il palco per l’impiccagione.
I condannati partivano dal Palazzetto Criminale (attuale Via Reggio), attraversavano la città diretti alla chiesa di S. Marco al Molo, dove assistevano alla messa.
Prima però transitavano, per un’ ultima sosta presso quella che, ai genovesi, è nota come la Casa del Boia, datata XI secolo.

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“La Casa del Boia”
“I resti della dimora di Vipsanio Agrippa”.

In realtà l’edificio era molto più grande di quello visibile oggi, aveva un paio di piani ed arrivava ad inglobare l’attuale Caserma della Finanza di Piazza Cavour.
Ad inizio del secolo scorso scavi della Sovrintendenza in zona, portarono alla luce resti romani e una targa intitolata a Vipsanio Agrippa, genero e Ammiraglio dell’imperatore Augusto.
Di qui l’equivoco che la Casa del Boia fosse la dimora del condottiero romano, mentre in realtà, questi avrebbe abitato all’attiguo odierno Civ. 13 di Piazza Cavour, dove nei fondi furono rinvenute pavimentazioni di epoca imperiale.
Da Vipsanio a Pisano, per storpiatura, si sarebbe anche fatta risalire l’origine del Campo sovrastante.

Quest’ipotesi venne smentita quando, durante i lavori di ripristino del risseu, in occasione delle Colombiadi, vennero trovati migliaia di resti umani a conferma che quello invece, come tramandato nei secoli, era il Cimitero dei prigionieri pisani catturati nel 1284, dopo la Meloria.
La Casa del Boia ospita oggi un’esposizione di armi medioevali ed è la Sede della Corporazione dei Balestrieri, protagonista di diverse iniziative e manifestazioni in costume.