Il Presepe In Santa Caterina di Portoria

Provenienti dal convento dei Cappuccini di Sarzana nell’auditorio della chiesa genovese di Santa Caterina di Portoria è esposto un antico e splendido esempio dell’arte presepiale della nostra città.

Accanto a pregevoli sculture settecentesche come quelle del corteo dei magi se ne affiancano altre di origine e fattura più modesta, intagliate dagli stessi cappuccini verso la fine del XIX secolo.

L’idea ispiratrice di questo presepe è il concetto di “luce”. La scena in bianco e nero che rappresenta anche il contrasto fra il bene e il male è illuminata dalla nascita di Gesù avvolto di contro una luce potente; davanti a lui è raccolta tutta l’umanità attraverso alcune figure rappresentative. In primo piano, troviamo i personaggi che si sono già lasciati illuminare, fra cui due persone di diverso colore che si accolgono reciprocamente. Più indietro un gruppo di soldati e la folla, intenta alle attività futili della vita. La figura del mendicante, caratteristica del presepe genovese, contrasta con lo sfarzo del magnifico corteo dei Re magi. I due magi bianchi sono presentati già in adorazione, mentre il mago moro è ancora in cammino con il suo ricco seguito.

Infine ma non ultima un’altra peculiarità rende unico questo presepe: la singolare rappresentazione della natività che non prevede la Sacra Famiglia al completo ma solo il Divin Bambino.


Il Presepe di cera

Si tratta senz’altro, custodito presso l’Accademia Ligustica delle Belle Arti, di uno dei presepi più particolari della città. Particolare sia per via delle sue minuscole dimensioni che per il materiale, la cera, con cui è realizzato.

Una miniatura talmente delicata e preziosa da essere stata inizialmente creduta in avorio come risulta dall’inventario del 1874 anno in cui il collezionista Antonio Merli la donò all’Accademia-

Autore di questo prodigio di raffinata tecnica è l’artista bavarese di origine italiana Johann Baptist Cetto ( 1671 – 1738) specializzato nella rappresentazione di scene sacre tratte dalla Bibbia.

Le minuscole statuine in rilievo (mm 84 x 62 x 16) sono racchiuse in una raffinata ed elegante cornice d’ebano e filigrana d’argento.

La Grande Bellezza…

“… andò a stare a Genova…”

“Da parecchio tempo eravamo intesi con l’amico Doro che sarei stato ospite suo. A Doro volevo un gran bene, e quando lui per sposarsi andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia. Quando gli scrissi per rifiutare di assistere alle nozze, ricevetti una risposta asciutta e baldanzosa dove mi spiegava che, se i soldi non devono neanche servire a stabilirsi nella città che piace alla moglie, allora non si capisce più a che cosa devano servire. Poi, un bel giorno, di passaggio a Genova, mi presentai a casa sua e facemmo la pace. Mi riuscì molto simpatica la moglie, una monella che mi disse graziosamente di chiamarla Clelia e ci lasciò soli quel tanto ch’era giusto, e quando alla sera ci ricomparve innanzi per uscire con noi, era diventata un’incantevole signora cui, se non fossi stato io, avrei baciato la mano”.

Cit. Incipit da “La Spiaggia” di Cesare Pavese romanziere (1908 – 1950).

In copertina: il porto dal battello. Foto di Stefano Eloggi.

Piazza Sant’Elena

Senza nulla togliere allo scatto del fotografo vedere piazza Sant’Elena deserta a quelli della mia generazione fa un po’ impressione.

Infatti la piazzetta che deve il suo nome all’omonimo scomparso oratorio di Sant’Elena si affaccia su via Gramsci e dal secondo dopoguerra fino ai primi anni ’90 ospitava il frequentatissimo mercatino di Shangai dove si poteva trovare veramente di tutto, dall’abbigliamento all’elettronica, ai generi di contrabbando ed ogni altro tipo di merce.

Non bastano nei giorni di maggiore afflusso di avventori i tavolini dell’attigua trattoria dell’Acciughetta per lenire la nostalgia del passato.

Mentre scrivo mi sembra di ascoltare ancora il vivace e colorito proporre le proprie mercanzie e il contrattare dei venditori che animavano la piazzetta.

Momenti di vita quotidiana dell’angiporto immortalati anche in una scena in bianco e nero del film “Au dela des Grilles”, ovvero in italiano “le Mura della Malapaga” del 1949 di Renè Clement in cui alle spalle del protagonista Pierre interpretato da Jean Gabin un commerciante vende una saponetta ad un cliente.

Per fortuna gli allegri colori di alcuni edifici della piazza in contrasto con il grigio della pietra mantengono vivido lo sbiadito ricordo in bianco e nero del tempo che fu.

La Grande Bellezza…

In copertina Piazza Sant’Elena. Foto di Stefano Eloggi.

“La Superba è comparabile ad una bella donna…”

“Genova dovrebbe fungere d’intermediaria tra la Germania e l’Italia; è un passaggio dall’ideale al reale, da una vita d’immaginazione al benessere fisico. Non è più lo sfacelo e la negligenza di cui si è stati testimoni in molte parti d’Italia: tutto è pulito e ben costruito. Ma nulla è pittoresco, e gli occhi, ancora pieni dell’armonia di un colorito indefinibile e del tutto particolare al Sud, sono sgradevolmente colpiti alla vista dei colori sgargianti di cui ci si serve per dipingere le case, molto spesso variopinte di rosa, di verde, di giallo e di un certo bruno cannella dagli effetti orribili. Alla periferia, le case di campagna sono talmente fitte da formare una specie di sobborgo verdeggiante: tutto annuncia l’opulenza e la ricchezza di una città commerciale.

Genova la Superba è comparabile a una bella donna sprovvista di fisionomia: la si ammira ma più la si guarda, meno piace. Sarebbe difficile dare la spiegazione di questa impressione; la città è bella, i palazzi magnifici, il sito, senza essere pittoresco, è per lo meno rimarchevole, vi è molto movimento: ma è una vivacità puramente commerciale, non è più il regno dell’immaginazione e delle arti, tutto è calcolato e rivolto all’aspetto pratico della vita”.

Cit. DVoyage d’Italie, 1899. Anna Tyszkiewicz, nota anche come Anna Potocka (1776 – 1867), contessa e scrittrice polacca.

In copertina: palazzata del porticciolo di Nervi. Foto di Stefano Eloggi.

Santa Maria in Passione

Percorrendo la salita che costeggia sulla sinistra la Basilica di Santa Maria di Castello si giunge alla piazzetta di Santa Maria in Passione in cui si staglia l’omonima chiesa.

A 75 anni dalla fine del conflitto mondiale trovare dei ruderi e delle ferite così devastanti fa tuttora impressione.

L’edificio quattrocentesco costruito su pertinenze medievali degli Embriaci ospitava una comunità di monache agostiniane ed era parte di un più ampio spazio conventuale.

Nel ‘600 fu oggetto di una significativa ristrutturazione in chiave barocca che coinvolse alcuni degli esponenti più importanti fra gli artisti genovesi.

Purtroppo però gli affreschi di Valerio Castello, Gio Andrea Carlone, Lazzaro Tavarone e Domenico Piola, a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, sono andati perduti.

A vago ricordo della bellezza delle decorazioni rimangono le opere di Aurelio Lomi e Domenico Fiasella conservate presso la Soprintendenza e l’Istituto Arecco.

Con la soppressione napoleonica degli ordini religiosi la struttura venne utilizzata come stalla e solo a partire dal 1818, al tempo dei Savoia, recuperò la sua primitiva funzione ospitando le Canonichesse Lateranensi.

Ma le vicissitudini della chiesa non finirono qui poiché nel 1889, a seguito di una nuova soppressione degli ordini religiosi del Regno d’Italia, il complesso venne convertito in caserma per le guardie civiche prima, della Guardia di Finanza poi, dell’Omni (Opera nazionale maternità e infanzia) infine.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale la zona rimase completamente abbandonata fino al parziale recupero, in un più ampio progetto, dell’architetto Ignazio Gardella negli anni ’70.

Dal 2014 il sito archeologico di Santa Maria in Passione ospita nei suoi giardini il parco culturale urbano della Libera Collina di Castello, luogo d’incontro e scambio tra artigiani, artisti, studenti e residenti.

La chiesa sconsacrata e completamente sventrata è stata dotata, nella zona absidale, di una copertura posticcia per preservare dagli agenti atmosferici quel che resta degli antichi decori.

Rimane in piedi a ricordo di una storia da non dimenticare, il campanile ultimo testimone di quanto ho raccontato.

In copertina: Santa Maria in Passione. Foto di Stefano Eloggi.

San Marcellino

La chiesa di San Marcellino, sita nell’omonima piazza, guadagna il suo spazio senza tempo fra via del Campo e via Gramsci regalandoci inusitate atmosfere.

Come per altri edifici religiosi del litorale, legati all’ospitaggio delle crociate, si fa risalire la nascita della chiesa al IV sec. d. C.

Secondo la tradizione infatti una chiesuola, soggetta alla giurisdizione della cattedrale di San Lorenzo, fondata in quella contrada dal clero milanese in fuga dalla loro città invasa dai Longobardi, sarebbe già esistita da tempi remoti.

Nel 1023 il Vescovo Landolfo ne fa per la prima volta menzione scritta citandola fra le pertinenze dell’abbazia di San Siro.

Nel corso dei secoli successivi la chiesa, dopo i restauri voluti da Giovanni Battista Cybo, è rimasta nella sfera d’influenza della famiglia del futuro (con il nome dal 1484 di Innocenzo VIII) Papa.

L’edificio che non presenta né opere d’arte, né arredi di particolare pregio perse la sua originaria intitolazione a vantaggio dell’omonima chiesa costruita in forme moderne nel 1936 in via Bologna nel quartiere di San Teodoro.

Fu Don Luigi Orione a tentare di recuperarne nel 1939 il valore storico e l’antico spirito. L’intento era quello di farne un luogo d’incontro e assistenza per i marinai che sbarcavano nel porto proprio come avvenuto ai pellegrini e ai crociati nel millennio precedente.

Purtroppo l’imminente scoppio del conflitto mondiale vanificò il nobile progetto. L’idea di Don Orione non è andata comunque perduta perché sulle macerie fisiche e morali della guerra il sacerdote gesuita Paolo Lampedosa con l’appoggio appunto dell’Opera Don Orione istituì nella chiesa l’associazione “la Messa del Povero”.

Tale iniziativa si prefiggeva di aiutare poveri, profughi, sfollati e in genere tutti gli emarginati.

Dal 1988 l’associazione nel frattempo mutata in San Marcellino si è trasferita nella vicina via Ponte Calvi proseguendo la millenaria vocazione assistenziale dell’omonima chiesa.

La Grande Bellezza…

In copertina: Chiesa e piazza di San Marcellino. Foto di Stefano Eloggi.

La lunetta in Via Fiume 11r.

Persino nella moderna Via Fiume, un tempo località Bisagno Sottano, è possibile ammirare preziose testimonianze artistiche del passato.

E’ questo il caso del civ. n. 11r dove una volta aveva sede il celebre ristorante (oggi in Viale Brigata Bisagno 69r) Gran Gotto.

Qui, nella lunetta ricavata dal tamponamento della loggia, è ancora visibile un affresco secentesco raffigurante la Madonna col Bimbo, città, Lanterna e santi protettori della Repubblica.

La Grande Bellezza…

In copertina: la lunetta affrescata di Via Fiume. Foto di Franco Risso.

Mascherona

Percorrendo via e salita di Mascherona, nonostante i bombardamenti della seconda guerra mondiale che hanno devastato la contrada, si ha ancora la suggestiva sensazione di essere in pieno Medioevo.

La creuza mista di pietre e mattoni rossi, le tracce di cornici e di archetti dei palazzi dalle tinte pastello o a bande bianco nere con i tetti in ardesia conferiscono al luogo un indubbio fascino.

Incerta è l’origine del toponimo che pare derivi da una forma dialettale arcaica con la quale si delimitava questa zona in pendenza dalla collina di Castello alla chiavica. Quest’ultima scorreva a valle in corrispondenza dell’attuale via dei Giustiniani.

La salita costeggia il Conservatorio di Musica ricavato in quello che un tempo era l’antico monastero di N.S. delle Grazie e a fianco l’edificio che nell’ottocento ospitò il Liceo D’Oria.

Salita Mascherona era nota anche perché vi si trovavano un paio di frequentati teatri: il Edmondo Rossoni all’interno di un oratorio dismesso e, al civ. n. 9, il più celebre Podestà, noto anche come Teatro del Popolo, in voga fino al 1922.

In copertina: via di Mascherona. Foto di Leti Gagge.

In memoria del sacrificio di Lorenzo

In Carignano presso le Mura delle Cappuccine sul civ. n. 6 è affissa una lapide a ricordo di un dimenticato eroe della Resistenza.

L’ormai sbiadita lastra rammenta infatti la storia di Lorenzo De Negri giovane partigiano nato a Crocefieschi nel 1926 che, membro della brigata SAP “Bellocci”, morì qui in combattimento durante le concitate fasi della liberazione della città.

Come purtroppo tanti suoi coetanei, anche Lorenzo non ebbe dunque la possibilità di vedere Genova libera e a lui – come agli altri caduti – va il nostro pensiero e ringraziamento.

Recita l’epigrafe:

CON IL SACRIFICIO
DELLA SUA FIORENTE GIOVINEZZA
QUI
LORENZO DE NEGRI
UNO DEI TANTI
SUGGELLÒ CON IL SUO SANGUE
L’IDEALE SUPREMO
DI LIBERTÀ E GIUSTIZIA
21-8-1926   —   24-4-1945
“.

In copertina: La lapide al civ. n. 6 delle Mura delle Cappuccine.