… Quando c’erano le carceri di S. Andrea…

Quando prima dell’edificazione di quello di Marassi avvenuta nel 1902, quello di S. Andrea, sito sull’omonimo piano nei pressi di Porta Soprana,  è stato per tutto l’800 il principale carcere cittadino.

Fu edificato sui terreni di un Monastero benedettino risalente al XII sec. sopra la collina che poi, nel secolo successivo, sarà sbancata per far spazio all’attuale palazzo in stile liberty della Borsa.

“Il Campanile dlla scomparsa chiesa di S. Andrea prima della demolizione avvenuta nel 1910”.

A decretarne la trasformazione fu Napoleone nel 1810 che ritenne insufficienti e carenti le strutture del Palazzetto Criminale e della Torre Grimaldina, le storiche prigioni della Repubblica.

… Quando c’era il Ristorante S. Pietro…

Quando alla Foce, nei pressi delle case dei pescatori c’era il ristorante San Pietro. Raffinato esempio di costruzione razionalista progettata fra il 1935 e il 1938  dall’architetto Mario Labò.

Davanti si erge la statua del Navigatore dello scultore Morera che, inaugurata anch’essa nel 1938, sembra scrutare l’orizzonte in attesa dell’arrivo degli avventori del locale.

“Il Ristorante con annesso bar San Pietro”.

Quando, per far spazio alla nascente sopraelevata con relativa rampa d’accesso, venne in parte demolito nel 1965.

In origine era infatti lungo circa il doppio della versione mutila e rimaneggiata di cui ancora oggi resta traccia. Terminata la sua funzione ristoratrice venne convertito negli anni ’90 in uffici e poi in un casotto per distributore di benzina.

Lontani i tempi in cui davanti erano parcheggiate le fuoriserie e le sue eleganti sale erano frequentate dalla ricca borghesia genovese.

“Suggestiva vista mare”.
“La terrazza riparata dagli ombrelloni”.

Oggi, dopo un periodo di triste abbandono, per lo meno funge da centro di prima accoglienza per gli extracomunitari.

I Biscotti del Lagaccio…

Dagli archivi della Repubblica si evince che I biscotti del Lagaccio nacquero nel 1593 in un antico forno nelle vicinanze del bacino artificiale omonimo creato qualche decennio prima per volere di Andrea Doria. L’ammiraglio infatti necessitava di molto acqua per irrigare i giardini, i frutteti e le fontane della sua principesca dimora.

Nel secolo successivo in zona la Repubblica vi impiantò una polveriera per la fabbricazione, appunto, di polvere da sparo. Processo che necessitava anch’esso di copioso approvvigionamento idrico.

Sia il popoloso futuro quartiere che il gustoso biscotto nel ‘600 presero il nome dal toponimo dispregiativo che assunse, per via delle sue torbide e pericolose acque nelle quali affogarono diverse persone, il lago, definito appunto “U Lagasso”, il Lagaccio.

I bescheutti do Lagasso in origine erano delle semplici fette di pane, molto simili alle gallette del marinaio, biscottate bis- cotte, appunto cotte due volte, per facilitarne il processo di deumidificazione, caratteristica fondamentale richiesta dai marinai per meglio conservarle durante i viaggi in mare.

Con l’aggiunta di aromi o liquore all’anice (da qui anche gli anicini), burro e zucchero questi biscotti hanno trovato nel secolo scorso adeguata collocazione nell’ambito della tradizionale pasticceria secca mentre nel basso Piemonte si sono diffusi nella variante più leggera di biscotti della salute, più adatti alla prima colazione.

Ancora oggi i biscotti del Lagaccio costituiscono un prodotto tipico confezionato da diverse aziende alimentari locali molto apprezzato dai consumatori.

In copertina: foto di Cinzia Morasso.

… Quando c’era il lago del Lagasso…

il bacino artificiale voluto dall’ammiraglio Andrea Doria intorno al 1540 per irrigare i giardini della sua prestigiosa villa

quando nel 1652, nelle sue vicinanze fu installata una fabbrica di polveri da sparo per rifornire le munizioni della Repubblica.

Il lago assunse il suo dispregiativo toponimo , “U Lagasso”, in genovese, già nel Seicento per via del suo torbido colore e dell’aspetto sinistro che assunse col tempo.

quando la polveriera, ampliata nel 1835, fu poi trasformata in caserma militare e sul lago ghiacciato d’inverno i bambini vi andavano a pattinare e d’estate a rinfrescarsi. Numerose, secondo le cronache, furono le vittime per annegamento.

quando diede il nome a partire dal 1593 anche al celebre omonimo biscotto che un piccolo forno produceva in loco e, più tardi, anche ad un intero quartiere.

quando negli anni ’70, dopo l’ennesima disgrazia, venne interrato e al suo posto edificato un campo da calcio intitolato a Felice Ceravolo l’ultima dodicenne vittima delle acque limacciose del lago.

Storia di un Palazzo… di un Ponte… di un Re… di un risseu..

… di una chiesa scomparsa… di un mobiliere… di dipinti di Van Dyck…

In una città che re e principi né ne ha mai avuti, né ne ha mai visti di buon occhio è quanto mai curioso che due dei principali musei siano a questi intitolati: Villa del Principe e Palazzo Reale. il Quest’ultimo in realtà si chiama Palazzo Stefano Balbi dal nome del facoltoso mecenate che lo fece, insieme all’omonima strada, costruire nella prima metà del ‘600.

La lussuosa dimora venne poi acquistata nel 1679 da un’altra nobile famiglia, quella di origine albanese, dei Durazzo che diedero incarico al prestigioso architetto Carlo Fontana, di ristrutturarla nella versione in cui, grosso modo, la possiamo ammirare ancora oggi.

“Il monumentale cortile lato giardini”.
“l’atrio in primo piano”.

Divenne Reale solo nel 1823 quando subentrarono i Savoia, nuovi indigesti signori della città dopo il frustrante Congresso di Vienna del 1815, che la elessero a loro residenza cittadina. Nel 1842 la famiglia reale incaricò lo scenografo genovese Michele Canzio di trasformare alcuni ambienti, come le sale del Trono e delle Udienze e il salone da Ballo, per adattarle alle nuove necessità di rappresentanza.

“Il Ponte Reale e la Darsena ad inizio ‘900”.

Fu allora che fu eretto, nella parte a mare, il Ponte Reale che, scavalcando la strada carrabile ( Via Carlo Felice, oggi via Gramsci),

“Resti dell’antica chiesa di San Vittore”.

permetteva ai Savoia di raggiungere, lontano da occhi indiscreti e al coperto, direttamente l’imbarcadero del porto. Il Ponte per la cui costruzione era stata demolita parte dell’attigua e secolare chiesa di S. Vittore, fu abbattuto nel 1964 in occasione della costruzione della sopraelevata.

Una parte della chiesa chiusa al culto venne inglobata nelle strutture del Palazzo Reale e una parte sacrificata per l’artificiosa creazione di Piazza dello Statuto. La navata destra fu invece immolata per l’allargamento di Via Carlo Alberto (1831-39), odierna Via Gramsci.

“Figuranti in costume in occasione delle giornate dei Rolli”.
“Sala del Trono”.
“Trono e Corona”.

Entrambi i lati mutili sono stati “mascherati con facciate posticce di stile ottocentesco ancor oggi visibili mentre gli interni superstiti sono stati ristrutturati per ospitare locali del Palazzo Reale ed una caserma della Guardia di Finanza, da tempo trasferitasi altrove. Di originale a ricordarci del tempio scomparso e dell’abuso commesso rimane solitario il campanile che svetta fra i tetti e vigila sui giardini.

Gli arredi e le opere d’arte, come la celebre Madonna della Fortuna, vennero trasferite nella vicina S. Carlo che ne assunse anche il titolo chiamandosi da allora Chiesa di San Carlo e San Vittore.

Nel 1919 i Savoia donarono il palazzo allo Stato e venne così istituito il museo della galleria nazionale.

“Nel cortile carrozza dei Reali con impresso lo stemma sabaudo”.

Varcato l’imponente portale si accede al cortile con l’arco di trionfo che separa il bel giardino pensile affacciato sulla Darsena del porto.

“Spettacolare immagine dall’alto del risseu”.

Assai particolare è il mosaico della pavimentazione in risseu proveniente dal distrutto Monastero delle Monache Turchine che si trovava sotto Corso Carbonara e Largo della Zecca. Come testimoniato da apposita lapide il risseu è stato risistemato da Armando Porta lo stesso splendido artista che avrebbe restaurato quello di Campo Pisano.

“La lapide che ne ricorda la provenienza”.
“Una preziosa Secretaire di Peters”.

Al suo interno il Palazzo Reale conserva i mobili originali di tutta la sua secolare storia ed include mobili genovesi, piemontesi e francesi della metà del XVII secolo fino all’inizio del XX secolo. Tra questi meritano particolare menzione quelli del celebre ebanista britannico Henry Thomas Peters. L’artista aprì infatti a Genova un laboratorio proponendo il suo stile moderno e all’avanguardia. La sua raffinata produzione marchiata a secco “Peters Maker Genoa” divenne un tratto distintivo imitato per decenni dai mobilieri locali.

Fra i numerosi e pregevoli affreschi sono da ricordare “La fama dei Balbi” di Valerio Castello e Andrea Seghizzi,” La primavera che spinge lontano l’inverno“ di Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli e “Giove che manda giustizia sulla Terra” di Giovanni Battista Carlone.

Nelle sale dei due piani nobili sono inoltre esposti circa 200 dipinti dei migliori artisti genovesi del Seicento come Bernardo Strozzi, il Grechetto, Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccio, Domenico Fiasella insieme a capolavori di Bassano, Tintoretto, Luca Giordano,  Simon Vouet, Guercino e Antoon Van Dyck del quale si possono ammirare due capolavori assoluti: il “Ritratto di Dama” e il “Crocefisso”.

“Ritratto di Caterina Balbi di Van Dyck”.
“Il Crocifisso di Van Dyck”.

Adeguato risalto e spazio viene anche dato alla scultura grazie alla presenza di opere di Filippo Parodi, uno dei massimi esponenti della scultura barocca genovese.

“Elegante portantina reale”.

Il Museo, aperto al piano nobile, presenta una serie di eleganti ambienti decorati e arredati nel Settecento dalla famiglia Durazzo. Appartengono al XVIII secolo la Galleria degli Specchi, la Sala di Valerio Castello (il pittore autore degli affreschi) e la Galleria della Cappella. Risalgono invece all’epoca dei Savoia la Sala del Trono, la Sala delle Udienze, il Salone da Ballo.

“Prezioso e raffinato vasellame”.
“Camera da letto del Re”.
“Sala delle Udienze”.
“Lampadario e soffitto della sala delle Udienze”.
“Sfarzosi arredi e interni laccati”.
“Mobilio e specchio”.
“La Galleria degli Specchi”.
“Soffitto della Galleria degli Specchi”.

La galleria degli Specchi in particolare costituisce veramente un gioiello di eleganza e sfarzo in cui spiccano quattro statue (Giacinto, Clizia, Amore o Narciso, Venere) di Filippo Parodi e un gruppo marmoreo (Ratto di Proserpina) di Francesco Schiaffino.

“Il trionfo di Bacco di Domenico Parodi”.
“Le ancelle preparano Venere”. Domenico Parodi.

Fatta costruire dai Durazzo decorata a fresco 1730 da Domenico Parodi con statue romane e affreschi metaforici sulle virtù e sui vizi. Sullo sfondo risalta il “Ratto di Proserpina” di Francesco Schiaffino.

“la statua del Ratto di Proserpina di Francesco Schiaffino”.

… Quando c’era la Job…

Quando a Nervi in Via Donato Somma c’era lo stabilimento che confezionava le cartine Job particolarmente apprezzate dai  fumatori per la loro caratteristica di bruciare più lentamente rispetto alle altre. Da qui la Job si trasferì sempre nel quartiere di Nervi in Piazza Duca degli Abruzzi nella struttura oggi riconvertita in stazione di polizia.

” Luogo corrispondente all’antico stabilimento”. Segnalazione di Luca Arvigo.
“La sede in Piazza Duca degli Abruzzi convertita in stazione di Polizia”.
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“Sul cancello in ferro battuto è ancora presente il logo della Job”.

Al suo posto s’insediò prima la fabbrica di caramelle Galenia S. A che ebbe anche l’onore di ricevere il Duce durante una delle sue visite genovesi e, negli anni ’50/60, il premiato Pastificio Cassanello.

I solidi contorni del condominio che lo hanno sostituito ne custodiscono il labile ricordo.

“La Grotta ritrovata del Principe”…

Era prassi consolidata nei giardini privati delle ville patrizie di costruire grotte artificiali e ninfei con giochi d’acqua e fontane.

I nobili le commissionavano, ad imitazione delle antiche domus romane, per trascorrervi qualche momento di sollievo al riparo dalla calura estiva o per immergersi in solitaria lettura accompagnati dal bucolico scorrere delle acque. Spesso le nobildonne vi si intrattenevano con le dame di compagnia mentre si dedicavano ai loro passa tempo preferiti.

A Genova questa moda di costruire caverne artificiali ebbe gran successo ed è per questo che se ne possono ammirare ancora diversi esemplari: quella di Villa Pallavicini a Pegli, di Palazzo Lomellino in Via Garibaldi o quella di Palazzo Balbi Senarega, decorata quest’ultima con statue in stucco, marmi e conchiglie.

Di certo la più celebre rimane però quella del giardino settentrionale della Villa del Principe (Palazzo Doria), realizzata da Galeazzo Alessi a metà del Cinquecento..

Citata addirittura dal Vasari nell’elenco delle opere del capitolo sulla vita dell’Alessi risulta essere oltre che la più antica grotta genovese, senza dubbio la più spettacolare e affascinante, con una vicenda assai travagliata da raccontare.

Venne infatti commissionata a metà ‘500 al celebre architetto perugino da un certo “Capitan Lercaro”, membro di una famiglia di luogotenenti di Andrea Doria, i Doria Galleani, che abitavano nella vicina – e perduta – villa del Gigante proprio nei pressi del luogo dove dal 1566 sorgeva l’omonima statua dell’ammiraglio.

La villa e il terreno con relativa grotta vennero acquistati nel 1603 da Giovanni Andrea Doria ed entrarono così a far parte del parco della Villa del Principe.

Ma a causa del progressivo inurbamento della sovrastante collina nei secoli passati fu dimenticata e trascurata. Già lo storico ottocentesco Federico Alizeri ne denunciava allibito il degrado, descrivendola come deposito di fascine dei contadini della zona.

Ad inizio Novecento fu addirittura trasformata nella cantina di un condominio, danneggiata poi  durante un bombardamento durante la seconda guerra mondiale, fu riscoperta negli anni Ottanta (1984) grazie alla determinazione del prof. Lauro Magnani. Questi, nella speranza che esistesse ancora e conoscendo la sua ubicazione originale, prima di trovarla, girò il nuovo quartiere sorto in quell’area alla disperata ricerca d’informazioni, finché ottenne notizie e riscontri da un’ignara condomina proprietaria, senza saperlo, della secolare grotta nascosta nella sua cantina.

Lo studioso si adoperò perché le istituzioni si attivassero per salvaguardare quell’incredibile patrimonio storico e artistico non riuscendo, a causa della mancanza di fondi e del disinteresse della burocrazia, nel suo nobile intento.

“L’ingresso alla grotta inglobato nel palazzo”. Foto di Emiliano Beri.
“L’ingresso alla grotta”. Foto di Emiliano Beri.
“Particolari delle decorazioni della volta”. Foto di Emiliano Beri.
“Ancora dettagli della copertura”. Foto di Emiliano Beri.
“Spettacolari rappresentazioni marine”. Foto di Emiliano Beri.

Chi la dura la vince e per fortuna il professore salvò il tesoro convincendo nel 1999 la famiglia Doria Pamphilj ad acquisire l’appartamento a cui era legata la proprietà della cantina-grotta che oggi è visitabile, previa prenotazione, nell’ambito dei percorsi guidati del Palazzo del Principe.
Dietro al Miramare varcato un piccolo cortile si apre davanti alla favolosa grotta: pianta ottagonale, pavimento in marmi policromi. Alle pareti non c’è limite alla fantasia dei mosaici polimaterici, con cui si realizzano temi classici: cristalli, coralli, tessere di maiolica colorate e migliaia di conchiglie di ogni forma e tipologia. Non c’ è uno spazio liscio, intorno. Le figurazioni del Nilo, del Tevere, come vecchi dal cui otre sgorgano le acque. L’intera superficie della grotta, tranne i pavimenti rivestiti di marmo, è incastonata di decorazioni in conchiglie, coralli, tessere di maiolica, ciottoli, cristalli e frammenti di stalattiti naturali: un mosaico composto in più materiali di eccezionale ricchezza, che riesce a mescolare natura ed artificio donando all’intera grotta un aspetto acquatico. Sul fondo, si apre la grotta naturale, con stalattiti e stalagmiti dove dal 1550 sgorga ancora l’acqua, attinta chissà dove, e canalizzata, chissà come, fino a qui. Originalmente, sulle figure di coralli e pietre scendevano rivoli d’acqua che tintinnavano. Adesso l’effetto è perduto. Il vano è chiuso, in alto, da una cupola a spicchi: sono rappresentate figure mitologiche legate a Nettuno (rappresentazione metaforica di Andrea Doria).

“Brani di mosaico”. Foto di Emiliano Beri.
“Decorazioni marittime”. Foto di Emiliano Beri.
“Figure mitologiche”. Foto di Emiliano Beri.

Questo anche perché l’acqua, nella grotta, scorre davvero sulla superficie della profonda nicchia aperta sul lato di fronte all’ingresso, mentre anticamente stilava dall’alto nei bacini posti sotto le varie nicchie minori. Tutti gli episodi rappresentati sulle pareti della grotta sono di soggetto e ambientazione marina: Polifemo sullo scoglio, Galatea sulla conchiglia trainata dai delfini, il rapimento di Europa, Nettuno sul cocchio, Perseo mentre uccide il mostro marino che minaccia Andromeda, Peleo e Teti e il rapimento di Deianira.

Un mondo meraviglioso in cui i gli eroi qui rappresentati come direbbe Platone  …” se uscissero dalla caverna e vedessero le cose alla luce del sole si renderebbero conto di aver vissuto in un mondo di apparenze”.
(Il mito della caverna)

“La caverna naturale da cui sgorgava l’acqua”. Foto di Emiliano Beri.
“Mosaici e decorazioni”. Foto di Emiliano Beri.
“Brani di scene mitologiche”. Foto di Emiliano Beri.

… Quando c’era la Bocciardo…

Quando, di fronte allo stadio Luigi Ferraris, c’era la conceria di cuoi e pellami Bocciardo fondata nel 1861 da Sebastiano Bocciardo.

Ormai dismessa venne acquistata nel 1977 dal Comune di Genova che  il 1/9/97, dopo un ventennio di dibattiti e incertezze sul futuro impiego dell’area, la fece demolire.

“La Bocciardo negli anni ’80”.

Furono necessarie 850 cariche per un totale di oltre 130 kg di esplosivo applicate alla base dei piloni e in punti strategici per far accartocciare l’imponente, circa 60000 metri quadri, la struttura su se stessa.

Quando alle 18 e 14 in punto gli artificieri la fecero implodere cancellando definitivamente un pezzo di storia dell’imprenditoria genovese.

… Quando le chiese di S. Stefano erano due…

Quando nella seconda metà dell’ottocento non c’era ancora Via XX Settembre per la cui costruzione, a fine secolo, vennero demolite alcune cappelle della chiesa di S. Stefano.
Quando per l’allargamento ed il raddrizzamento della sede stradale fu sacrificata l’ala della chiesa prospiciente via XX Settembre che già era più piccola di quella opposta.

Quando sotto l’appassionata direzione dell’architetto Alfredo D’Andrade vennero ricostruiti sia la balconata antistante che il sottostante porticato.

Quando i lavori per lo smantellamento della Porta degli Archi avevano danneggiato le fondamenta della chiesa che di lì a poco sarebbe divenuta pericolante. Nonostante il tentativo di restauro da parte del celebre portoghese la chiesa fu di conseguenza dichiarata inagibile.

“Primo piano delle due chiese”. Cartolina tratta dalla Collezione di Stefano Finauri.

Quando si stabilì di lasciarla comunque al sul posto e di edificarle a fianco una nuova chiesa costruita anch’essa in stile romanico.

Quando inaugurata nel 1908 ebbe vita breve perché nel 1912 il crollo di una parte della vecchia chiesa danneggiò la nuova, rendendo anch’essa inagibile.

Quando, a completare l’opera, distruggendole entrambe, si adoperarono poi le bombe della seconda guerra mondiale.

“S. Stefano oggi”. Foto di Leti Gagge.

Fu il Cardinale Siri nel dopoguerra a volere la ricostruzione della primitiva chiesa romanica i cui lavori, iniziati nel 1946 si conclusero con la consacrazione avvenuta l’11 dicembre 1955.

Sul Passo del Faiallo…

Dall’alto della montagna

osservo l’incantevole contrasto

fra il verde chiaro delle colline

e il blu cobalto del mare.

Il panorama è illuminato e riscaldato

da un sole esanime ma generoso

di fine estate

che si fa largo lottando fra le nubi.

Un attimo dopo quel che era non è più:

le impetuose correnti provenienti da ponente

spazzano via tutto e quel solare paesaggio

“In poco tempo il paesaggio viene avvolto dalle nubi”.

improvvisamente è ammantato da una melanconica nebbia.

Prima vedevo chiara ogni cosa,

ora non scorgo più niente.

Forse solo le sagome e sento la nebbia

che mi avvolge in una fiaba

come se cercasse di rapirmi.

Forse è solo la mia fantasia.