L’Adorazione segreta …

In Vico dei Carmagnola, dal nome dell’illustre famiglia piemontese trasferitasi nella zona attorno alla metà del ‘400, si trova il Palazzo di Giovanni Garibaldi, casato originario di Né nell’entroterra di Lavagna.

Una dimora dal fascino antico e decadente la cui bellezza s’intuisce già dal portale in pietra nera di Promontorio che ne nobilita l’ingresso. Decorato con fregi di teste imperiali, volatili, elmi e coppe onuste di fiori. Sui sopra capitelli due delfini legati a una coppa pisside.

“Il Portale in Pietra nera di Promontorio di Palazzo G. Garibaldi”. Foto di Milena Esse.
“Primo piano del Portale”. Foto di Alessandro Donato.

Ma la vera meraviglia si trova al primo piano dove si dipana lo scalone monumentale sorretto da colonne doriche. Qui, a fianco dell’immancabile medaglione tondo in pietra nera con l’effigie di S. Giorgio in lotta con il drago, s’incontra un’Adorazione dei Magi del XV sec.

“Lo scenografico scalone”. Foto di Alessandro Donato.
“In primo piano le colonne doriche. Sullo sfondo s’intravede il sovrapporta dell’Adorazione”. Foto di Alessandro Donato.

La dinamica della scena richiama fortemente quella della più celebre Adorazione del Presepe degli Orefici. I tratti e gli stilemi dell’artista, essendo il periodo coevo, sono molto simili, ma non sono gli stessi. Lo scultore, in questo caso, non riesce ad eguagliare la perizia, manifestata in Via Orefici, da Elia e Giovani Gagini. La pietra utilizzata è di minor pregio, le figure non sono così morbide e mancano della cura del  dettaglio. Ciò nonostante il risultato d’insieme adempie alla sua scenografica funzione.

Un quattrocentesco bassorilievo che ovunque farebbe bella mostra di sé in qualsiasi museo, a Genova giace dimenticato in disparte nel ballatoio di un palazzo come tanti.

 

“A me le torte di Zena”…

Certo le scuole napoletane e siciliana di chiara impronta araba, per non parlare di quella asburgica mitteleuropea (austriaca e svizzera), sono tra le più celebrate ed apprezzate. Ma Genova non rimane indietro anche la Superba infatti può vantare una tradizione pasticcera di tutto rispetto segnalandosi per alcune rinomate ed esclusive preparazioni.

“Pan di Spagna”.

Ad esempio, all’incirca a metà del ‘700, il giovane pasticcere Giovanni Battista Cabona, al seguito dell’ambasciatore genovese a Madrid il marchese Domenico Pallavicino, inventò per un ricevimento di rappresentanza una particolare e assai leggera tipo di base per torte. L’innovativa pasta viene lavorata a caldo senza lievitazione. Realizzata per la prima volta quindi in Spagna ne prese il nome.

Nel 1800 Chiboust, il celebre pasticcere parigino di Rue Saint Honorè, per omaggiare l’eroica resistenza del connazionale Massena impegnato nella strenua difesa di Genova assediata dagli austriaci, ne elaborò una variante, ottenuta a freddo battezzata la “Genoise”.

“Bottega di Preti aperta nel 1851 in Piazza Portello”.

Su questa base a metà del secolo successivo, con l’aggiunta di creme e farciture liquorose, nel laboratorio della Pasticceria Preti sarebbe nata la Sacripantina, brevettata poi nel 1875.

“La Sacripantina”.

Se il Pan di Spagna divenne la base imprescindibile di numerose torte, grande successo ebbe la Sacripantina sulle cui scia, poco dopo, nacque su creazione di Klainguti, la torta Zena. Pensata dai fratelli svizzeri per omaggiare la città che li aveva ospitati, adottati e resi famosi. Insieme ai Falstaff, le brioches preferite di Verdi e alla torta Engandina (così chiamata in onore della loro valle di provenienza), preparata con farina di mandorle e crema di latte, divenne la specialità più ricercata della casa.

Dal 1965 la ricetta viene portata avanti con passione dai successori:

Di forma quadrata anch’essa parte da una base di Pan di Spagna con zabaione (leggermente alcolico) e pasta di mandorle.

“La Pasticceria Klainguti”.

Che dire poi dell’arte confettiera in cui i Romanengo eccellevano già dal 1780: frutta candita, confetteria varia, gocce di rosolio, confetture, marmellate sciroppi alle viole e di rose. Queste sono solo alcune delle preparazioni più apprezzate con le quali si deliziavano le principali corti europee.

“La Pasticceria Romanengo”. Foto di Leti Gagge.

Tornando alle torte come non citare quella, a base di pasta di mandorle, tanto cara a Giuseppe Mazzini. E’ l’apostolo della libertà stesso a raccontarcelo trascrivendone ricetta al tempo in cui, negli anni ’30 dell’ottocento, era in esilio in Svizzera in una lettera indirizzata alla madre Maria Drago:

“La Torta di Mazzini”.

“Prima di dimenticarmi, voglio mantenere la mia promessa. Eccovi la ricetta che vorrei faceste e provaste, perché a me piace assai, traduco alla meglio, perché di cose di cucina non m’intendo, ciò che mi dice una delle ragazze in cattivo francese: Pelate e pestate fine fine tre once di mandorle, tre once di zucchero fregato prima ad un limone, pestato finissimo. Prendete il succo di un limone, poi due gialli d’uovo, mescolate tutto questo e muovete, sbattete il tutto per alcuni minuti, poi sbattete i due bianchi di uovo quanto potete: “en neige”, dice essa, come la neve, cacciate anche questi nel gran miscuglio, tornate a muovere. Ungete una “tourtiere”, cioè un testo da torte, con butirro fresco, coprite il fondo della tourtiere con pasta sfogliata, ponete il miscuglio nel testo, su questo strato di pasta sfogliata, spargete sopra dello zucchero fino e fate cuocere il tutto al forno”.

“L’antica Liquoreria Marescotti incastonata nella duecentesca loggia”.
“L’antica Pasticceria Cavo”.

A riproporre la gustosa e risorgimentale ricetta è dal 1906 la Liquoreria Marescotti, incastonata nella duecentesca Loggia dei Gattilusio in Via del Fossatello. Fondata in Genova nel 1780, con il nome di “Cioccolateria Cassottana” e rilevata dalla famiglia Cavo nel 2008, inventrice a fine ‘800 degli Amaretti di Voltaggio.

In cucina funziona come nelle più belle opere d’arte: non si sa niente di un piatto fintanto che si ignora l’intenzione che l’ha fatto nascere
(Daniel Pennac).

“Cacao Meravigliao…”

Proveniente dal nuovo mondo il cacao, per la prima volta, venne importato da Cristoforo Colombo, durante il suo quarto viaggio nel 1502. L’esploratore ne fece dono, insieme ad una piantagione del frutto, all’imperatore di Spagna Carlo V che però non seppe che farsene.

Rimase questo episodio isolato perché è solo con il Conquistador Hernan Cortès che, a partire dal 1519, la pianta venne importata con maggior frequenza nel vecchio continente divenendo prodotto di smercio quasi esclusivamente spagnolo.

“Le invitanti vetrine di Buffa in Via Fiasella”.

Il primo carico documentato di cioccolato verso l’Europa a scopo commerciale viaggiò infatti nel 1585 su una nave dal porto di  Veracruz, in Messico, a quello di Siviglia. Qui infatti aveva sede il Reale Consiglio delle Indie, l’organismo attraverso il quale la corona spagnola controllava tutti i traffici commerciali, l’amministrazione, gli aspetti militari e religiosi delle proprie colonie d’oltre oceano. Snodo logistico di tutte le movimentazioni merci divenne il porto di Cadice dove, come del resto a Siviglia, i Genovesi registravano una forte e ben radicata presenza.

Il cioccolato veniva sempre servito come bevanda, ma gli europei e in particolar modo gli ordini monastici spagnoli, depositari di una lunga tradizione di miscele e infusi, ci aggiunsero la vaniglia e lo zucchero per correggerne la naturale amarezza e tolsero il pepe e il peperoncino, aromi con cui invece gli indios erano soliti consumarlo.

A cavallo fra ‘500 e ‘600 il cacao fu probabilmente importato in Italia, e precisamente in Piemonte, da Caterina, figlia di Filippo II di Spagna, che sposò nel 1585 Carlo Emanuele I, duca di Savoia. Nel Seicento il cacao arrivò in Toscana e in Veneto. Per questo motivo le prime città a produrre il cioccolato furono nel 1606 Torino, Firenze e Venezia.

Nel 1615 Anna d’Austria, sposa di Luigi XIII, introdusse il cioccolato in Francia dove fra il 1659 e il 1688, l’unico cioccolataio presente a Parigi fu David Chaillou.

Nel 1650 il cioccolato venne commercializzato anche in Inghilterra. A Oxford si iniziò a servire il cioccolato negli stessi locali in cui si serviva il caffè.

In Italia risale al 1678 la prima autorizzazione concessa dalla Casa Reale Sabauda “a vendere pubblicamente la cioccolata in bevanda”.

“Quelle di Tagliafico in Via Galata”.
“La rinomata Pasticceria Svizzera in Via Albaro”.

Nel XVII secolo divenne un lusso diffuso tra i nobili d’Europa.  Gli olandesi, abili navigatori e mercanti, strappano agli spagnoli il controllo mondiale e il predominio commerciale del cacao.

Nacquero così, nel secolo successivo, presso la gaudente Venezia le prime botteghe di caffè, gestite da ebrei che, come quelle presenti a Oxford, offrivano anche la cioccolata.

Alla fine del XVIII secolo fu inventato a Torino dal maestro cioccolatiere Doret il primo cioccolatino da salotto. Nell’ottocento la tradizione del cioccolato era talmente radicata a Torino e in Piemonte che gran parte dei cioccolatai attivi in Italia come, ad esempio, Gay-Odin a Napoli e la Bottega del cioccolato a Roma, erano originari di questa regione.

Nel 1802 un genovese, tal Bozzelli mise a punto uno strumento idraulico per raffinare la pasta di cacao e miscelarla con zucchero e vaniglia. Nel 1819 sul lago di Ginevra Francois-Louis Cailler elaborò un composto morbido che gli permise di ottenere per primo un prodotto destinato a rivoluzionare la storia del cacao: la tavoletta di cioccolato.

In realtà furono gli inglesi, l’anno successivo, a perfezionare il procedimento dell’artigiano svizzero e a produrre per primi su larga scala l’innovativo prodotto.

“L’irresistibile assortimento della pasticceria D. Villa, oggi Profumo, in Via del Portello”.

Nel 1826, sempre a Torino, Pierre Paul Caffarel iniziò lo smercio di cioccolato in grandi quantità grazie a una nuova macchina capace di produrre oltre 300 kg di cioccolato al giorno. Nel 1828 l’olandese Conrad J. van Houten brevettò un metodo per estrarre il grasso dai semi di cacao trasformandoli in cacao in polvere e burro di cacao. In virtù di questo procedimento chimico, attraverso il quale moderavano il gusto amaro del cacao, gli olandesi acquistarono grandi  fama e prestigio.

“Ancora Profumo con una sua vetrina in allestimento dedicata al cacao”.

Nel 1852 a Torino Michele Prochet cominciò a miscelare cacao con nocciole tritate e tostate creando la pasta Gianduia che verrà poi prodotta sotto forma di gianduiotti incartati singolarmente.

Nel 1875 con l’aiuto di un giovane commerciante di cibi per l’infanzia di nome Henri Nestlè, gli svizzeri scoprirono come rimuovere l’acqua presente nel latte ed eccelsero nella produzione di cioccolato al latte.

Nel 1879 Rudolph Lindt infine inventò il processo chiamato “concaggio” che consisteva nel mantenere a lungo rimescolato il cioccolato fuso per assicurarsi che la miscelazione fosse omogenea e armonica. Nacque così, prodotto con questo metodo, “cioccolato fondente”.

“Viganotti in Vico dei Castagna”. Foto di Bruno Mangini.

Fu dopo la metà dell’Ottocento che si impiantarono le prime fabbriche italiane di cioccolato, le ancor oggi famose Caffarel, Majani, Pernigotti, Venchi e Talmone. La crescente diffusione del cioccolato fece sì che nel secolo scorso ne fosse introdotta la produzione a livello industriale grazie a grandi aziende come: Perugina, Novi, Peyrano, Streglio, Unica e Ferrero.

“Scorcio del retrobottega con gli arredi di una volta”.

E Genova?

Se un genovese Colombo importò per primo il cacao e un genovese, sempre per primo, inventò un macchinario per migliorarne la produzione, la nostra città non può mancare all’appello.

La presenza dell’arte pasticcera a Genova è documentata già dal 700. Ne sono golosa testimonianza i nomi dei caruggi di “ Vico del Cioccolatte”, “dello Zucchero”, della “Fragola” nella zona del Carmine.

“Uno dei negozi di Panarello. Qui quello di Corso Buenos Aires”.

E’ il tempo in cui nascono prestigiose botteghe come Romanengo nel 1780, Pasticceria Villa poi Profumo nel 1827, Klainguti nel 1828, Preti nel 1851, la settecentesca Liquoreria Marescotti rilevata dalla famiglia Cavo a fine ‘800, e Panarello nel 1895.

“L’ingresso del laboratorio di Zuccotti in Via di Santa Zita”.

Anche nell’arte del cioccolato i genovesi vantano una solida e radicata tradizione. Sul finire dell’ottocento la Superba annoverava infatti ben 45 imprese artigiane cioccolatiere. Per numero e qualità nulla avevano da invidiare ai celebrati maestri piemontesi.

Per nostro gaudio la favola continua, golosa più che mai, grazie a  Viganotti dal 1866 presente in Vico Castagna, a Tagliafico in Via Galata dal 1890, alla Pasticceria Svizzera dal 1910 in Via Albaro, a Buffa in Via Fiasella dal 1932 e a Zuccotti in Santa Zita dal 1933.

“I sacchetti appesi prima di essere consegnati sembrano fagotti in attesa della cicogna”.
“Antico macchinario del laboratorio Zuccotti”.

Artigiani, anzi artisti, che con la loro passione e perizia mantengono alto l’orgoglio e l’umore nelle nostre feste.

Le Mura Nuove… seconda parte…

 

Nel 1637  in seguito all’elezione della Madonna a Regina della città, il Senato deliberò che la Vergine apparisse  affiancata dal motto “et rege eos” sugli stemmi e monete della Repubblica, sullo stendardo di palazzo Ducale e sulla galea Capitana della flotta.

“La Madonna  Regina conservata nell’atrio di Palazzo San Giorgio. La statua in origine posta sulla Porta della Lanterna fu scolpita da Bernardo Carlone”.

Con l’ampliamento secentesco le mura che proteggevano la costa vennero rinforzate con nuovi bastioni e, oltre la porta di san Tommaso, prolungate. Racchiudendo all’interno della cinta la Villa del Principe a quell’epoca ancora all’esterno del recinto fortificato, le Mura Nuove ripercorrevano tutto il litorale fino a Capo di Faro, ove si saldavano.

Dal vertice del Peralto, ove venne eretto il Forte Sperone le mura scendevano a ponente in direzione sud-ovest in linea retta fino al l Forte Begato, di qui con una lieve deviazione continuano a degradare lungo la strada che ne porta il nome “mura al forte di Begato”.

“Porta di Granarolo”.

Sopra a via Bartolomeo Bianco, furono invece le mura di Granarolo a dare il nome alla strada che le che le costeggiava e sulle quali si apriva l’omonima porta, disegnando un piccolo tratto arcuato verso l’esterno della cinta sino a raggiungere, ai limiti del colle di Promontorio, il baluardo di Forte Tenaglia.

 

Di qui la cinta prendeva direzione sud, proseguendo lungo via di Porta Murata, fino alla porta degli Angeli e le contigue mura omonime che correvano sopra una strada non a caso chiamata via sotto le mura degli Angeli. Il tratto terminava in via Giovanni B. Carlone che correva lungo lo scavo del colle di San Benigno.

All’epoca delle mura Nuove, sopra la zona che porta lo stesso nome e dove oggi trovano posto attività portuali e di transito, come piazzale San Benigno e la Camionale di epoca fascista, esisteva infatti un possente costone roccioso che ospitava la chiesa ed il convento di San Benigno, demoliti nell’Ottocento per costruirvi due grandi caserme, anch’esse poi scomparse negli anni trenta del Novecento per lo sbancamento dell’intera collina.

“La vecchia Porta della Lanterna”.

Il colle precipitava bruscamente in quel tratto ancora esistente sul quale sorge la torre del faro, e sul suo crinale proseguivano le mura di Genova che ne seguivano l’intero profilo fino a congiungervisi con la porta detta, appunto, della Lanterna, il cui prospetto di ordine dorico fregiato, opera del carrarese Ponsanelli, fu sostituita, a seguito di nuove esigenze di circolazione nel 1831 dalla cosiddetta Porta Nuova. Il nuovo accesso era caratterizzato da una struttura a doppio fornice scavata direttamente nella roccia e dotata di un ponte levatoio per ciascuna entrata.

“La nuova Porta della Lanterna”.

La vecchia porta venne definitivamente demolita nel 1877 per ragioni di viabilità ma anche la nuova, superata dai tempi e dagli sbancamenti del 1935, fu dismessa.
La sua facciata esterna venne conservata e ricollocata a ridosso della Lanterna.

Scendendo lungo i crinali di levante, la situazione delle mura nuove presentava all’incirca, con un andamento speculare, lo stesso schema.

“Porta delle Chiappe”.

Dopo un breve tratto di mura in direzione sud ma leggermente inclinato verso levante, s’incontrava il forte Castellaccio posto nel punto in cui le Mura prendevano una lieve deviazione verso l’esterno del tracciato, dando in successione nome alle vie che le costeggiavano, Mura del Peralto, delle Chiappe (o di San Simone) sulle quali si apre un varco che porta il medesimo nome, di Sant’Erasmo e, dopo la porta di San Bernardino, un rettilineo interrotto da un breve tratto convesso in direzione nord est in corrispondenza dell’omonimo tratto di Mura.

Nei pressi dei tornanti di via Cesare Cabella, le Mura di San Bernardino, divise dalle precedenti dal Forte di Multedo, disegnano un arco che porta le mura in direzione sud-sud ovest a metà del quale si apre la Porta di San Bernardino.

 

“Porta di San Bernardino”.

L’ultimo tratto oggi esistente ed intuibile in mezzo alla disordinata urbanizzazione della parte terminale delle mura nuove è quello delle mura dello Zerbino che terminano nei pressi di via Imperia, sopra la massicciata della Stazione di Genova Brignole.

Lo sbancamento della collina di Montesano per la realizzazione della stazione ferroviaria necessitò della distruzione dell’ultimo tratto collinare di mura e la realizzazione di piazza della Vittoria determinò l’eliminazione di uno dei tratti più imponenti e suggestivi delle mura nuove. Erano le fronti Basse, un unico immenso terrapieno che correva, coi suoi bastioni, per un rettifilo che, dal luogo occupato oggi dalla stazione, si portava fino ai bastioni del Prato, presso l’attuale via Brigata Liguria, nei pressi del Liceo D’Oria.

Su questo magnifico esempio di architettura bellica, di cui vennero rinvenute tracce durante la realizzazione nel 1991 del parcheggio sotterraneo di piazza della Vittoria (solo parzialmente conservate, altre fondamenta restano sotto i giardini di piazza Verdi), si aprivano due porte, quella della Pila, in fondo a via Giulia (cancellata per la realizzazione di XX Settembre) ed oggi conservata sopra al muraglione realizzato dopo il taglio della collina di Montesano, e Porta Romana in fondo a via San Vincenzo.

I numerosi e ripetuti, nel tempo, riempimenti a mare necessari allo sviluppo delle attività portuali hanno cancellato quello che per secoli ha rappresentato l’imprescindibile quinta di Genova, ancora oggi intuibile, dell’abbraccio fra i  monti e il  mare.

 

 

 

Le Mura Nuove… prima parte…

… storia di un’impresa faraonica…

A seguito delle ripetute minacce di invasione perpetuate da Carlo Emanuele I di Savoia e da Luigi XIII di Francia i serenissimi decisero di dotare la città di una nuova cerchia di mura, rafforzando, dove opportuno quella esistente. Ad appena un anno dal fallito attacco del 10 maggio 1625 delle forze franco-piemontesi (durante il quale l’esercito sabaudo non riuscì a tener testa alla strenua resistenza dei valligiani polceveraschi al passo del Pertuso, (dove a ricordo dell’avvenimento fu in seguito eretto il santuario della Vittoria), il governo della repubblica diede il via libera all’opera, inaugurata con la posa della prima pietra, il 7 dicembre 1626.

A tutti fu chiaro quanto il vecchio sistema di difesa murario fosse ormai inadeguato ed insicuro. I Padri del Comune deliberarono così il nuovo, ambizioso e faraonico progetto delle Mura Nuove per la cui gestione venne creato l’apposito e omonimo magistrato.

Nonostante Il Doge Andrea Spinola avesse incaricato il nobile Giacomo Lomellini che, per tre anni, assolse con zelo il suo compito, inizialmente i lavori stentarono a prendere il via.

“Porta Pila si trovava nella posizione che oggi corrisponde all’incrocio fra Via Fiume e Via XX settembre”.

Rinnovato impulso e slancio scaturì dalla fallita congiura ordita dal Vacchero nel 1628. La nuova e quasi definitiva mappa sarà però approvata solo nel marzo del 1630 presentando ancora varie soluzioni aperte per il fronte del Promontorio presso l’attuale forte Tenaglia. L’incarico di dirigere i lavori della fabbrica venne affidato ad  Ansaldo De Mari e, Architetto Capo, investito il comasco Bartolomeo Bianco.

Venne messa in piedi, con la collaborazione di tutta la cittadinanza, una macchina organizzativa molto efficiente: furono istituiti i ruoli di “Soprastanti”, “Sindaco” e “Commissari”.

I primi avevano il compito di sorvegliare e giudicare i lavori dati in appalto alle varie imprese controllandone qualità e conformità. I secondi si occupavano di gestire le questioni legali ed amministrative inerenti al personale che, a vario titolo, lavorava nella “Fabbrica”,con i fornitori dei materiali e rispondevano per l’operato ai contribuenti dell’erario. I terzi eletti in 21 membri fra i nobili erano destinati ad altrettanti cantieri sparsi qua e là verificandone lo stato dell’arte”. L’opera venne suddivisa in 22 lotti.

“Porta Romana in San Vincenzo”.

I varchi di accesso vennero così stabiliti: Una porta principale sul Bisagno fra due baluardi, Porta Pila, una porta principale presso Capo di Faro, la Lanterna, un portello in Piazza degli Angeli, uno presso la chiesa di San Simone, uno presso la chiesa di San Bernardo superiore, un portello presso San Bartolomeo, un portello presso Porta Romana, un portello a San Lazzaro, un portello davanti ai giardini del Principe. Le vecchie porte di accesso al porto del Molo, Cattanei, Mercanzia, Reale, Spinola e Calvi, furono inglobate.

“Porta di San Bartolomeo sotto il castello Mackenzie”.

Persino il clero partecipò stipulando una polizza decennale per la contribuzione all’opera: 10 soldi per ogni mina di grano e 20 per ogni mezzarola di vino. Il perimetro delle nuove mura venne calcolato per una lunghezza di 49000 (circa 19 km) palmi ad un costo di 410000 scudi d’oro.

Per favorire il reclutamento della manodopera necessaria venne intimato ai consoli dei mestieri minori di individuare il numero di artigiani consono che potesse garantire la sussistenza del relativo mestiere e di dirottare le risorse in esubero ai cantieri.

Pena pesanti multe anche la forza lavoro destinata ad attività private venne ridotta in maniera drastica per non sottrarre utili risorse all’ambizioso progetto comune.

Le lastre che furono utilizzate, chiamate “ciappe” provenienti dalla chiappella della zona di San Benigno, non erano però sufficienti. Si ricorse così alla sabbia delle spiagge, per il cui trasporto vennero requisiti quasi tutti gli animali da soma causando inevitabili disagi alle attività agricole.

“Il tracciato delle Mura Nuove”.

Le calci erano prodotte nelle fornaci di Sestri Ponente e Cogoleto. Venne studiato nei minimi dettagli un ingegnoso sistema di approvvigionamento idrico, costituito di cisterne canali e condotte che potesse fornire acqua in loco. Per sfamare e attrezzare le migliaia di operai vennero istituiti forni pubblici per la distribuzione del pane e incentivare le attività artigianali dei fabbri. Venne istituito un apposito magistrato che si occupasse della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e, soprattutto, che sapesse gestire la variabile delle frequenti epidemie.

Padre Fiorenzuola, il celebre architetto a cui era stata richiesta consulenza in fase di progettazione nel 1633, ad opera ormai compiuta, espresse tutta la sua soddisfazione e ammirazione.

continua…

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Quando Via Cesare Battisti e Piazza Merani…

quando la via intitolata al celebre patriota trentino era ancora poco più che una creuza in una distesa di prati e sterrati… quando non c’era ancora la scuola Diaz, teatro delle arcinote nefandezze legate al G8… quando in fondo alla piazza il civico sede oggi di un supermercato nel dopoguerra avrebbe accolto un deposito per pullman (Delle Alpi)… quando nemmeno esisteva il capolinea della linea 36 del bus… ma solo gli anelli a cui legare i quadrupedi.

Il Presepe della Maddalena…

Nella Chiesa di Santa Maria della Maddalena vi è un altro presepe marmoreo simile a quello, più noto, della Chiesa del Gesù. Meno ricco di dettagli e molto più essenziale non è però da meno.

La mano tuttavia, nonostante le figure nitide e al con tempo morbide dei personaggi, non è la stessa.

Infatti anche se in molte pubblicazioni viene attribuita a quella precisa e sapiente di Tommaso Orsolino, l’autore risulta ignoto.

Nel Paliotto della mensa lo scultore immortala S. Paola mentre s’inginocchia in adorazione del bimbo.

I personaggi scolpiti con mirabile maestria, oltre alla santa i putti e gli angioletti ai lati, raffigurano una modesta Maria dall’umile, quasi imbarazzato sguardo e un Giuseppe invece, colmo d’orgoglio e partecipazione.