S. Michele ieri… S. Stefano oggi…

Nel luogo dove si staglia oggi la chiesa di S. Stefano un tempo esisteva quella antichissima voluta dai Longobardi intitolata a S. Michele arcangelo, il loro santo guerriero. Il noto campanile in origine era una torre arimannica utilizzata come presidio dai soldati di stanza in città.

Sulle fondamenta della chiesa longobarda nel 960 d.C. il vescovo Teodolfo affidò ai monaci benedettini l’erezione del nuovo tempio intitolato a S. Stefano, ancora oggi, nonostante le varie ristrutturazioni occorse nei secoli, uno splendido esempio di stile romanico ligure.

Per la prima volta a Genova si inaugura l’usanza di costruire gli edifici religiosi a lesene bianco nere. Gli esterni della chiesa sono infatti costituiti da fasce di marmo nere provenienti dalla cava di S. Benigno (il famoso marmo di Promontorio) e bianche originarie delle Alpi Apuane.

"L'essenziale interno della chiesa"
“L’essenziale interno della chiesa”

 

Fino ad allora le chiese genovesi erano scolpite nel marmo nero poi, con il graduale ridursi della vena del Promontorio, si stabilì di utilizzare anche quello bianco di Carrara.

received_1568454323172064
“S. Stefano con sotto l’ottocentesco porticato di Via XX settembre”. Foto di Leti Gagge.
“La parte esterna più antica della chiesa”. Foto di Leti Gagge.

Oltre che per la costruzione dei templi (S. Maria in Via Lata, San Lorenzo, S. Matteo, S. Agostino…) venne concesso, in ossequio al loro prestigio, anche alle quattro grandi nobili famiglie genovesi Doria, Fieschi, Spinola e Grimaldi di sfoggiare i marmi bicromi per la realizzazione delle proprie dimore.

Storia di una Sentenza…

Nel 1506 in località Isosecco una frazione di Serra Riccò un ignaro contadino di nome Agostino Pedemonte, zappando nel proprio terreno, rinviene una tavola bronzea dalle incisioni sconosciute. Si tratta della “Sentenza dei fratelli Minucii” risalente al 117 a.C., il più antico documento scritto relativo alla storia della città.

Dopo aver rischiato di essere fusa da un fabbro la tavola viene, su interessamento dell’Arcivescovo Agostino Giustiniani che ne riconosce l’importanza, acquistata dalla Repubblica. Inizialmente murata in cattedrale vicino alla cappella di San Giovanni, viene trasferita a palazzo Ducale prima e a palazzo Tursi nell’ufficio del sindaco poi. Dal 1993 costituisce il pezzo forte della collezione del Museo di archeologia Ligure di Pegli.

I fratelli Minucii erano discendenti del console Quinto Minucio Rufo colui il quale, a partire dal 197 a.C., poco dopo la ricostruzione della città (203 a. C), aveva impiantato a Genova la base militare per le campagne contro i Galli Boi e le tribù dell’interno.

La sentenza si pronuncia in merito a disaccordi fra due importanti comunità liguri, quella dei “Genuates”, da tempo ormai associati a Roma e quella “Langates”, tribù dei Viturii.

Causa del contendere questioni di confini in un’area percorsa da arterie di primaria importanza per i traffici commerciali e l’utilizzo delle acque. Sono in gioco la Via Postumia e il fiume Polcevera, il “Porcobrera” (il fiume che porta trote).

La peculiarità del documento non è solo di natura storica o linguistica ma soprattutto giuridica. I magistrati infatti si pronunciano su tre tipologie di terreno diverse: il campo privato, quello pubblico e quello del pascolo in comune, spaziando lungo tutto l’arco del sapere del Diritto Romano.

Per quanto concerne la prima i Viturii mantengono intatti i propri diritti in quanto proprietari; per la seconda, pur mantenendo le due comunità le proprie pertinenze, si dispone che i Langensi versino ai Genuati, a titolo di tassa erariale verso l’impero, una quota annua fissa di 400 vectigal commutabile in beni in natura di ugual valore: per la terza infine si stabilisce la possibilità anche per altre tribù della valle di godere dell’utilizzo dei terreni in comune (pascolo e raccolta della legna). Si impone infine il rilascio dei prigionieri Langensi catturati dai Genuates in seguito alla disputa.

Con questa sentenza per cui i Genuati vennero convocati nella Città Eterna (su richiesta dei Langensi) Roma volle, seppur apparentemente “super partes”, rimarcare la propria autorità giuridica. Se da un lato infatti riconosceva ai genovesi la posizione di preminenza nella regione dall’altro tutelava l’autonomia delle altre tribù anch’esse legate alla Lupa.

Foto di Roberto Crisci.

Storia di un Monaco…

Il nome della città di Monaco deriva dalla denominazione voluta nella notte dei tempi dai Fenici, che la chiamarono in greco Monoikos “Una casa sola”. Da sempre territorio delle tribù dei Liguri, nel 600 a.C. in omaggio alle fatiche di Ercole, venne ribattezzata dai greci di Marsiglia che l’avevano occupata Portus Herculis Monoeci. Il figlio di Zeus infatti, di ritorno dalle sue leggendarie fatiche, proprio dopo il Rodano aveva dovuto arrestarsi di fronte ai Liguri.

Sebbene non abbia alcun legame con l’origine etimologica del nome il termine monaco ricorre curiosamente a proposito dell’insediamento della famiglia Grimaldi, tuttora casata regnante dell’anacronistico Principato.

"La Rocca di Monaco, costruita dai genovesi nel 1215".
“La Rocca di Monaco costruita dai genovesi nel 1215”.

 

Francesco Grimaldi esponente di spicco della famiglia guelfa, una delle quattro più influenti della città (Fieschi guelfa e Doria e Spinola ghibellina, le altre tre), nel 1297 in occasione di una delle frequenti lotte intestine salpò alla volta della Rocca di Monaco.

L’ammiraglio detto il “Malizia” per la sua astuzia, con uno stratagemma, aiutato da un parente membro del drappello di guardia, riuscì ad introdursi nella fortezza vestito da monaco e a conquistarla.

"La statua del "monaco" Francesco Grimaldi".
“La statua del “monaco” Francesco Grimaldi”.

Da allora fino ai giorni nostri con alterne fortune, interrotti in alcuni brevi periodi i Grimaldi hanno gradualmente perso contatto con la madrepatria e regnato sul Principato.

La tomba di S. Maria di Castello…

Nel secondo chiostro di S. Maria di Castello (un tempo luogo di sepoltura della nobile famiglia dei Grimaldi dell’Oliva), poco distante dalla Loggia della  celebre “Annunciazione” di Giusto da Ravensburg, è custodita una lastra tombale di pregevole fattura, testimonianza di arguta metafora.

Realizzato in marmo bianco di Carrara con cornice in pietra nera di promontorio il sarcofago tardo quattrocentesco è attribuito ad un membro dell’illustre dinastia di scultori dei Gagini.

Raffigura infatti la morte nella più classica delle rappresentazioni: uno scheletro con intorno scolpito un nastro recante i nomi dei fratelli Grimaldi ivi sepolti (Lionello ed Emanuele), armato di arco, falce e faretra, i simboli del Cristo Mietitore. Ai suoi piedi un cospicuo cumulo di monete, un vero e proprio tesoro, meglio sarebbe dire bottino dato che, come costume diffuso del tempo, anche l’illustre schiatta dei Grimaldi praticava la pirateria.

Sul festone è inciso un motto latino che, attribuito a San Gerolamo, recita:

Facile comptemp<n>it omnia qui sese cogitat moriturum.

Il cui senso tradotto è: “disprezza facilmente ogni cosa facilmente chi si pensa prossimo alla morte”.

Ovvero: “A che serviranno le ricchezze nell’aldilà?, certamente non a evitare il tuo mortale destino”. Come d’altra parte non sono servite ai Grimaldi, fondatori fuggiaschi di un Principato e traditori della patria!

Foto di Bruno Evrinetti.

“Ecce Homo”…

queste, secondo il Vangelo di Giovanni, le parole pronunciate da Ponzio Pilato ai Giudei nella speranza che la flagellazione fosse punizione sufficiente per il Cristo.

Le emozioni suscitate da questa sentenza rappresentano uno dei momenti più alti della cristianità e sono state fonte di ispirazione per numerosi artisti che, nel corso dei secoli, si sono cimentati nel cogliere “l’umanità” di quell’episodio: Bosch, il Correggio, Tiziano, Van Dyck, Rembrandt e molti altri ancora.

"Ecce Homo" di Antonello da Messina.
“Ecce Homo” di Antonello da Messina.

 

Le due principali tele raffiguranti “L’Ecce Homo” però non si trovano né al Louvre di Parigi, né al British Museum di Londra o al Prado di Madrid e nemmeno all’Ermitage di San Pietroburgo o al Pergamo Museum di Berlino bensì custodite a Genova, in due dei suoi scrigni più preziosi: la prima, quella datata 1474 la più antica e celeberrima opera di Antonello da Messina, presso la Galleria Nazionale di palazzo Spinola, la seconda risalente al primo decennio del ‘600 addirittura di Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio, nel Museo di palazzo Bianco in Strada Nuova (odierna Via Garibaldi).

Forse è il caso di dire “Ecce Homines”.

Madonne di conchiglie…

Gli approdi della nostra regione sono costellati di spontanee edicole, sorte a ringraziamento per il ritorno dei naviganti.

Speranza, sussistenza, pescato, ignoto, viaggio,  tempesta, guerra, bottino, paura… di non farcela… per questo, i marinai liguri lo sanno bene, prima e dopo aver affrontato il mare è sempre bene affidarsi alla Madonna.

"Madonna dei pescatori di Quinto".
“Madonna dei pescatori di Quinto”.

"Edicola dei pescatori di Camogli".
“I palazzi di Camogli riflessi nell’edicola dei pescatori”.

Di tutte la più cara ai genovesi è “A Madonnin-a dei pescoei” di Sturla per la costruzione della quale hanno contribuito tutti i marinai del borgo: “O Maria i pescatori di Sturla ti hanno portato tutti una pietra ora ti diranno sempre un’Ave Maria”. Intorno, incastonate fra le conchiglie, altre lapidi riportano alcuni versi della Stella Maris, l’Ave Maria in genovese di Piero Bozzo.

“Ave Maria da questo altare guarda sempre chi è per mare” e ancora “Ave Maria, Campana che suoni in mezzo al verde con una voce secolare tanto cara; in questa pace l’anima si perde e i tuoi rintocchi invitano a pregare”.

Un’altra targa rammenta invece i versi della canzone di Costanzo Carbone intitolata appunto   ” la Madonnin-a dei pescoei patrimonio delle esecuzioni dialettali dei Trallalero.

Edicola di Sturla edicola 2 sturla

“Lazzu un lumin lontan, ne o mà de Sturla” (Laggiù un lumino lontano, nel mare di Sturla)

“O brilla, o scomparisce, o s’allontann-a”. (Brilla, poi si spegne, s’allontana)

I biglietti di calice…

Nel 1607 i Serenissimi Collegi al fine di disciplinare la discutibile condotta di molti nobili, rei di non comportarsi in maniera conforme al loro status, introducono la legge di “biglietti di calice”.

Il piccolo consiglio si riunisce così una volta al mese per giudicare ed eventualmente esiliare i patrizi ritenuti colpevoli. Si stabilisce di aprire delle buche nei muri perimetrali dei cortili di palazzo Ducale e di disporre, durante le riunioni del Collegi, dei calici in cui i cittadini avrebbero potuto consegnare in modo anonimo le proprie rimostranze.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Calice.jpg
Biglietto di Calice. In lingua genovese “Biggetto de caxo”,

I biglietti di calice erano così chiamati per via della forma dei recipienti che venivano utilizzati per contenerli. Fra gli argomenti si trovava un po’ di tutto: consigli, suggerimenti, proposte, ma anche lamentele, delazioni e mugugni insomma una sorta di prototipo di cassetta delle idee.

Fatta la legge trovato l’inganno infatti, se da un lato questo tipo di denuncia anonima permise ai Supremi Sindacatori di intervenire con risolutezza nelle situazioni più scabrose, dall’altro, molto più spesso, le fitte relazioni e i legami di potere fra le famiglie ne attenuarono la funzione punitiva.

La Bomba inesplosa… nel segno della Regina…

Il 9 febbraio del 1941 Genova subisce il secondo  bombardamento navale inglese di una certa portata, un grande proiettile calibro 381 sfonda il tetto della cattedrale durante una funzione religiosa ma, miracolosamente, rimane inesploso.

“Questa Bomba/ lanciata dalla flotta inglese/ pur sfondando le pareti/ di questa insigne cattedrale/ qui cadeva inesplosa/ il IX febbraio MCMXLI./ A riconoscenza perenne/ Genova/ città di Maria/ volle incisa in pietra/ la memoria di tanta grazia.”

In realtà l’ordigno inesploso il 18 febbraio venne rimosso dai Vigili del Fuoco e artificeri, caricato su un autocarro, trasbordato su di una chiatta e rigettato in mare al largo del golfo. Un altro invece, caduto poco distante, non risparmiò il vicino edificio dell’Archivio di Stato.

Quindi la bomba che ammiriamo in chiesa, seppur corrispondente alle stesse caratteristiche, non può essere la stessa piovuta dal cielo in quella drammatica circostanza, più probabilmente si tratta di un’altra granata, trovata  nelle vicinanze, anch’essa non scoppiata e posta dai fedeli nella navata laterale a eterno ricordo dell’offesa subita.

Dopo Magone nel 218 a. C, il Sacco di Genova del 1522, il bombardamento di Re Sole  del 1684 e l’eccidio del La Marmora del 1849 Genova ancora “Superba” si oppone alle bombe nemiche!

Documenti gentilmente forniti dal Coordinamento ligure studi militari C.L.S.M. Batteria “G.Mameli”
Documenti gentilmente forniti dal Coordinamento ligure studi militari C.L.S.M. Batteria “G.Mameli”
Documenti gentilmente forniti dal Coordinamento ligure studi militari C.L.S.M. Batteria “G.Mameli”

Specchio, specchio delle mie brame…

qual è la torre più alta del reame?

all’inizio del 1100 Genova si presentava come una roccaforte turrita munita di sessantasei poderosi torrioni.

Sul finire del secolo nel 1196 però, a causa delle continue lotte intestine, il console Drudo Marcellino decretò che fossero tutte mozzate e avessero altezza massima di ottanta palmi (venti metri).

Quella dell’Embriaco, dominatore di Cesarea e conquistatore di Gerusalemme, alta ben centosessantacinque palmi (circa quarantuno metri) venne invece, probabilmente per rispetto al prestigio della famiglia, risparmiata.

Dal ‘500 risulta accorpata all’attiguo Palazzo Brignole Sale ma in realtà, secondo molti storici sarebbe solo una delle diverse torri, e nemmeno quella più antica, presenti nel nucleo originario di Sarzano, di proprietà non dell’Embriaco bensì dei De Castro, un’altra nobile schiatta di quel tempo.

La torre, di pietra bugnata proveniente da materiale di recupero della precedente cinta muraria anteriore al nono secolo d.C., alla sua sommità è costituita da tre fregi di archetti dentellati in laterizio con peducci in pietra. La posticcia merlatura di tipo guelfa è stata aggiunta successivamente dall’architetto Grosso nel 1927 in occasione dei lavori di ristrutturazione. Nel 1996, causa un fulmine, è rimasta mutilata da un lato conferendole l’attuale fisionomia.

Sul basamento della torre è stato affisso, per volere degli allora proprietari della costruzione, i Brignole Sale, il decreto del Podestà che recita:

“Opera degli Embriaci, Coetanea al Patrio Comune/ dalle Leggi dell’Eccedente Sua Altezza Rispettata/ Benché Trapassata in Cattaneo, in Sale, in Brignole Sale/ Recando ai Posteri/ in un Colla Piazza Palagio e Via il Nome dei Fondatori/ Sta/ di Pietoso Eroismo e di Civile Grandezza/ Monumento e Testimonio/ Ludovica Brignole Sale in Melzi d’Eril/ v’Appose Quest’Epigrafe. Nel MDCCCLXIX. (1869).

“Il retro del genovino d’oro del 1250 che raffigura il castello rappresentato come un doppio porticato con tre torri”.

“L’archivolto di Santa Maria in Passione”.

Qui si trovava il primitivo “Castrum” cittadino la cui relativa porta di accesso era localizzata sulla collina di Castello. Nelle antiche descrizioni degli Annali e sul “genovino”, la moneta ufficiale del Comune, tale zona era infatti raffigurata come un doppio porticato puntellato da tre torri, i resti delle quali, nonostante diversi ritrovamenti, non sono mai stati identificati con certezza.

A tal proposito nel dopoguerra, durante i lavori di recupero della zona bombardata, sono stati rinvenuti i ruderi di due torri utilizzate come basamenti per le costruzioni sovrastanti. La prima lungo il lato orientale delle mura, la seconda all’interno di quello che, un tempo, era il Palazzo del Vescovo, poi convento della chiesa di San Silvestro.

E allora dove e quale sarebbe la vera torre Embriaci?

Secondo un’ipotesi ormai condivisa dalla maggior parte degli studiosi, il vanto di “Testa di maglio” sarebbe invece riconducibile al basamento che funge oggi da varco nell’attigua Piazza Santa Maria in Passione. Tale teoria, suffragata da recenti  ritrovamenti e scoperte, ha sostituito e soppiantato la precedente vulgata tramandata per secoli.

Entrando infatti nella sala delle conferenze della vicina Casa Paganini (ex chiesa del convento di S. Maria delle Grazie la Nuova) attraverso una botola si può accedere allo scavo che ha portato alla luce la sottostante originaria  base della primitiva torre.

“Il basamento della torre originale dell’Embriaco”.