“Venite in Paradiso”…

Dalla spianata, dove un tempo sorgeva il temuto Castelletto, si gode senza dubbio del panorama più affascinante della città: sullo sfondo di una distesa di mare turchino si ha l’impressione di accarezzare con lo sguardo un tappeto di tetti d’ardesia.

Campanili che, come diceva Faber, “segnano il confine tra la terra e il cielo”, torri insolenti che sfidano il firmamento e palazzi da re, in una città che di re non ne ha mai voluti.

“L’ascensore di Castelletto”.

Davanti a cotanto spettacolo Giorgio Caproni compose la sua celebre lirica nella quale immaginava di salire in paradiso a bordo dell’ascensore che lì lo aveva condotto. Eh si perché Genova nell’immediato dopoguerra, con le macerie dei bombardamenti, proprio un inferno  doveva apparire. Un paesaggio desolato che mano a mano che il poeta completava la sua ascesa svelava la sua incomparabile bellezza tramutando l’inferno in paradiso.

“Lapide posta all’interno dell’ascensore”.

Costruito nel 1909, completamente in stile liberty (le cabine son state rifatte nel 2010 in occasione dei suoi cento anni), copre un dislivello di 57 metri, dalla spianata di Castelletto fino a piazza del Portello. Nella seconda strofa de “L’Ascensore” (1948) Giorgio Caproni verseggiava:

“Quando mi sarò deciso
d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore notturne,
rubando un poco
di tempo al mio riposo”.

“Suggestivo scorcio di paradiso”. Foto di Leti Gagge

E un inferno certamente era sembrata la Superba a Hermann Melville che così annotava nei suoi appunti nella primavera del 1857:

“La costa verso il sud. Un promontorio. Tutta Genova e le sue fortezze, la loro esterna solitudine. La desolazione, l’aspetto selvaggio delle valli che intercorrono sembrano fare di Genova la capitale e il campo fortificato di Satana; fortificato contro gli Arcangeli. Le nuvole che si addensano sui bastioni sembrano immaginarie. Sono andato sulla parte orientale del porto e ho cominciato il giro della terza linea di fortificazioni”.

“La Lanterna vista dalla spianata”. Foto Danilo Lo Re.

E nell’Inferno il Sommo Dante aveva collocato i genovesi: fra i traditori pose, infatti, Branca Doria ancor vivo, reo di aver fatto a pezzi il suocero Michele Zanchè per impossessarsi dei suoi possedimenti sardi.
Come racconta il Foglietta nei suoi resoconti il Poeta, giunto nella Dominante, “fu solennemente bastonato sulla pubblica via dagli amici e dai servi di Brancaleone.
Da questa offesa, non potendo il Sommo, vendicarsi con le mani, si vendicò con le parole e la penna”. Da qui la celebre invettiva scolpita nel Canto XXIII dell’Inferno, versi 151-153:
“Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogni magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?”.
Il “Ghibellin fuggiasco” prende inoltre a modello, dopo averla attraversata entrandovi da Lerici, l’aspra nostra terra, per descrivere la montagna del Purgatorio:
“Tra Lerice e Turbia la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole ed aperta”.
(Canto III del Purgatorio, verso 49-51).

E se avesse ragione Faber nei versi di “Preghiera in Gennaio” dedicata all’amico Tenco, morto suicida?

“Venite in Paradiso
Là dove vado anch’io
Perché non c’è l’inferno
Nel mondo del buon Dio”…

“Dio di misericordia
Il tuo bel Paradiso
L’hai fatto soprattutto
Per chi non ha sorriso
Per quelli che han vissuto
Con la coscienza pura
L’inferno esiste solo
Per chi ne ha paura”.

Venite a Genova, venite in Paradiso!

“A l’è cheita ‘na bagascia in maa…”

sensa bagnase…

“Le prostitute non potevano entrare nel porto, o salire a bordo delle navi: avrebbero distratto i camalli o i marinai” (definizione tratta dal Dizionario Italiano Genovese).

 Per questo pratico motivo quando si ritiene che una cosa sia impossibile e che non possa mai accadere si dice: “Una prostituta è caduta nel mare (del porto) senza bagnarsi”. Eppure grazie ai proventi del loro operato Genova nel ‘600 come, oltre ai libri di storia, ci ricorda Faber in “A Dumenega”, si è costruita il molo nuovo:

“Quandu ä dumenega fan u gíu
cappellin neuvu neuvu u vestiu
cu ‘a madama a madama ‘n testa
o belin che festa o belin che festa
a tûtti apreuvu ä pruccessiún
d’a Teresin-a du Teresún
tûtti a miâ ë figge du diàu
che belin de lou che belin de lou

e a stu luciâ de cheusce e de tettín
ghe fan u sciätu anche i ciû piccin
mama mama damme ë palanche
veuggiu anâ a casín veuggiu anâ a casín
e ciû s’addentran inta cittæ
ciû euggi e vuxi ghe dan deré
ghe dixan quellu che nu peúan dî
de zeùggia sabbu e de lûnedì

“e u direttú du portu c’u ghe vedde l’ou
‘nte quelle scciappe a reposu da a lou
pe nu fâ vedde ch’u l’è cuntentu
ch’u meu-neuvu u gh’à u finansiamentu
u se cunfunde ‘nta confûsiún
cun l’euggiu pin de indignasiún
e u ghe cría u ghe cría deré
bagasce sëi e ghe restè”.

“Le signorine aspettano i clienti nei bassi della Maddalena”.

Le Bagasce che popolano la galleria di personaggi di De André non sono semplici comparse ma assurgono al ruolo di protagoniste assolute.

Il viaggio inizia con la bucolica fanciulla di “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers ” in cui…

“Veloce lo arpiona la pulzella
repente una parcella presenta al suo signor
“deh, proprio perché voi siete il sire
fan cinquemila lire, è un prezzo di favor”.
“E’ mai possibile, porco d’un cane,
che le avventure in codesto reame debban risolversi sempre con grandi puttane”.

Prosegue in “Via del Campo”, dove s’incontra…

“una graziosa
gli occhi grandi color di foglia
tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa.

Via del Campo c’è una bambina
con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina.

Via del Campo c’è una puttana
gli occhi grandi color di foglia
se di amarla ti vien la voglia
basta prenderla per la mano

e ti sembra di andar lontano
lei ti guarda con un sorriso
non credevi che il paradiso
fosse solo lì al primo piano”.

Continua poi con la pubblica moglie della” Città Vecchia” in cui

“una bimba canta la canzone antica
della donnaccia
quel che ancor non sai tu lo imparerai
solo qui fra le mie braccia

E se alla sua età le difetterà la campetenza
presto affinerà le capacità con l’esperienza
dove sono andati i tempi d’una volta, per Giunone
quando ci voleva per fare il mestiere
anche un po’ di vocazione?

Vecchio professore cosa vai cercando
in quel portone
forse quella che sola ti può dare
una lezione
quella che di giorno chiami con disprezzo
pubblica moglie
quella che di notte stabilisce il prezzo
alle tue voglie.

Tu la cercherai tu la invocherai
più d’una notte
ti alzerai disfatto rimandando tutto
al ventisette
quando incasserai delapiderai
mezza pensione
diecimila lire per sentirti dire
“micio bello e bamboccione”.

Abbandonati momentaneamente i caruggi si sale a S. Ilario per incontrare Maritza una bella istriana.

“La chiamavano bocca di rosa
Metteva l’amore, metteva l’amore
La chiamavano bocca di rosa
Metteva l’amore sopra ogni cosa.

C’è chi l’amore lo fa per noia
Chi se lo sceglie per professione
Bocca di rosa né l’uno né l’altro lei lo faceva per passione”.

Ma Fabrizio non si accontenta della cruda realtà e confeziona  un vestito per la sua “Marinella” del tessuto più prezioso, la dignità…

“Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella,

questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose.

“Fondi nei caruggi”.

Si vaga nella casbah di un qualunque porto mediterraneo il regno dell’esotica mulatta Jamina, la sultana delle bagasce…

“Lengua ‘nfeuga Jamin-a
Lua de pelle scûa
Cu’a bucca spalancà
Morsciu de carne dûa
Stella neigra ch’a lûxe
Me veuggiu demuâ
‘Nte l’ûmidu duçe
De l’amë dû teu arveà
Ma seu Jamin-a
Ti me perdunié
Se nu riûsciò a ésse porcu
Cumme i teu pensë

Destacchete Jamin-a
Lerfe de ûga spin-a
Fatt’ammiâ Jamin-a
Roggiu de mussa pin-a
E u muru ‘ntu sûù
Sûgu de sä de cheusce
Duve gh’è pei gh’è amù
Sultan-a de e bagasce
Dagghe cianìn Jamin-a
Nu navegâ de spunda
Primma ch’à cuæ ch’à munta e a chin-a
Nu me se desfe ‘nte l’unda

E l’ûrtimu respiu Jamin-a
Regin-a muaé de e sambe
Me u tegnu pe sciurtï vivu
Da u gruppu de e teu gambe”.

Un viaggio che termina con l’amaro in bocca sul lungomare di Bahia:

“E io davanti allo specchio grande
Mi paro gli occhi con le dita a immaginarmi
Tra le gambe una minuscola fica…

Nella cucina della pensione
Mescolo i sogni con gli ormoni
Ad albeggiare sarà magia
Saranno seni miracolosi

Perché Fernanda è proprio una figlia
Come una figlia vuol far l’amore.

E allora il bisturi per seni e fianchi
In una vertigine di anestesia
Finché il mio corpo mi rassomigli
Sul lungomare di Bahia…

Sul palcoscenico della mia vita

Dove tra ingorghi di desideri
Alle mie natiche un maschio s’appende
Nella mia carne tra le mie labbra
Un uomo scivola l’altro si arrende”.

Perché De Andrè in fondo, sapendo che le donne sono diamanti plasmate nel letame, riscatta e nobilita la figura della prostituta dipingendola con grande umanità…

“Mentre lui le insegnava a fare l’amore
lei gli insegnava ad amare”.

“Nu ghe n’é nu ghe n’é nu ghe n’é”…

“A Cumba” è uno straordinario pezzo in lingua genovese cantato a due voci da Fabrizio De André e Ivano Fossati in cui nenie e usanze riemergono da un passato neanche troppo lontano.
La storia, che racconta di una domanda di matrimonio, si sviluppa in un poetico dialogo fra le aspettative del pretendente e le preoccupazioni del padre…

Gh’aivu ‘na bella cùmba ch’à l’é xeûa foea de cà
gianca cun’à néie ch’à deslengue a cian d’à sâ

Avevo una bella colomba che è volata fuori casa
bianca come la neve che si scioglie a pian del sale

Duv’a l’é duv’a l’é

dov’è dov’è

che l’han vursciua vedde cegâ l’àe a stù casâ
spéita cume l’aigua ch’à derua zû p’ou rià

che l’hanno vista piegare le ali verso questo casale
veloce come l’acqua che precipita dal rio

Nu ghe n’é nu ghe n’é nu ghe n’é

non ce n’è non ce n’è non ce n’è

Padre (F. De André):
Cau ou mè zuenottu ve porta miga na smangiaxun
che se cuscì fise puriesci anàvene ‘n gattixun
Nu ghe n’é nu ghe n’é nu ghe n’é

Caro il mio giovanotto non vi porta mica qualche prurito
che se così fosse potreste andarvene in giro per amorazzi
non ce…

Pretendente (I. Fossati):
Vegnu d’â câ du rattu ch’ou magun ou sliga i pë

Vengo dalla casa del topo che l’angoscia slega i piedi

Padre:
Chi de cumbe d’âtri ne n’é vegnûe nu se n’é posé

Qui di colombe d’altri non ne son venute non se ne son posate

Pretendente:
Vegnu c’ou coeu marottu de ‘na pasciun che nu ghe n’è

Vengo con il cuore malato di una passione che non ha uguali

Padre:
Chi gh’é ‘na cumba gianca ch’â nu l’é â vostra ch’â l’é a me
Nu ghe n’é âtre nu ghe n’é / nu ghe n’é âtre nu ghe n’é

Qui c’è una colomba bianca che non è la vostra che è la mia
Non ce n’è altre non ce n’è / non ce n’è altre non ce n’è

Coro:
A l’e xëuâ â l’é xëuâ / a cumba gianca
de noette â l’é xëuâ / au cian d’â sâ
A truvian â truvian / â cumba gianca
de mazu â truvian / au cian d’ou pan.

E’ volata è volata / la colomba bianca
di notte è volata / a pian del sale
La troveranno la troveranno / la colomba bianca
di maggio la troveranno / al pian del pane

Pretendente:
Vui nu vuriesci dàmela sta cumba da maiâ
gianca cum’â neie ch’à deslengue ‘nt où rià
Duv’a l’é duv’a l’é / duv’a l’é duv’a l’é

Voi non vorreste darmela questa colomba da maritare
bianca come la neve che si scioglie nel rio
dov’è dov’è dov’è dov’è dov’è

Padre:
Mié che sta cumba bella a stà de lungu a barbaciu
che nu m’à posse vèdde à scricchi ‘nte n’âtru niu
Nu ghe n’é âtre nu ghe n’é / nu ghe n’é âtre nu ghe n’é

Guardate che bella colomba è abituata a cantare in allegria
che io non la debba mai vedere stentare in un altro nido
non ce n’è non ce n’è / non ce n’è non ce n’è

Pretendente:
A tegnio à dindanàse suttà ‘n angiou de melgranâ
cù a cua ch’ou l’ha d’â sèa â man lingèa d’ou bambaxia
Duv’a l’é duv’a l’é / duv’a l’é duv’a l’é

La terrò a dondolarsi sotto una pergola di melograni
con la cura che ha della seta la mano leggera del bambagiaio
dov’è dov’è dov’è dov’è dov’è

Padre:
Zuenu ch’âei bén parlòu ‘nte sta seian-a de frevâ

Giovane che avete ben parlato in questa sera di febbraio

Pretendente:
A tegnio à dindanàse suttà ‘n angiou de melgranâ

La terrò a dondolarsi sotto una pergola di melograni

Padre:
Saèi che sta cumba à mazu a xeuâ d’â më ‘nt â vostra câ

Sappiate che questa colomba a maggio volerà dalla mia nella vostra casa

Pretendente:
Cu ‘â cua ch’ou l’ha d’â sea â mân lingea d’ou bambaxia
Nu ghe n’é âtre nu ghe n’é / nu ghe n’é âtre nu ghe n’é

Con la cura che ha della seta la mano leggera del bambagiaio
non ce n’è altre non ce n’è / non ce n’è altre non ce n’è

Coro:
A l’e xëuâ â l’é xëuâ / a cumba gianca
de noette â l’é xëuâ / au cian d’â sâ
A truvian â truvian / â cumba gianca
de mazu â truvian / au cian d’ou pan.

E’ volata è volata la colomba bianca
di notte è volata a pian del sale
La troveranno la troveranno la colomba bianca
di maggio la troveranno a pian del pane

Duv’a l’é duv’a l’é / ch’â ne s’ascunde
se maia se maia / au cian dou pan
cum’a l’é cum’a l’é / l’é cum’â neie
ch’â ven zu deslenguâ / da où rià.

dov’è dov’è che ci si nasconde
si sposerà si sposerà a pian del pane
Com’è com’è è come la neve
che viene giù sciolta dal rio

A l’e xëuâ â l’é xëuâ / a cumba gianca
de mazu â truvian / au cian d’â sâ
Duv’a l’é duv’a l’é / ch’â ne s’ascunde
se maia se maia / au cian dou pan

E’ volata è volata la colomba bianca
di maggio la troveranno al pian del sale
dov’è dov’è che ci si nasconde
si sposerà si sposerà al pian del pane

Cùmba cumbétta / beccu de séa
sérva à striggiùn c’ou maiu ‘n giandùn
Martin ou và à pë / cun’ l’aze deré
foegu de légne anime in çé.

Colomba colombina becco di seta
serva a strofinare per terra col marito a zonzo
Martino va a piedi con l’asino dietro
fuoco di legna anime in cielo.

(cit testo completo di “A Cumba” di F. De André e I. Fossati).

“Il Quinto Vangelo”…

… così Don Gallo definì la visione divina ed umana allo stesso tempo del poeta degli ultimi, dei reietti, dei diseredati… insomma di tutti coloro ai quali Gesù aveva ridato speranza e Fabrizio voce. Compassione e solidarietà cristiana alla massima potenza: rispetto e sacralità dell’essere umano, accoglienza senza giudizio, amore incondizionato. Non male per un anarchico che non si professava adepto di nessuna religione. Molto più “illuminato” lui di molti altri che ascoltano o diffondono la parola del Signore predicando bene e razzolando male.

Una sfida difficile quella raccolta da Faber lanciata qualche secolo prima dal Sommo Dante:

Non rammentava forse il poeta la strada maestra?

“Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.

(cit. dal Canto XXVI dell’Inferno versi 112 – 120 di Dante Alighieri).

Venne alla spiaggia un assassino
due occhi grandi da bambino
due occhi enormi di paura
eran gli specchi di un’avventura…

E chiese al vecchio ‘Dammi il pane,
ho poco tempo e troppa fame’
e chiese al vecchio ‘Dammi il vino,
ho sete e sono un assassino’.

Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno
non si guardò neppure intorno
ma versò il vino e spezzò il pane
per chi diceva ‘Ho sete, ho fame’…

(cit. da “Il Pescatore” di F. De André).

Se tu penserai, se giudicherai
da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni più le spese
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo.

(cit. da “La Città Vecchia” di F. De André).

“Ci hanno insegnato la meraviglia verso chi ruba il pane. Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”.

(cit. da un verso tratto da “Nella mia ora di Libertà” di F. De André scritto su un muro all’angolo fra Piazza Vacchero e Via del campo, proprio accanto alla fontana che nasconde la Colonna Infame).

“Il Vecchio Ponte di Carignano”…

“Quando attraverserà l’ultimo Vecchio Ponte, ai suicidi dirà baciandoli alla fronte. Venite in Paradiso là dove vado anch’io. Perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”. (cit. da Preghiera in Gennaio di F. De André)…

… quando il Ponte che univa il colle di Sarzano con quello di Carignano sovrastava i millenari quartieri della Madre di Dio…

“E Nûvie”

Vanno
vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo

Certe volte sono bianche
e corrono
e prendono la forma dell’airone
o della pecora
o di qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini
che giocano a corrergli dietro per tanti metri

Certe volte ti avvisano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore

“Nuvole sopra la Lanterna”.

Vengono
Vanno
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai

Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte
e si mettono li tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia”.

(cit. testo completo di “Nuvole” di F. De André).

“Ne sciurtimmu da u ma”…

Due grandi marinai, esploratori della vita che, ciascuno nel proprio campo, hanno saputo tenere ben saldo il timone fra le avversità e le tempeste. Troppo grandi per non affacciarsi al mondo, si sono fatti onore ovunque con la loro arte. Troppo legati a questa città, madre severa ma pur sempre madre, per non farne punto di riferimento e porto sicuro al ritorno da ogni viaggio. Fabrizio e Renzo, a cui noi tutti genovesi siamo debitori: per le inimitabili poesie del primo e per la rivitalizzazione del Porto Antico, del secondo. Renzo ha ancora grandi sogni e progetti per la sua città e Fabrizio, anche se non c’è più, sicuramente con la sua musica è lì che li accarezza come una fresca brezza di mare. Con il vento in poppa, avanti tutta!

“Umbre de muri, muri de mainé”…

La collina dei poeti…

Spuntando da questa parte, quella orientale, il sole di Albaro investe poi della sua luce tutta la città; così, “la luce dell’alba”, la definivano gli antichi.

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S. Maria del Prato che si trova all’angolo fra le attuali Piazza Leopardi e Via Parini il cui nome trae origine, come ricordato da apposita lapide, dal fatto che un tempo si ergeva solitaria nel bel mezzo del prato adibito al pascolo pubblico.

Albaro non solo è il luogo dove sorge l’alba terrena ma anche quella religiosa poiché su questo dolce declivio i SS. Nazario e Celso approdarono nel I sec. e, per primi, introdussero il Cristianesimo. Nella scomparsa parrocchia di S. Nazaro celebrarono probabilmente la prima messa sul suolo italico.

Fin dall’epoca romana la collina su cui si erge è stata la principale fonte, insieme alla Valle del Bisagno, di ortaggi per la città e, come testimoniato dal toponimo della chiesa di S. Maria del Prato, anche un vasto campo adibito al pascolo comune. Nei secoli successivi si è trasformato nel sito prediletto delle nobili famiglie genovesi che vi hanno qui fatto costruire le loro principesche ville di campagna.

In una di queste, sita nell’attuale Via Albaro al civ. 1, Villa Saluzzo Mongiardino prese alloggio nel 1822, appena sbarcato con il suo stravagante seguito, Lord Byron. Il celebre poeta romantico  durante il suo soggiorno genovese elaborava i suoi scritti sorvegliato dalle tele di Van Dyck e del Veronese che arricchivano la già sfarzosa settecentesca dimora patrizia del Marchese Saluzzo. In quel periodo compose il suo “Don Juan”. Fra i suoi appunti annotava: “C’è qui un sospiro per quelli che mi amano, un sorriso per quelli che mi odiano, E, sotto qualunque cielo io vada, c’è qui un cuore pronto ad ogni destino”.

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La lapide affissa all’esterno di Villa Saluzzo in memoria del soggiorno genovese di Lord Byron.
La targa di Villa Negrotto che ricorda il soggiorno di Mary Shelley. Foto di Sistina Cantagalli.

Poco distante a Villa Negrotto nell’odierna Via S. Nazaro dimorava anche Mary Shelley compagna del suo fraterno amico Percy morto annegato al largo di Viareggio qualche tempo prima di intraprendere il viaggio dalla Toscana verso Genova. Mentre Byron componeva il suo “Don Giovanni” l’autrice di “Frankenstein” qui si dedicò alla biografia del marito scomparso e scrisse un breve racconto in cui decantava le luci e i colori di “una splendida Genova” vista “dalla collina di Albaro, solitaria e battuta dal vento”.

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Lapide esposta all’esterno di Villa Bagnarello a ricordo del soggiorno di Dickens.

Come ricordato dalla targa affissa sulla sua dimora genovese Lord Byron partì da Genova alla volta di  Missolungi in Grecia, con l’intento di prestare soccorso al  popolo greco insorto per la libertà contro l’impero ottomano. Il poeta romantico anglosassone, causa una febbre malarica, trovò la morte nella terra degli eroi classici, che tanto avevano influenzato il suo “umano sentire”, dell’antica Ellade.

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La cinquecentesca Villa Saluzzo Bombrini meglio nota come il Paradiso.

Circa 20 anni dopo nel 1844 anche Dickens volle ripercorrere le orme dell’illustre predecessore decidendo di visitare i luoghi di Byron e di dimorare nella zona di Albaro. L’autore di “Oliver Twist” nel quartiere scelse Villa Bagnarello, definendola “la prigione rosa “. Dickens venne diverse volte a Genova e cambiò spesso domicilio al punto di farsi un quadro ben preciso della Superba: “Genova è tutta un contrasto; è la città più sporca e più pittoresca, più volgare e magnifica, repulsiva e più deliziosa che esista.”

Oltre un secolo dopo, in un’altra villa sempre dei Saluzzo, questa volta però quella cinquecentesca  detta “Il Paradiso”, saranno gli affreschi di Lazzaro Tavarone, Bernardo Castello e Giovanni Ansaldo a ergersi testimoni e fonte d’ispirazione per Fabrizio De André.  Dalle creuze agresti e bucoliche della Vecchia Albaro a quelle “cariche di sale gonfie di odori” della città vecchia.

“Bacan d’a corda marsa d’aegua e de sa che a ne liga e a ne porta nte ‘na creuza de ma”… cantava l’inarrivabile Fabrizio!

In foto di copertina il quadro di Alessandro Magnasco “Giardino di Albaro”.

Le acciughe…

“Le acciughe fanno il pallone che sotto c’è l’alalonga, se non getti la rete, non te ne lascia una, non te ne resta una”. F. De André.

L’acciuga da sempre risorsa peculiare della nostra regione, molto apprezzata quella di Monterosso e della riviera di Levante, è alimento imprescindibile delle nostre tavole sulle quali viene preparata in numerose varianti: sotto sale, alla marinara, all’ammiraglia, alla sanremese, o sulla “Piscialandrea” (nel ponente), all’agro, alla sarda, al finocchio, al forno, in involtino, ripiene, con il riso, con radicchio, cavolfiore o coste di bietole (entroterra), con nocciole o tartufo (basso Piemonte), in tortino di patate e verdure (alla vernazzese), con patate e funghi, infarinate (se di piccola taglia), impanate (se di pezzatura più grande) e fritte, in Bagnùn (Riva Trigoso), in tegame al verde, cotte a crudo nel limone, come condimento della pasta (insieme alle olive taggiasche e al pan grattato), al pomodoro, alla piastra o alla griglia (se le dimensioni lo permettono), in zuppa, come base di numerose salse (per la Bagnacauda) e sughi, comunque le si cucinino sono favolose e inimitabili.
In passato, ancora fino a metà del secolo scorso, “l’anciùa” nostrana era fonte di scambi con il Piemonte dove i nostri acciugai  si recavano con i loro carretti colmi di olio della riviera e pesce azzurro.
Più sovente i “Pesciai”, a onor del vero, erano valligiani della Valle Maira, nel cuneense che, per sopravvivere nei lunghi mesi invernali, acquistavano i prodotti liguri per rivenderli nelle loro valli, in  Lombardia e in Emilia.
Le acciughe venivano vendute  sotto sale mentre l’olio veniva barattato; per ogni litro di nettare ligure, cinque litri di vino Barbera.