Quando in Corso Saffi

Alcuni passanti osservano, all’altezza di Villa Croce in Corso Saffi, la potente quanto spettacolare mareggiata.

Al centro si riconosce il bastione della batteria della Strega e in lontananza s’intuisce il profilo della chiesa di San Pietro della Foce,

A monte, al posto della salita occupata oggi da Via Atto Vannucci, tratti delle antiche mura secentesche di Santa Chiara e sullo sfondo, ancora più in là, la collina di Albaro.

Vico alla Casa di Mazzini

Da Via Cairoli s’imbocca vico alla Casa di Mazzini che introduce in Via Lomellini al quattrocentesco Palazzo Adorno.

L’edificio nella versione odierna è frutto della ristrutturazione di metà ‘800.

Nel 1925 è stato dichiarato monumento nazionale e dal 1934 ospita la sede del museo del Risorgimento italiano perché fu – appunto – a partire dal 1794 la dimora natale dell’apostolo della Libertà.

La Grande Bellezza…

In copertina: Vico alla Casa di Mazzini. Foto di Stefano Eloggi.

Atrio Palazzo Tomaso Spinola

In Salita Santa Caterina al civ.n.3 si trova, costruito a metà del ‘500 da Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco, il Palazzo dal nome del suo committente, Tomaso Spinola.

Nell’atrio tutt’altro che spazioso, nonostante l’evidente dislivello tra l’ingresso e il ballatoio di accesso al vano scala e l’inconveniente dell’unica rampa di scale presente a sinistra risolto con la costruzione del triforio e dello scalone monumentale, il Bergamasco riesce a conferire indubbia grandiosità all’ambiente.

Gli spettacolari affreschi che rappresentano scene ed episodi mitologici, circondati da decorazioni a grottesca, sono opera di Andrea e Ottavio Semino. Nel quadro centrale è rappresentata “Angelica legata alla rupe e Guerriero che interroga due donne”. Secondi altri esperti invece l’affresco rappresenterebbe “Andromeda che accoglie Perseo Liberatore”.

La Grande Bellezza…

Foto di Stefano Eloggi.

Atrio Palazzo Gio Carlo Brignole (Durazzo)

Al civ. n. 2 di Piazza della Meridiana si trova, progettato da Bartolomeo Bianco, il secentesco Palazzo Gio Carlo Brignole. La versione in cui ancora oggi lo possiamo ammirare è quella della ricostruzione ndel 1671 su pertinenze antecedenti. Ai Durazzo che a metà dell’Ottocento acquisirono dalla famiglia Brignole la proprietà dell’edificio si deve la stupefacente decorazione dell’atrio.

Nella parte superiore decorata da Federico Leonardi campeggia lo stemma del casato, in quella inferiore risaltano invece le gesta di illustri genovesi che fecero grande Genova: Guglielmo Embriaco, Simone Boccanegra e Andrea D’Oria le cui storie circondano l’ottocentesco affresco principale, opera di Giuseppe Isola che celebra Ottaviano Fregoso il distruttore della fortezza della Briglia occupata dalle truppe francesi di Luigi XII.

Il linguaggio prescelto che si sviluppa attraverso la postura del protagonista che regge fiero lo stendardo è quello risorgimentale con cui questi “viri” illustri assurgono a simbolo della lotta contro l’oppressione straniera.

La Grande Bellezza…

Foto di Stefano Eloggi.

L’eccidio al forte San Martino

“Questa notte ho riunito il Tribunale Militare Straordinario, presieduto dal più alto ufficiale in grado presente nel Presidio, il quale ha emanato sentenza di morte, mediante fucilazione, di otto rei confessi di congiura contro lo Stato in zona di operazioni e di condanna a 20 anni di carcere militare di altri due sovversivi.

“La sentenza è stata eseguita all’alba”

Con queste asciutte e tragiche parole il prefetto Carlo Emanuele Basile annunciava di aver dato seguito al suo precedente comunicato.

I due antifascisti condannati a vent’anni di carcere erano Guido Pinna e Guido Carpi. I condannati alla pena capitale si chiamavano:

Dino Bellucci, professore, di anni 32;

Giovanni Bertora, tipografo, di anni 31;

Giovanni Giacalone, straccovendolo, di anni 53;

Romeo Guglielmetti, tranviere, di anni 34;

Amedeo Lattanzi, giornalaio, di anni 35;

Luigi Marsano, saldatore elettrico, di anni 33;

Guido Mirolli, oste, di anni 49;

Giovanni Veronello, operaio, di anni 57.

“Nelle prime ore del 14 gennaio 1944 il comandante della Legione dei Carabinieri di Genova mi ordinava, per telefono, di recarmi con un plotone di venti carabinieri al forte di San Martino, per eseguire un urgente servizio di ordine pubblico”

Parole del tenente Giuseppe Avezzano Comes, ufficiale incaricato di espletare il compito richiesto, che prosegue:

“Giunto sul posto, trovai la località deserta; senonché, dopo aver atteso per circa un’ora, e mentre mi accingeva a rientrare in caserma, vidi arrivare, con alcune macchine, un folto gruppo di ufficiali tedeschi e fascisti che accompagnavano otto persone in ceppi.

Nel frattempo venivo chiamato da un colonnello della milizia fascista in divisa, il quale qualificandosi per il Console Grimaldi, mi ordinava di procedere all’esecuzione immediata mediante fucilazione di otto “traditori” che il tribunale fascista aveva condannato a morte per vendicare un attentato in Genova del giorno innanzi, in cui era stato ucciso un un ufficiale tedesco.

A tale ordine opponeva un secco rifiuto, insistendo sulla illegittimità sia di chi me lo impartiva, sia del Tribunale che lo aveva emesso. Nonostante l’intervento di altri ufficiali fascisti e tedeschi che mi minacciavano di processo sommario e di fucilazione sul posto insieme agli altri condannati, mantenni fermo il mio atteggiamento di rifiuto; tanto che il Grimaldi dopo avermi accusato di codardia, per mezzo di due tedeschi delle SS mi fece allontanare dai miei uomini e sospingere in una casamatta.

Dalle feritoie della stessa, potrei osservare quello che avvenne dopo: il Grimaldi fece schierare di spalle al muro del cortile del forte gli otto condannati e ordinò lui stesso ai carabinieri di fare fuoco.

Ma tutti i militari rivolsero palesemente le armi in alto, tanto che uno dei giustiziati, il Prof. Bellucci, ebbe a dire ad alta voce: “ragazzi fate presto, mirate dritto al cuore. Se non mi uccidere voi mi uccideranno gli altri”.

“Cerimonia della commemorazione”.

A questo punto il Grimadi radunò gli altri militari tedeschi e fascisti presenti e procedette lui stesso all’esecuzione. Fece disporre i condannati di fronte, a due alla volta, costringendoli a salire sui corpi dei compagni caduti mentre ancora si sbattevano per terra in agonia.

Il massacro veniva completato con il colpo di grazia, pietosamente esploso per ognuno dei moribondi da un ufficiale medico presente. Ad esecuzione avvenuta, tedeschi e fascisti lasciavano immediatamente la località, allontanandosi con gli stessi mezzi con i quali erano venuti.

Uscivo allora dalla casamatta, disponevo il piantonamento dei patrioti caduti e con il resto dei carabinieri rientravo in caserma”.

Qui il tenente riuscì a distruggere la nota di servizio con i nomi dei Carabinieri insieme a lui al Forte, così da evitare rappresaglie nei loro confronti da parte delle SS.

“Per intervento del Prefetto Basile venni messo agli arresti e allontanato da Genova.

“Intitolazione dell’officina deposito della Metropolitana di Genova”.

Successivamente fui sottoposto ad inchiesta formale ed infine arrestato dal comando della Feld Gendarmeria tedesca di Albenga, dal quale fui trattenuto in prigione fino alla liberazione, subendo a mia volta torture e sevizie”.

Liberamente tratto dal volume “Una città nella Resistenza!” di Carlo Brizzolari, Valenti editore.

Nel 1984 il sindaco Fulvio Cerofolini gli concesse la cittadinanza onoraria e dal gennaio 2019 gli è stata intitolata l’Officina Deposito della Metropolitana di Genova:

al Tenente dei Carabinieri Giuseppe Avezzano Comes, “Combattente
della Libertà”, come recita la frase riportata sulla targa commemorativa collocata all’interno dell’ampio spazio dedicato alle lavorazioni dei treni.

Hanno preso parte alla cerimonia il vice sindaco Stefano Balleari, l’amministratore unico di AMT Marco Beltrami, il comandante provinciale dei Carabinieri Col. Riccardo Sciuto e Massimo Bisca, presidente Anpi Genova.

In copertina: reparto dei Carabinieri che si rifiutò di sparare sugli ostaggi condannati dal tribunale fascista. Foto presa dal volume sopra citato.

Quando in Corso Podestà

La chiesa di Santo Stefano (fuori campo a destra osservando la cartolina) è rimasta sola. Da poco tempo la Porta degli Archi, per far spazio al Ponte Monumentale, è stata traslocata altrove.

Sulla strada intitolata al barone, sindaco e promotore del progetto, convivono vecchie carrozze e moderni, per l’epoca, tram a rotaie.

Mentre un signore passeggia assorto nella lettura del proprio giornale il 123 è diretto a Manin.

Una signora di bianco vestita, nell’attraversare, sfida fiduciosa gli schizzi di fango e sterco che ricoprono il selciato.

Cartolina del 1906 autore J. Neer.

Sirena

La mia città dagli amori in salita   

Genova mia di mare tutta scale

e, su dal porto, risucchi di vita

viva fino a raggiungere il crinale

di lamiera dei tetti, ora con quale

spinta nel petto, qui dove è finita

in piombo  ogni parola, iodio e sale

rivibra sulla punta delle dita

che sui tasti mi dolgono?… Oh il carbone

a Di Negro celeste! Oh la sirena

marittima, la notte quando appena

l’occhio s’è chiuso, e nel cuore la pena

del futuro s’è aperta col bandone

scosso di soprassalto da un portone.

Versi tratti dalla raccolta Sonetti di Enea del 1952.

In quest’ode alla città prediletta il tema della giovinezza fiduciosamente amorosa s’incrocia con quello del passato, che a sua volta nelle eleganti rime di Caproni si riallaccia alla pena del futuro.

Nelle piccole cose quotidiane il poeta rivela, come nei sogni, le più profonde risonanze e gli echi di un mondo magico e spettrale, in cui l’armonia si fa dolcemente straziante.

In copertina: Foto di Leti Gagge.

La Natività del Grechetto

Giovanni Benedetto Castiglione noto, per via della sua peculiarità di vestirsi all’orientale e fingersi greco, come il Grechetto realizza nel 1645 il suo capolavoro: la Natività per la chiesa patrizia genovese di San Luca, proprietà degli Spinola.

In questa pala il cui vero titolo è “Adorazione dei pastori” l’artista dimostra di aver assorbito sia i caratteri di rinnovamento legati alla presenza in città di inizio Seicento dei maestri del Barocco Rubens e Van Dyck in particolare, sia gli insegnamenti frutto del precedente soggiorno romano in cui frequenta Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona e studia le prime opere di Poussin.

Per la descrizione tecnica non posso far altro che proporre quanto scritto dal sito specializzato www. fosca.unige.it (fonti per la storia della critica dell’arte) che spiega in maniera impeccabile le caratteristiche dell’opera:

“L’impostazione spaziale si rivela infatti con caratteri di novità: i personaggi si addensano sul lato destro della scena su piani lievemente diversi. La Vergine risulta con il Bimbo fulcro di un insieme di linee idealmente provenienti da un arco di cerchio sul quale si dispongono tutti i personaggi, ma leggermente distanziata da questi, quasi in un isolamento evidenziato dalla luce promanata dal giacilio del Bambino. L’articolazione dello spazio è ripresa anche dal gruppo di angeli che si addensano sopra la scena, intrecciando gesti e movimenti come in un gruppo plastico. L’accentuata fisicità di questi ultimi, la naturalistica evidenza del loro sporgersi verso la scena ripropone la ricchezza dell’esperienza romana e forse napoletana. Per la presenza del gruppo d’angeli si può forse pensare anche ad un riferimento alla pala della Circoncisione del Gesù di Genova.

In corrispondenza con la figura della Vergine, la colonna separa il luogo del sacro avvenimento da un fondale rappresentato a squarci. Poussiana è la figura di Giuseppe, del pastore con le mani giunte nella posizione dell’oratio, la luca che illumina il volto del Bimbo, nell’accostamento delle tonalità di veste, manto e velo della Vegine, così pure i gli incarnati dalle tonalità rosso-brune, questi ultimi trovano anche riferimenti nelle scelte rubensiane”.

La Grande Bellezza…

Il Presepe di Palazzo Reale

Fino a fine Ottocento il presepe oggi custodito a Palazzo Reale, noto come Presepe Reale o Presepe Savoia, apparteneva alla chiesa torinese di San Filippo Neri anche se gli esperti non sono certi sia stato realizzato per quella sede.

Alcuni studiosi infatti ritengono che il presepe sia stato commissionato dai Savoia intorno al 1814 al tempo dell’annessione della Repubblica di Genova al Regno di Sardegna.

A partire da inizio ‘900 il presepe, inizialmente ritenuto opera del Maragliano (1664-1739) e di altri maestri intagliatori (Ciurlo e Pittaluga) è passato di mano in mano per poi per fortuna diventare patrimonio comune.

Furono nel 1993 gli esperti Giulio Sommariva e Giuliana Biavati – come spiegato nel sito http://palazzorealegenova.beniculturali.it/il-presepe-del-re/ di palazzo Reale – ad identificare con certezza l’autore nella figura di Giovanni Battista Garaventa (1770-1840), artista di formazione accademica, attivo soprattutto come intagliatore di casse processionali e immagini sacre, come restauratore di antiche sculture e modellatore di apparati decorativi ed effimeri che dà qui prova di saper utilizzare un linguaggio colto e raffinato, di grande efficacia e piacevolezza compositiva.

Dallo stesso sito riporto pari pari, poichè sarebbe presuntuoso aggiungere altro, la puntuale descrizione del capolavoro composto da 85 strepitose statuine lignee di dimensione compresa fra i 40 e i 70 cm, minuziosamente decorate:

“Regale nell’ampiezza ed eccezionale nelle sue componenti: la Sacra Famiglia ne costituisce naturalmente il nucleo centrale, insieme agli angeli, ai tre sontuosi magi, agli armigeri e ai soldati.  Ogni statuina è impreziosita da eleganti ed elaborati costumi in seta, cotone, velluto, tela jeans. Gli abiti sono inoltre caratterizzati da passamanerie in argento e filo d’oro, corpetti e armature in cuoio e metallo argentato che fanno d’ogni personaggio un piccolo capolavoro. E il tutto è qualificato da accessori sofisticati: corone e sciabole, lance e scudi in metallo sbalzato, catene e cinture in cuoio, utensili e attrezzi che indicano una committenza di altissimo rango e di cospicue disponibilità economiche. Qualità e mestiere nelle parti scolpite si apprezzano sia nei pastori che nei popolani d’ambo i sessi, con una varietà di intonazioni, un gusto spiccato per il dettaglio di pregio, una forza plastica di impostazione classica che trova riscontri anche nel variopinto serraglio formato, oltre che dal bue e dall’asinello, dai tre magnifici cavalli dei magi, da due esotici cammelli e, poi, come da tradizione, da mucche e pecore, capre e montoni”.

In Copertina: Foto di Mario Ghiglione

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Foto Mario Ghiglione
Foto di Giovanni Caciagli.
Foto di Giovanni Caciagli.
Foto Mario Ghiglione
Foto di Giovanni Caciagli.
Foto di Giovanni Caciagli.
Foto di Giovanni Caciagli.
Foto di Giovanni Caciagli.
Foto di Giovanni Caciagli.
Foto di Giovanni Caciagli.
Foto di Giovanni Caciagli.