“Una terrazza sul Sudamerica”…

Sulla collina d’Albaro dove un tempo si sviluppavano orti e giardini si trova la scenografica scalinata, realizzata nei primi del Novecento in stile liberty, intitolata a Giorgio Borghese. Concepita su quattro livelli presenta anche dei locali chiusi che, nel progetto iniziale, avevano solo una  funzione puramente estetica e che oggi sono in attesa di essere riqualificati.

“La Scalinata”. Foto di Leti Gagge.
“Particolare della scalinata “. Foto di Leti Gagge.
“La fontana”.Foto di Leti Gagge.
“Uno dei locali coperti”. Foto di Leti Gagge.
“Sotto Scalinata Borghese i palchi delle autorità per l’inaugurazione del monumento al Generale Belgrano nel 1927”. Immagine tratta da C’era una volta Genova.
“La statua del Generale Belgrano con scalinata Borghese sullo sfondo”.
“Il monumento in una recente foto”.

Su una targa c’è scritto «Scalinata Giorgio Borghese, genovese, secolo XVIII, tra i fondatori e primo cittadino della capitale uruguagia di Montevideo».

Dal rapallese eroe dell’indipendenza uruguaiana lo sguardo volge verso Piazza Tommaseo dove si staglia la statua di un altro rivoluzionario sudamericano, il generale Manuel Belgrano, rappresentato a cavallo nell’atto di guidare alla carica i suoi soldati.  Manuel, di origine onegliese, fu un avvocato, uomo politico e d’armi, padre della patria argentina. A lui si deve la creazione della bandiera “albiceleste”. Il drappo consiste in due bande esterne azzurre con una bianca centrale, i colori con cui sono tradizionalmente raffigurate le vesti della Madonna. Al centro campeggia il logo del Sol de Mayo (divinità indigena) a ricordare la rivoluzione del maggio 1810 da lui ordita. Il monumento, opera di A. Zocchi, fu regalato ai genovesi dagli argentini in segno del perenne legame fra i due popoli (basti pensare alle vicende della fondazione della Boca). La maestosa scultura venne inaugurata nel 1927 alla presenza delle autorità , del re d’Italia Vittorio Emanuele e di Benito Mussolini.

AL
GENERALE
MANUEL BELGRANO
GLI
ITALO-ARGENTINI
MCMXXVII

(nella prima targa sottostante)
MANUEL BELGRANO
FIGLIO DI LIGURE UNA VITA DEDICATA
ALL’INDIPENDENZA DELL’ARGENTINA
PREMONITORE DI UN PROCESSO DI
ITALIANIZZAZIONE, CREO’ UN LEGAME
DI PROFONDA FRATELLANZA.
AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA ARGENTINA
20 GIUGNO 1988

(nella seconda targa)
ACADEMIA BELGRANIANA
DE LA REPUBLICA ARGENTINA
HOMENAJE AL
GRAL. DON. MANUEL BELGRANO
EN EL CINQUENTENARIO DE LA
INAUGURACION DE SU
ESTATUA ECUESTRE EN GENOVA
BUENOS AIRES – 1924 – 12 DE OCTOBRE DE 1927

(nella terza targa)
HOMENAJE DE LA ACADEMIA BELGRANIANA
DE LA REPUBLICA ARGENTINA
Y DEL LICEO MILITAR GENERAL “SAN MARTIN”
AL GLORIOSO GENERAL MANUEL BELGRANO
PRECURSOR, LIBERTADOR, FUNDADOR
DE LA NACION ARGENTINA
Y CREADOR DE SU BANDERA
GENOVA, 18 DE ENERO DE 197[   ]

(nella quarta targa)
MANUEL BELGRANO
PATRIOTA ARGENTINO FIGLIO DI LIGURI
E SIMBOLO PERMANENTE A GENOVA
DELL’AMICIZIA ITALO-ARGENTINA

AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA ARGENTINA
CONSOLATO GENERALE DELLA REPUBBLICA ARGENTINA

10 – XII – 1993

(nella quinta targhetta)
MANUEL BELGRANO
CREATORE DELLA BANDIERA ARGENTINA
EROE DELLA LIBERTÁ E DELLA
INDIPENDENZA DELLA SUA PATRIA
LA FEDE CATTOLICA, LA LEGGE
GIUSTIZIERA, LA SPADA MISERICORDE
]O ALTO ESPONENTE DELLA SUA
PERSONALITÁ PER LA GLORIA DEL S[
]E ONORE DELLA SUA STIRPE GENOVESE
GENOVA 16 GENNAIO 19[
(a sinistra)
S. E. A.
POR LA TRADICION
INDUSTRIA Y ARTE
LIBERALES

“L’imbocco di Corso Buenos Aires dal lato di Piazza Tommaseo”. Cartolina di inizio ‘900 tratta da Old Genoa.

Dalla scalinata Borghese la vista prosegue spegnendosi all’orizzonte nella prospettiva di Corso Buenos Aires, capitale di quell’Argentina della cui indipendenza Manuel Belgrano è stato uno dei principali artefici.

… Quando a Caricamento…

Quando Caricamento non era stata ancora offesa dalle bombe che l’avrebbero colpita  il 22 ottobre del 1940… quando nemmeno il più scellerato dei palazzinari avrebbe potuto immaginare che, nel dopoguerra, al posto del fronte mare medievale di Sottoripa, avrebbero costruito un leviatano di cemento.

Quando la piazza voluta dai reali sabaudi fungeva da capolinea ferroviario per la tratta che collegava il porto della Superba direttamente con Torino.

“I palazzi sventrati del fronte mare dopo il bombardamento del 1940”.
“Foto delle macerie nell’immediato dopoguerra. Torre Morchi assiste sgomenta e preoccupata. I suoi vicini non ci sono più”. Archivio fotografico del Comune.

 

“La piazza a fine ‘800 con la statua di Raffaele Rubattino regolarmente al suo posto”. Cartolina della Collezione di Stefano Finauri.

Quando non era difficile intuire perché la piazza, centro di smistamento merci, avrebbe assunto a partire dal 1854 quel nome ma, solo dal 1893 sarebbe stata sorvegliata dalla statua di Raffaele Rubattino, l’armatore protagonista delle imprese garibaldine, eseguita dallo scultore Augusto Rivalta.

:.. Quando a Villa Rostan…

c’erano i giardini e un parco…

Quando la cinquecentesca Villa Lomellini Rostan non era ancora stata trasformata nella prestigiosa sede del Genoa CFC … quando una parte dei suoi variopinti giardini non aveva di conseguenza  assunto le familiari sembianze del campo d’allenamento Signorini (dal 2005), un tempo Pio XII, in memoria dello storico capitano scomparso nel 2002 a causa della sla.

“Pagoda cinese nei giardini di Villa Pallavicini”.

Costruita da Angelo Lomellini nel ‘500 fu abbellita nel tardo ‘700 dal doge Agostino Pallavicini con uno dei più importanti giardini all’inglese d’Europa. Architetture floreali talmente suggestive da risultare fonte d’ispirazione, nel secolo successivo, per Michele Canzio nella realizzazione di quelle, se possibile, ancora più sfarzose del parco di Villa Durazzo Pallavicini a Pegli.

Quando alla fine del Settecento la villa passò per via ereditaria alla famiglia, a cui deve il nome, Rostan e, a metà del ‘800, fu dotata di una cappella gentilizia dedicata a San Filippo Neri…

“Romantica rappresentazione del bucolico giardino della villa”.

Quando sul finire dello stesso secolo divenne patrimonio degli ultimi e attuali proprietari, i marchesi Reggio.

“Gli affreschi di Bernardo Castello”.
“Gli esterni sbiaditi della Villa, un tempo riccamente decorati”

Villa Rostan, impreziosita dal cinquecentesco ciclo di affreschi di Bernardo Castello che rappresenta le imprese di Coriolano, costituisce tuttora ineguagliabile quinta, degna cornice dell’aristocratico blasone del sodalizio calcistico più antico d’Italia.

 

“Asterix ed Obelix”… seconda parte

… “E quando Roma ha voluto regalarsi una comoda via per passeggiare nel suo dominio e legarselo per l’eternità, è arrivato in quei luoghi il console Aurelio. Un console grasso e pieno d’ira che spingeva avanti a colpi di gladio, con la sapienza e la crudeltà che hanno come dote naturale i tracciatori d’imperi, un’altra immensa carovana cicalante di diecimila e più tra schiavi e picchettini e sterratori e camalli, operai e ingegneri, e puttane e bestie da soma e da sell, tutti quanti a ritmare per la parte che gli toccava l’infinita cantilena della strada che avanza. E la strada avanzava diritta, avendo per limite soltanto il lontano fiume Oceano, oltre tutte le montagne, i fiumi, le pianure, oltre tutte le genti e ancora oltre.

E quando arrivò alla valle degli Apui, al console fu fatto notare che affioravano, mal sepolti fra i cavezzi e le mortelle della prataglia, i resti di cinquemila suoi commilitoni e del collega console Marcello. Dolente e furioso alzò lo sguardo al cielo dei suoi dei di vendetta e incontrò quel poggio disperato da dove, a quattro zampe, c’era chi li stava spiando.

Egli fece compiere allora alla sua Via una complicata manovra a serpente che, deviando dal percorso stabilito, invadesse i bozzi dell’acquitrino, bonificando ogni eventuale traccia di invendicata ferita romana. Ci morirono in parecchi tra i suoi, nel tirar su tra la polta malarica un terrapieno che tenesse l’armatura di una via consolare destinata a durare per l’eternità, ma infine ci riuscì tronfio e testardo.

“Mappa delle tribù liguri dislocate sul territorio”.

Terminata l’opera, fece rifare i calcoli a suo comodo per collocare proprio nel punto che poteva essere visto dalle tane di quel poggio, un bel cippo militare in pietra bianca di quelle montagne con sopra incise quattro C in maiuscolo monumentale. Mai una strada si era spinta così avanti nel mondo nero dei barbari.

La notte che l’opera fu finita fu posato il cippo, dall’alto del loro recinto ormai definitivamente inchiavardato, quel poco di gente che c’era, vedeva spandere dalla pietra cavata dai suoi monti una luce più candida della luna, una luce che confondeva il cielo e abbagliava ogni possibile cammino nella valle. E quel bagliore se lo indicavano muti a vicenda”.

Non tutti gli Apuani furono deportati. Alcune comunità sopravvissero ancora nel territorio montano, tanto che ancora nel 155 a.C. (ben 25 anni dopo le grandi deportazioni che evidentemente non erano state risolutive) gli Apuani capeggiavano una coalizione di Liguri sconfitta dalle legioni del console Marcello in una guerra che non deve essere stata secondaria. Infatti il console ebbe l’onore del trionfo e i cittadini romani di Luni ringraziarono il generale romano dedicandogli una colonna rituale che celebrava la vittoria sugli Apuani (la stele è stata rinvenuta da scavi archeologici nell’area di Luni).

Racconta Livio “… partì per primo Quinto Marcio per raggiungere il territorio dei Liguri Apuani. Mentre li inseguiva addentrandosi in gole nascoste, che essi avevano sempre usato come nascondigli e rifugi, giunto in una strettoia che i Liguri avevano già precedentemente occupato, finì con l’essere circondato in una posizione sfavorevole. Furono uccisi quattromila soldati (…) il console, appena uscito dal territorio nemico, volendo evitare che apparisse chiaramente di quanto le sue truppe si erano assottigliate, ripartì l’esercito in diverse zone del territorio pacificato. Ma non gli riuscì di impedire che quella sconfitta acquistasse una sua rinomanza, perché i Liguri chiamarono Salto Marcio il luogo in cui lo avevano messo in rotta”. Livio XXXIX,20.

“La copertina del libro di Marcuccetti, uno dei massimi esperti della materia”.

Nel 186 a.C. i Liguri Apuani inflissero una grave sconfitta al console Quinto Marcio Filippo, ed alle sue legioni, dopo averle attirate nelle strette gole della zona. Furono uccisi non meno di 4.000 legionari ed il luogo del disastro fu quindi successivamente chiamato “Saltus Marcius”, forse l’attuale località di Marciaso (che deriverebbe da Martii Caesio), forse le strette gole sopra Seravezza, nel territorio del comune di Stazzema. Tra Pontestazzemese e Cardoso esiste ancora oggi un colle denominato “Colle Marcio”, con un probabile riferimento al “saltus Marcius” (salto nel senso di dislivello e Marcius dal nome del console romano), nome che secondo Tito Livio avrebbe preso la località a seguito della battaglia.

Questo insomma è l’anno di gloria degli Apuani che riescono a battere i Romani grazie ad un’imboscata. Comunque, dopo tante sconfitte, gli Apuani riescono finalmente a prendersi una rivincita prima della tragedia finale. Il coraggio e la fierezza di questo popolo che non scende a compromessi è davvero ammirevole.

“Riproduzione di un guerriero ligure con il copricapo di lupo”.

I successi dei Liguri Apuani, però, furono di breve durata: tra il 180 a.C. ed il 179 a.C. gli Apuani sopraffatti vennero in gran parte deportati nel Sannio (Macchia di Circello), in due scaglioni ed anni successivi composti, se vogliamo dar credito alle cifre trionfalistiche di Tito Livio, di 40.000 e 7.000 individui per convoglio.

Nonostante la provvisorietà delle loro vittorie gli Apuani, uomini e donne, furono ricordati a lungo come valenti guerrieri dai romani e alcuni storici romani li descrivevano così: “Le donne combattono come gli uomini, spietate e feroci come fiere” e ancora, con riferimento alla sconfitta romana del 186 a.C., “si stancarono prima gli Apui di inseguire, che i romani di fuggire”. Ma i Romani erano destinati a tracciare un solco indelebile nella storia. Di lì a poco avrebbero dato la civiltà al mondo costruendo ponti, acquedotti e strade.

Strade come la via Aurelia l’antica via consolare iniziata, alla metà del III secolo a.C. dal console Gaio Aurelio Cotta, per congiungere Roma a Cerveteri e poi prolungata fino a collegare le nuove colonie militari sul litorale tirrenico.

Quel selciato puntellato di sampietrini sta lì a ricordarci questa meravigliosa storia scritta con il rosso scarlatto del sangue dei suoi eroici protagonisti, i nostrani Asterix ed Obelix che, forse, sarebbe meglio chiamare Albiorix (il dio celto ligure delle montagne) e Obelin.

In Copertina: Striscia di Asterix in lingua genovese.

“Guerriero Apuano”.

“Asterix ed Obelix”… prima parte

Fin da bambino i fumetti di Asterix e Obelix sono stati patrimonio del mio immaginario, in particolare da quando mio padre, nella speranza di farmi appassionare al latino, materia nella quale deficitavo, me ne aveva persino regalato un volume nella lingua degli antichi romani. Al latino mi sono appassionato poco, in compenso molto di più alle avventure dei due eroi per i quali ho sempre, nonostante l’esilarante simpatia degli invasori romani, fatto il tifo.

Eppure questi personaggi sono realmente esistiti ma non erano Galli come nella striscia di René Goscinny e Albert Uderzo bensì Liguri montani, più precisamente Apuani fedeli alleati, al tempo delle guerre puniche, dei Cartaginesi. Al posto della misteriosa e corroborante pozione magica del Druido sorbita per combattere il nemico, mi sono immaginato i nostri eroi consumare abbondanti porzioni di basilico e di agliato pesto, magari spalmato sugli archetipi dei loro gustosi testaroli.

“La copertina del romanzo di Maggiani”.

Roma caput mundi ha impiegato circa 250 anni per occupare quella terre e sfaldare la coriacea resistenza di quelle popolazioni, molto più coraggiose e indomabili rispetto a quelle di altre celebrate nazioni. Una vittoria sui Liguri era considerata talmente provvisoria e temporanea che nella Città Eterna venne coniata, a sottolinearne il carattere aleatorio, l’espressione “… come un Trionfo sui Liguri”.

Maurizio Maggiani nel suo celebre romanzo “Il Coraggio del Pettirosso” ne racconta magistralmente le vicende attingendo a piene mani dalle fonti di Strabone e Tito Livio:

“Ripartizione delle tribù liguri”

“Era un popolo quello Apuo che abitava la valle di un dolce grande fiume, con molte fiumane che gli si precipitavano addosso dalle gole profonde di un giogo di montagne aguzze e franose. Le montagne erano bianche, di un marmo morbido e poroso che diventava d’oro scarlatto quando raccoglieva il sole basso del tramonto. La valle arrivava al mare per un’ampia piana, ricca di tutti gli umori necessari a far crescere le piante e gli animali. Erano un popolo di bestie, senza una città e senza una scrittura; per questa ragione non c’è mai stato nulla in nessun luogo che parlasse per loro. Né hanno mai voluto in qualsivoglia modo parlare direttamente ai rappresentanti dell’impero di Roma in caccia di nuovi possedimenti, quando, è come se li vedessi qui davanti a me, si sono presentati in pompa magna per chiedere il pegno del vassallaggio, cercando di spiegare a quelle teste di pietra il vantaggio che ne sarebbe derivato. Non hanno mai avuto idea di parlamentare o trattare. E questo lo dicono i cronisti di Roma. E dicono anche che è stata una gran follia non voler capire dove stava tirando il vento, una sciagura da addebitarsi al fatto che quel popolo non era di veri uomini, quanto piuttosto di mostri selvatici e indecifrabili. Allora si procedette come di consueto in queste faccende d’insubordinazione. Le legioni spianarono l’erba grassa della piana, i carri da guerra ararono la valle per tutta la sua lunghezza e i cavalli asciugarono le fiumane con la gran sete dei conquistatori.

Perché Roma non la ferma nessuno. Così che gli Apui si fecero ancora più lupi di com’erano e si issarono sulle montagne più impervie e resistettero. Durarono a guerreggiare 250 anni, ed è una cosa inaudita che possa essere successo. Avranno mangiato pane fatto con la farina macinata dalla pietra del marmo per poter durare così tanto, si saranno mangiati tra loro, o avranno sbranato i lupi loro cugini. O forse erano lupi, se è vero quel che dicono i Romani. Che un giorno piovvero a branchi da ogni lato del cielo sul grande accampamento fortificato alle pendici del Monte Caprione e fecero a pezzi cinquemila tra fanti e cavalieri. Rapinarono cento carri carichi di vettovaglie, e salmeria e bagasce a frotte, con il console Marcello nascosto fra le loro sottane dorate. E si sentivano i buoi mugghiare per il dolore di vedersi mangiati vivi. Cinquemila in un giorno solo: che gran inviperimento al senato di Roma e che rabbia.

“Elmo di un guerriero apuano”.

E infatti non si badò a spese e di conseguenza gli stolidi Apui, gli abominevoli rigettatori della clemenza di Roma, vennero debitamente sterminati. Furono arsi i boschi, avvelenati i sorgivi, spazzolati i recessi e le tane con la striglia delle ottanta centurie del console Claudio, l’élite delle armi, lo scudo inflessibile della sacra difesa dell’impero. Ogni accorgimento fu approntato perché non rimanesse nessuno, non un bambino, una puerpera, un vecchio, che non fosse stato toccato dalla mano della vendetta. Per chi ne uscì vivo fu organizzato un convoglio in catene per consegnarlo, possibilmente con ancora un po’ di fiato nell’anima, alle miniere di rame del sannio, all’altro capo dell’Italia.

“Guerriero apuano”.

Bisognava averlo visto quel corteo di diecimila semi uomini che attraversava l’Italia tenuto per la catena. Che figliava, che si straziava di dolore, che avvizziva di rabbia, che cresceva e moriva, che forse faceva l’amore . E mangiava, dormiva e cagava sotto la scorta del trionfo di Roma. Spettacolo a imperitura memoria per tutte le genti che lo hanno visto passare per la durata di un anno e forse più, per la lunghezza di mille miglia e forse più”.

continua…

Quando c’era il Littorio…

Quando a Cornigliano, al posto dell’odierna rimessa dei bus di Via S. Giovanni d’Acri, c’era il campo Littorio.

Lo stadio  concepito dalla gerarchia fascista nel 1927 per ospitare le antenate della Sampdoria,  Dominante e Liguria prima,  Corniglianese e Sampierdarenese poi…

quando gli spalti potevano ospitare fino a 15000 spettatori e il suo terreno di gioco teatro di ben 17 campionati professionistici (11 di serie A. 5 di B, 1 di C).

La struttura, parzialmente distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, fu utilizzata per i primi tempi dalla neonata Sampdoria come campo di allenamento…

quando nel 1950 lo stadio era stato appena, l’anno successivo alla tragedia di Superga, intitolato Valerio Bacigalupo, portiere ligure del Grande Torino scomparso in quella tragica occasione…

quando, ormai obsoleto nel 1958, il Littorio venne definitivamente demolito per far spazio al deposito dei mezzi del Comune.

“Il Tempo delle Mele”…

Il toponimo di Vico Mele ha una genesi incerta. Secondo alcuni trarrebbe origine dalla famiglia proveniente dall’omonimo paesino sulle alture di Voltri, per altri, molto più semplicemente perché qui avevano sede le botteghe e i magazzini del succoso frutto.

“La parte bassa del prospetto presenta ancora le classiche lesene alternate bianco nere”. Foto di Leti Gagge.

Al vicolo è legata anche una curiosa leggenda che racconta di una misteriosa meretrice, bruna di capelli, di pelle ambrata e dalle prosperose forme che fa girar la testa e, soprattutto, sparir il portafoglio degli incauti clienti.

“Il calco dell’edicola quattrocentesca in stile gotico”.

Al civ. n. 6 si trova il Palazzo Brancaleone Grillo conosciuto anche, dal nome dei successivi proprietari, come Serra. Dentro al cortile di accesso al loggiato si trova una meravigliosa rappresentazione quattrocentesca di Madonna con il Bambino, calco di una delle più affascinanti edicole del centro storico. Realizzata in forma allungata e in un raffinato stile gotico francese presenta nella nicchia il rilievo della Vergine con il Bambinello in braccio.

L’immagine nel suo insieme, e il gioco di sguardi in particolare, trasmettono un intimo senso di complicità. Sotto la mensola, su una pigna con motivi floreali, campeggia lo stemma del casato. Data l’importanza dell’opera, per preservarla dalle intemperie e dai vandalismi, l’originale è conservata presso il Museo di S. Agostino.

“San Giorgio che uccide il drago di G. Gagini”. Foto di Leti Gagge.

“Portale con relativo sovrapporta”. Foto di Leti Gagge.

Il portale del palazzo, attribuito alla sapiente mano di G. Gagini, offre la classica effige di San Giorgio che sconfigge il drago sdraiato sotto il cavallo con la principessa in preghiera. Sullo sfondo due figure femminili alate che reggono in mano la fiaccola e il giglio e sotto gli scudi con gli stemmi nobiliari. La tavella risulta infine impreziosita da una ricca cornice con girali e putti. Alla base l’iscrizione recita:

Qvi Ovcis Voltvs Deo Saspicis Ista Libenter: Omnibvs Invideas Invide Nemo Tibi.

“Quanta storia è passata su questi scalini”. Foto di Leti Gagge.

“Scalone e colonnine murate”. Foto di Leti Gagge.

“La scalinata interrotta al primo piano”. Foto di Leti Gagge.

La facciata presenta la tradizionale alternanza di conci di marmo bianco e nero sulla quale sono visibili alcune colonne murate, poggioli con colonnine di marmo e archetti trilobati che proseguono anche sul lato di Vico Colalanza e Vico San Luca. All’interno lo scenografico scalone marmoreo che, a seguito delle successive ristrutturazioni, s’interrompe al primo piano.

Gli interni del piano nobile offrono affreschi, a tratti sbiaditi, di Luca Cambiaso, “Nozze di Amore e Psiche e Augusto assiso in trono” e di Lazzaro Tavarone, “Mosè con gli Ebrei nel deserto”, opere che permettono al palazzo(a quel tempo di proprietà di Nicolò Spinola) di inserirsi a pieno titolo, già a partire dal 1576, nel rodato sistema dei rolli.

Le numerose colonne con relativi capitelli tamponate lasciano presagire quanto imponente fosse il loggiato originario. Al civ. n. 11 esisteva un analogo portale a quello precedentemente descritto che venne acquistato e trasferito nel suo castello dal Capitano D’Albertis.

“Il sovrapporta con San Giovanni Battista nel deserto”. Foto di Leti Gagge.

All’angolo con Vico San Sepolcro ecco un altro antico portale in pietra nera di promontorio che rappresenta il Battista nel deserto al cospetto del Dio padre che affida la sua famiglia alla protezione divina. Il bassorilievo ricco di simbologie orientali e pagane rappresenta un’allegoria della famiglia proprietaria che volle affidarsi direttamente al Divino senza troppe intermediazioni.

“Il sovrapporta del Battista in primo piano”. Foto di Leti Gagge.

A destra una cicogna, forse uno struzzo vicino ad un leopardo sdraiato a terra davanti ad uno sfondo di alberi e rocce. Sulla sinistra San Giuseppe accompagna con la mano una figura femminile alata che esce da uno scudo. La scena rappresenta la presentazione del casato al cospetto del Dio Padre che appare all’estrema sinistra pronto ad accogliere benignamente la richiesta.

“L’Annunciazione in pietra nera sotto l’archivolto De Franchi”.

Sotto l’archivolto De Franchi ci si imbatte in un’altra Annunciazione in pietra nera decorata con stemmi abrasi del XVI sec.

All’angolo con Vico Spinola antiche tracce di una loggia tamponata con archi in pietra del XIII sec.

Nella piazzetta di San Sepolcro sorgeva, come testimoniato da apposita lapide, un antico oratorio oggi sostituito da una mediocre costruzione del dopoguerra.

Sul muro al civ. n. 2, vicino ai resti marmorei della decorazione dello scomparso portale, la lapide che attesta la proprietà del palazzo:

Dom / Hec Plateola Cvm Domo Magna Oposita / Est  Mag. Ci et Potenti.mi Militis. D. Lvce Spin / Vle Q. S. P. D. Io; Baptiste Hoc Anno  Em  / pta Ab Heredibvs Q Brancaleonis / et Antoniotis De Grilis Die pma Sept / Embris MCCCCLXXXXVI (1496).

“Vico Mele e il palazzo Brancaleone Grillo”. Foto di Leti Gagge.

La nobile schiatta ebbe origine da un certo Uberto valoroso capitano che nel 806 fu il primo a salire sulle mura di Costantinopoli durante l’assedio della città. L’imperatore Niceforo (dal greco significa “Colui che porta la vittoria”) testimone del fatto lo indicò come esempio ai suoi soldati: “Vedete voi quel grillo con quanta celerità sale sui muri?”. Da questo episodio l’origine del cognome dei suoi discendenti che ricoprirono ruoli di assoluto prestigio: cardinali come Geraldo nel 1134 , Oberto nel 1155 e Ottone 1251; ammiragli quali Simone vittorioso nel 1264 sui veneziani, Accellino che nel 1310 con sole dieci galee espugnò Rodi; padroni di territori e titoli nobiliari come Manfredo signore di Cassano Spinola nel 1306, Antonio di Piacenza nel 1317, Antonio di Sigismondo di Lerma nel 1396.

Nel 1528, con la riforma voluta da A. Doria, formarono il nono albergo. Molti ancora, per tutto il ‘600 e il ‘700, furono i membri di questa illustre casata che ricoprirono di prestigiosi incarichi e che di allori si fregiarono.

… Quando era il grattacielo più alto d’Europa…

Quando la Torre Piacentini era stata appena costruita dall’omonimo architetto… innalzata tra il 1935 e il 1940 è alta 105 metri distribuiti su 31 piani ed è tuttora il secondo grattacielo cittadino dopo la Torre di San Benigno, a tutti nota come “Il Matitone”…

“Le due Torri di Piazza Dante: a sinistra torre nord, a destra torre sud”.

quando per distinguerla dalla sorella più bassa era detta Torre Sud prima di essere negli anni identificata in relazione alle attività ospitate nella sua panoramica terrazza oggi sede degli studi dell’emittente televisiva Primocanale, come torre: Capurro, Martini e Colombo…

quando aveva avuto il primato di più alta costruzione italiana ed europea in cemento armato dell’epoca,  di grattacielo più alto d’Italia fino alla costruzione della Torre Breda di Milano nel 1954, e di grattacielo più alto d’Europa fino alla costruzione della Kotel’ničeskaja naberežnaja di Mosca nel 1952.

…. Quando Maciste…

Quando Bartolomeo Pagano, il gigante di S. Ilario, non era ancora diventato né il celebre Maciste cinematografico, né lo scultoreo modello per il Monumento dei Mille di Quarto

… quando, con i suoi colleghi camalli della Compagnia dei Caravana, faticava in porto e si cimentava in formidabili gare di forza con il leggendario Cescu, o in pantagrueliche scorpacciate di fumante minestrone, di cui andava ghiotto, al pesto…

… quando presso la scomparsa trattoria della Nina ne consumava diverse xatte e non bastavano mezzo litro di rosso e un chilo e mezzo di pane per sfamarlo.

In copertina foto di gruppo del 1910: il terzo seduto, partendo da sinistra con la maglietta scura è Bartolomeo. Il terzo in piedi da sinistra con baffi è il campione di sollevamento pesi Penco.

“Era una casa”…

… molto carina. Senza soffitto senza cucina. Non si poteva entrarci dentro. Perché non c’era il pavimento. Non si poteva andare a letto. In quella casa non c’era il tetto. Non si poteva fare pipì. Perché non c’era vasino lì. Ma era bella, bella davvero. In via dei matti numero zero”… così recitava la prima strofa della celebre canzone di Sergio Endrigo. Per fortuna nella casa di cui vi voglio parlare c’è quasi tutto e risulta tuttora essere una delle attrazioni turistiche più gettonate della Superba. Sita proprio davanti allo scenografico ingresso di Porta Soprana, uno dei due principali varchi ancora esistenti delle Mura del Barbarossa, ecco la presunta Casa di Colombo.

Presunta si, perché secondo gli studiosi qui avrebbe abitato Domenico Colombo, padre del più celebre, a quel tempo giovinetto, Cristoforo. Si ipotizza di conseguenza che, insieme al padre, vi avrebbe dimorato anche il futuro esploratore che, all’epoca, avrebbe dovuto avere circa quattro anni.

“La casa di Colombo con i rampicanti che ne coprono le iscrizioni”. Foto di Leti Gagge.

Domenico infatti, a causa dei mutamenti politici avvenuti in seno al governo cittadino, aveva perso il suo tranquillo lavoro di custode presso la Porta dell’Olivella ed era stato costretto ad inventarsi un nuovo impiego. Si era quindi riciclato artigiano lanaiuolo e per praticare tale attività che, proprio nella contrada dei Lanaiuoli  presso Vico Dritto di Ponticello aveva il suo fulcro cittadino, vi si era trasferito.

Fra il 1455 e il 1470 l’antica dimora avrebbe dunque ospitato l’esploratore dove il padre, per arrotondare e riuscire a sbarcare il lunario, oltre ai tessuti, smerciava vini e formaggi.

“Cartina delle rotte percorse dall’esploratore durante i suoi viaggi nel nuovo continente”. Foto di Sergio Gandus.

“Il racconto del primo viaggio del 1492 tratto dai Diari di bordo”. Foto di Sergio Gandus.

Ai foresti lasciamo pure l’illusione di quel “presunta” ma in realtà, essendo l’abitazione originale andata distrutta nel maggio 1684, gli storici concordano nel decretarne la non autenticità. Insomma un “falso storico” acclarato.

Fu infatti il devastante bombardamento navale francese ordinato da Re Sole, Luigi XIV, a radere al suolo senza alcuna pietà la costruzione primitiva che era costituita da due o tre piani dei quali il primo adibito a bottega e gli altri due ad abitazione.

Nel ‘700 sulle macerie di quella originaria la casa fu ricostruita, più o meno fedelmente, nella versione che possiamo ammirare ancora oggi e nel corso dei secoli successivi venne ulteriormente modificata con la sopraelevazione di altri piani fino al raggiungimento dei cinque.

“Bassorilievo marmoreo che riproduce la caravella Santa Maria. Scultura fatta eseguire dal Capitano D’Albertis grande ammiratore dell’illustre predecessore”. Foto di Sergio Gandus.

Nel 1887 il Comune ne divenne proprietario impegnandosi, per fortuna, a preservarla dai futuri sconvolgimenti che avrebbero interessato la zona. Nel 1898 infatti le case di Vico Dritto di Ponticello vennero abbattute e con esse i tre piani posticci che, appunto, poggiavano sulle costruzioni limitrofe. Nei primi decenni del Novecento con la risistemazione del quartiere e, di fatto, la sparizione degli antichi borghi di Ponticello e del Morcento (attuale Via Ceccardi) la casa di Colombo è rimasta isolata e avulsa dal suo originale e vitale contesto.

Sul prospetto che oggi consideriamo principale campeggia la lapide marmorea sotto lo stemma cittadino protetto da due orgogliosi Grifoni che recita:

“Nulla Domus Titulo Degnior Paternis In Aedibus Christophorus Columbus Pueritiam Primamque Juventam Transegi”. “Nessuna casa è più degna di considerazione di questa in cui Cristoforo Colombo trascorse, tra le mura paterne, la prima gioventù”.

“Lapide che ricorda la dimora di Domenico e Cristoforo Colombo”. Foto di Sergio Gandus.

L’ingresso principale originale era invece posto verso il lato oggi occupato dal chiostro di S. Andrea la cui presenza in loco costituisce anch’essa, sebbene la conformazione sia assai suggestiva, un falso storico. Peccato perché l’immagine del futuro grande esploratore assorto sotto le colonne del chiostro del XII sec. intento nello studiare le sue ardite rotte era molto suggestiva.

“La Casa di Colombo orfana delle case di Vico Dritto di Ponticello a cui era addossata, in compagnia del Chiostro di S. Andrea sorvegliato dalle torri di Porta Soprana”. Cartolina primi decenni del ‘900 tratta dalla Collezione di Stefano Finauri”.

Le ormai millenarie pietre vennero salvate dall’architetto portoghese Alfredo d’Andrade che si adoperò per recuperarle.

Nel corso infine di un restauro condotto nel 2001 sono stati effettuati importanti ritrovamenti di carattere storico archeologico che hanno portato alla luce tracce di muratura di probabile origine romana e una canaletta medievale sotterranea per lo smaltimento delle acque, una sorta di primitivo impianto fognario. La gestione della casa museo è oggi affidata all’Associazione Culturale Genovese “Porta Soprana” che al suo interno ha predisposto un percorso didattico “sulla rotta”, è il caso di dirlo, dell’Ammiraglio.