I Cavulin

I cavolini alla panna, immancabili protagonisti delle tavole domenicali, sono uno dei dolci più apprezzati dai genovesi.

Già nel 1863 il Ratto nella sua celebre Cuciniera li cita come beignets ripieni di soffice panna montata e ne spiega la preparazione:

”Con un coltello fate un piccolo  buco e introducetevi la panna montata o lo zabaione, spolverizzateli di zucchero. Serviteli freddi”.

Oggi i Cavulin, ormai per condivisa praticità, vengono realizzati con un taglio netto della parte superiore, che poi viene posta a cappello cosparsa di granella di zucchero su una godereccia nuvola di panna.

La vendita dei cavolini è assai diffusa sia nei bar e nei forni dolce salato che nelle più rinomate pasticcerie.

I Cavolini. Foto di Leti Gagge.

Accanto alla versione tradizionale a base solo di panna nel tempo se ne sono sviluppate altre che prevedono il bignè ripieno di crema, di zabaione, o di cioccolato e la sovrastante panna spruzzata di cacao in polvere o cannella.

“La vie n’est que de l’ennui ou de la crème fouettée”.

“La vita non è che noia o della panna montata”.


Cit. di Voltaire (filosofo francese 1694-1778).

In Copertina: I Cavulin protagonisti nel cabaret della Pasticceria San Sebastiano di Genova Quinto.

Le Sciamadde

Le sciamadde, dal termine genovese sciamadda ovvero “fiammata”, costituiscono caratteristico patrimonio della gastronomia genovese.

Difficile raccontarle perché, un po’ friggitorie, un po’ rivendite di torte, un po’ forni, un po’ rosticcerie, vanno frequentate, vissute e annusate.

Eppure questi spartani locali con le pareti rivestite con le classiche piastrelle bianche, il bancone di marmo e i tavoli di legno tipo osteria, custodiscono i sapori più autentici della tradizione.

Interno dell’Antica Sciamadda di Via San Giorgio. 14r Foto di Maurizio Romeo.

La loro origine risale intorno al tardo ‘600 quando Genova aveva il monopolio del sale. Le sciamadde, fornite di forni dove si potevano anche cuocere torte e focacce, venivano infatti utilizzate come vendita al dettaglio del prezioso minerale.

La principale caratteristica della sciamadda è proprio la proposta delle: torta di bietole, di cipolla, di riso, di carciofi e Pasqualina non possono mancare.

Le torte sul bancone dell’Antica Sciamadda di Via San Giorgio 14r. Foto di Maurizio Romeo.

Così come non possono mancare il polpettone e le verdure ripiene, la farinata, la panissa sia fritta che condita con olio e aceto o limone, i friscioeu e i cuculli.

I friscioeu sono frittelle aromatizzate con salvia tritata e/o rosmarino, maggiorana ed erba cipollina. I cuculli sono identici ma preparati con la farina di ceci al posto di quella zero.

Antica Sciamadda di Via San Giorgio 14r.

Questi luoghi del gusto povero, popolare ma sincero, veri antesignani del moderno street food, vanno purtroppo scomparendo.

Le sciamadde raggiunsero infatti la massima diffusione a cavallo tra ‘800 e ‘900 quando nei caruggi si potevano trovare un po’ ovunque. Oggi, a presidiare il territorio e a preservare la tradizione -spero di non averne dimenticato qualcuna- ne rimangono circa una decina: Trattoria Sciamadda di Ravecca 19r, Antica Friggitoria Carega in Sottoripa 113r, Le Delizie dell’amico in Canneto il Lungo 31r, Antica Sciamadda in Via San Giorgio 14r, Sa Pesta in Via dei Giustiniani 16r, Farinata dei Teatri in Piazza Marsala 5r, Ostaja San Vincenzo nell’omonima via al 64r, da Domenico in Piazza Giusti 56r, Franz & Co in Via Struppa 81r e Ristorante Vexima a Voltri in Via Cerusa 1r.

Buon appetito!

In copertina: La Sciamadda di Ravecca. Foto di Stefano Eloggi.

Vico Denegri

Vico Denegri costituisce tipico esempio delle suggestive atmosfere che si possono respirare nei nostri vicoli.

Il caruggio deve il suo nome all’omonima famiglia originaria di Portovenere.

Il capostipite di tale schiatta fu nel XII secolo un tal Manfredo detto, probabilmente per il colore brunito della sua carnagione, il Negro. Da qui quindi l’origine del cognome del casato.

Fra i membri dei Di Negro si segnalano illustri ammiragli: Guglielmo nella missione del 1205 per difendere Siracusa, Giacomo di Ottone nel 1257 contro i Pisani, Luchino di Galeotto nel 1330 al servizio del re di Napoli Roberto D’Angiò.

Salvago Di Negro nel 1334 fu invece straordinario capitano che al comando di 10 galee sconfisse la temibile e più numerosa flotta catalana.

Degna di menzione anche Franceschetta di Sigismondo che nel 1447 dette alla luce la futura Santa Caterina di Genova, ovvero Caterina Fieschi Adorno.

Nel 1528 i Di Negro formarono (a parte un ramo già confluito nei Giustiniani) il quarto albergo della riforma doriana.

Nel 1585 Ambrogio di Benedetto fu Doge e numerosi poi dal ‘500 a fine ‘700 furono i senatori della Repubblica. Nel 1586 Benedetto di Giuseppe Giustiniani Di Negro rivestì la carica di Cardinale.

Ma il personaggio più famoso fu senza dubbio Andalò di Salvago. Figura di ingegno poliedrico. Fu scienziato, astrologo, poeta, ambasciatore, amico di Marco Polo e nel 1342 addirittura maestro del Boccaccio.

L’inquadratura dello scatto ritrae il tratto di caruggio successivo alla loggia del Palazzo Ambrogio Di Negro il cui ingresso principale si trova in Via San Luca n. 2.

Anticamente qui aveva sede la corporazione degli Acquavitai e perciò il vicolo era noto anche come il caruggio dell’Acquavite.

Vico Denegri muri ricchi di fascino e storia.

In copertina: Vico Denegri. Foto di Leti Gagge.

U Tuccu

Così in una lettera spedita all’amico Luigi Germi nel 1839 e conservata presso la Library del Congresso di Washington Paganini descriveva le ricette per il tuccu e per i ravioli:

Per una libbra e mezza di farina due libbre di buon manzo magro per fare il suco. Nel tegame si mette del butirro, indi un poco di cipolla ben tritolata che soffrigga un poco. Si mette il manzo, e fare che prenda un po’ di colore. E per ottenere un suco consistente si prende poche prese di farina, ed adagio si semina in detto suco affinché prenda il colore. Poi, si prende della conserva di pomodoro, si disfa nell’acqua, e di quest’acqua se ne versa entro alla farina che sta nel tegame e si mescola per scioglierla maggiormente, e per ultimo si pongono entro dei fonghi secchi ben tritolati e pestati; ed ecco fatto il suco.

Ora veniamo alla pasta per tirare le sfoglie senza ovi. Un poco di sale entro la pasta gioverà alla consistenza della medesima. Ora veniamo al pieno. Nello stesso tegame colla carne si fa in quel suco cuocere mezza libbra di vitella magra, poi si leva, si tritola e si pesta molto. Si prende un cervello di vitello, si cuoce nell’acqua, poi si cava la pelle che copre il cervello, si tritola e si pesta bene separatamente, si prende quattro soldi di salsiccia luganega, si cava la pelle, si tritola e si pesta separatamente. Si prende un pugno di borage chiamata in Nizza boraj, si fanno bollire, si premono molto, e si pestano come sopra.

“Ricette tratte da La cuciniera genovese, con sottotitolo La Vera Maniera di cucinare alla genovese, di G.B Ratto del 1863”. Le immagini delle foto sono ovviamente recenti ristampe.

Si prendono tre ovi che bastano per una libbra e mezza di farina. Si sbattano, ed uniti e nuovamente pestati insieme tutti gli oggetti soprannominati, in detti ovi ponendovi un poco di formaggio parmigiano. Ecco fatto il pieno. Potete servirvi del capone in luogo del vitello, dei laccetti in luogo di cervello, per ottenere un pieno piu’ delicato. Se il pieno restasse duro, si mette nel suco. Per il ravioli, la pasta si lascia un poco molla. Si lascia per un’ora sotto coperta da un piato per ottenere le foglie sottili“.

“Copia della lettera con le ricette di Paganini”.

Oltre alla versione del “Diavolo”, essendo una ricetta assai radicata nella tradizione genovese, ho riportato anche quelle dell’Antica Cuciniera del Ratto.

Secondo gli esperti gli stalli di carne che più si prestano, sono il perfilo, detto “perfì” in genovese, taglio di terza categoria del collo o, in alternativa, il matamà o matama, il sottospalla, utilizzato anche per le bistecche. L’importante è che sia un pezzo intero “tuccu” – appunto – unico divenuto poi, per estensione “sugo”.

Dal Tuccu probabilmente sarebbe derivata anche la tipica preparazione della carne alla “Genovese” napoletana.

Il Tuccu necessita di tagli in grado di reggere, senza disfarsi, una lunghissima cottura, almeno tre ore (magari in un tegame di coccio). Per sua natura è una preparazione popolare e povera che non ha bisogno di carni di maggior pregio.

La Genovese partenopea

A Genova quando si parla di sugo e carne alla genovese s’intende il “Tuccu” con cui condire taglierini e ravioli.

A Napoli invece con la dicitura “alla genovese” si ci riferisce ad un condimento bianco a base di cipolle e carne di manzo o vitello con il quale si preparano gli ziti della tradizione napoletana.

Assai curiosa e dibattuta ne è la genesi: secondo alcuni “la genovese” sarebbe stata importata nella città partenopea da mercanti della Superba nel XIV o XV secolo al tempo della dominazione aragonese. Per altri la nascita sarebbe da relazionarsi invece al cognome “Genovese” (molto diffuso in Campania) o al soprannome “O Genovese” del suo presunto inventore.

Liberamente tratto dal sito “Storie di Napoli.it” riporto:

“La fonte più antica sulla Genovese risale al 1285, anno della prima pubblicazione de il “Liber de coquina“. Questo testo di cucina napoletana, scritto in latino volgare e dedicato a Carlo II d’Angiò da un anonimo cortigiano, cita “De Tria Ianuensis” (Della Tria Genovese). Con il termine tria sembrerebbe che all’epoca si intendesse la pasta. Per la prima volta con questa ricetta si parla di un sugo preparato con le cipolle e con la carne. 

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“La carne alla genovese”. Foto tratta dal sito “La Cucina di Napoli”.

Altri invece parlano di un cuoco del XV secolo famosissimo a Napoli con il nomignolo di “O’ Genovese” come inventore di questo piatto.

Un’altra teoria sulle origini della Genovese si fonda sul fatto che a Napoli, nella zona portuale, esisteva una strada chiamata via dei Genovesi, perché pullulava di osterie e taverne gestite da ex marinai genovesi. Uno dei piatti che vi si poteva assaporare era una vivanda a base di carne che ancora oggi esiste a Genova. Si tratta di un pezzo di carne tagliato a grossi pezzi insieme a carota, sedano e cipolla detta “u Tuccu“. Si racconta, ma qui sforiamo nella leggenda, che tra i genovesi arrivati a Napoli a bordo del vascello “Superba” nel XVIII secolo, tra di loro, ci fosse un marinaio particolarmente abile in cucina che si inventò questa pietanza.

Infine nella prima versione del trattato “La Cucina Teorica Pratica”, pubblicato a Napoli nel 1837 a opera di Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, della ricetta della Genovese risultano svariate vivande, tra le quali nessuna purtroppo assomiglia a un condimento per la pasta. Nella seconda variante del trattato, del 1839, quando si parla di lasagne alla Genovese si nota un netto cambiamento. Da questo momento la Genovese ha assunto definitivamente la sua versione attuale, più napoletana che genovese”.

La preparazione è molto semplice ma il risultato è straordinario: si fa cuocere a fuoco lento per almeno due ore (più cuoce comunque meglio è) il girello (rotondino, megatello, lacerto, coscia rotonda a seconda delle regioni) in un classico soffritto di carote e sedano e, soprattutto, di abbondante cipolla, avendo cura di bagnarlo con brodo e vino bianco o rosso per non farlo restringere e asciugare troppo.

A testimonianza della probabile comune origine la carne della genovese alla napoletana, proprio come per il tocco genovese classico, si può aggiungere al sugo per condire la pasta insieme a pecorino o parmigiano, oppure si può gustare da sola come fosse un secondo.

In copertina: Ziti alla genovese. Foto tratta da chezuppa.com

Le lattughe ripiene

La zuppa di lattughe ripiene (leitughe pinn-e) costituisce un emblematico esempio dell’ingegnosa capacità della cucina ligure di amalgamare con sapiente armonia gusti ed elementi poveri in modo assolutamente gustoso e saporito.

Le foglie imbottite con un ripieno di magro vengono arrotolate con cura a mo’ di involtino, per poi essere lessate nel brodo di carne per una decina di minuti.
Dall’imbottitura – invece – in ossequio ai giorni di magro imposti dal calendario liturgico, la carne viene bandita.

Le lattughe ripiene possono essere cucinate anche in una versione alternativa che prevede la cottura anziché in brodo in un soffritto arricchito di abbondante salsa al pomodoro.

“Versione al pomodoro”. Foto e preparazione di Giuliana e Bruno Bocciardo.

«…Oh leituga, cibbo inscipido, dimme un pò comme ti pèu diventa gustosa e sapida, e ciù bonn-a che i ravieu, se ùnn-a man sapiente e pratica a manipola o to pin, c’ùn bon broddo, un sugo saturo d’elementi sopraffìn? Benché Zena a te rivendiche, ti è d’origine divinn-a, comme a manna ai tempi biblici, comme a torta pasqualinn-a, e o segno coi so discepoli o te deve avei mangiòu, benché i testi e e sacre cronache non ne n’aggian mai parlóu…».

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“Ricetta tratta da La cuciniera genovese, con sottotitolo La Vera Maniera di cucinare alla genovese, di G.B Ratto del 1863”. L’immagine della foto è ovviamente una recente ristampa.


(«…Oh lattuga, cibo insipido, dimmi un po’ come puoi diventare gustosa e sapida e migliorare dei ravioli, se una mano sapiente e pratica manipola il tuo ripieno, con un buon brodo, un sugo saturo d’elementi sopraffini? Benché Genova ti rivendichi, sei d’origine divina, come la manna nei tempi biblici, come la torta Pasqualina, e il Signore coi suoi discepoli deve averti mangiato, benché i testi e le sacre cronache non ce n’abbiano mai parlato… »).
Niccolò Bacigalupo (1837-1904) poeta e drammaturgo genovese.

Inni Civili. Costûmanze zeneixi ne-e grandi solennitae da Gëxa
(Usanze genovesi nelle grandi solennità della Chiesa).

In copertina foto di Giuliano e Bruna Boccardo.

Röba pinn-a

Le verdure ripiene costituiscono classico esempio della genuina semplicità della cucina ligure.

Zucchina (succhin), melanzana (meizànn-a), cipolla (çiòula), peperone, (pevión) sono gli ortaggi che più si prestano a questa preparazione, senza tuttavia dimenticare pomodori (tomâte), patate (patàtte) e le lattughe (leitûghe).

Gli ortaggi, accuratamente mondati e spolpati fungono da gustosa custodia mentre la polpa ottenuta viene aggiunta al ripieno.

A questo punto le verdure vanno, per evitare che disperdano acqua, salate e lasciate riposare circa un’ora sopra un canovaccio dopodiché è possibile procedere alla farcitura.

La composizione della farcia varia da zona a zona, da famiglia a famiglia, ma di solito è a base di uova, grana o Parmigiano, prescinsêua (cagliata fresca), erbe aromatiche, in particolare la persa, (la maggiorana), olio extravergine di oliva e, per favorire il processo di formazione della caratteristica croccante crosticina, una leggera spolverata di pan grattato.

Alcune varianti prevedono l’aggiunta di carne trita cruda o cotta, o mortadella o prosciutto cotto a seconda delle disponibilità del momento.

I ripieni si cuociono in forno a 180° per circa 30 minuti e si possono gustare subito così caldi appena sfornati, oppure all’indomani a temperatura ambiente.

Meno frequenti ma non meno gustose sono le preparazioni che, con le stesse modalità, prevedono le patate (varietà quarantina bianca), i carciofi violetti di Albenga e le cappelle dei funghi porcini raccolti nei boschi nostrani.

Un tempo dopo averli cotti in forno si usava sia friggerli che cucinarli in umido. In quest’ultimo caso i ripieni, adagiati in una capiente casseruola, vengono passati in una corposa salsa di pomodoro.

Trattando di röba pinn-a particolare menzione merita la lattuga ripiena cotta in un sapido brodo di carne, tradizionale pietanza dei giorni di quaresima… ma questa è un’altra storia.

In copertina: tegame di ripieni al forno. Foto di Serena Rossi.

Il pesce alla ligure

La preparazione del pesce alla ligure sia che sia fatta in umido o al forno implica una profonda relazione con il territorio.

Qualunque sia il pesce cucinato, dall’anciôa (acciuga), al loasso (branzino), la simbiosi con i prodotti dell’orto è inscindibile: aromi e odori come aggio (aglio), timo, porsemmo (prezzemolo), persa (maggiorana), offèuggio (alloro), cornabüggia (origano), romanin (rosmarino), colàndro (coriandolo), sàrvia (salvia), baxaicò (basilico), ortiga (ortica); verdure come patàtte (patate), ciòule, (cipolle), suchinn-e (zucchine), tomatìnn-e (pomodorini ) oltre alle immancabili oîve, (olive) della riviera (fra cui le taggiasche), all’êuio d’oîva (olio extra vergine) nostrano e ai pigneu (pinoli).

Il legame di questi profumi rapportato al pesce non può prescindere dai vini bianchi con cui accompagnare la pietanza, autentici capolavori, estorti con sudore e sacrificio alla natura con inestimabile passione e perizia dai viticoltori: da ponente a levante – solo per citare i più noti – Valpolcevera nostrano, Coronata, Vermentino di entrambe le riviere, Pigato di Albenga, Cinque Terre, Sciacchetrà e bianco Colli di Luni.

Uscendo dal classico binomio pesce vino bianco non vanno tuttavia dimenticati i rosati fra i quali spiccano l’Ormeasco e lo Sciac – trà di Pornassio (ma possono essere anche rosso o passito) e i rossi, più adatti forse alle zuppe e alle buridde, come Ciliegiolo del Tigullio e Rossese di Dolceacqua.

Scriveva in proposito con mirabile sintesi poetica e amore per la propria terra Vittorio G. Rossi nel suo “Vino e cibi di Liguria”:

“Mangiavamo quelle cose con un godimento segreto, ma pensando che gli altri mangiavano il pane degli angeli e noi quelle robette fatte dalle nostre nonne, madri, zie e sorelle dalla faccia come un’ascia d’arrembaggio. Ora si sono accorti che quella era una grande cucina, si sono accorti dei nostri vini fatti dalla pietra, dal sole, dal respiro del mare e hanno il profumo dell’alba nelle calme di luglio”.

In copertina pesce castagna alla ligure (con libera aggiunta di zucchine dell’orto) pronto per essere infornato.

Foto e preparazione dell’autore.

A Pasqueta

A genova invece la festa della Befana, “Basara” in genovese, non solo non è l’ultima delle feste come vuole il noto proverbio che “l’Epifania tutte le feste porta via” ma è la prima di quelle importanti dell’anno appena iniziato e, proprio per questo, viene chiamata “Pasqueta” perché precedente anche la Pasqua. Secondo questa concezione, di conseguenza, il giorno dopo Pasqua non può più essere Pasquetta ma semplicemente il lunedì dell’Angelo.

Dal termine greco ἐπιφάνεια, epifáneia si arriva per storpiatura attraverso bifanìa e befanìa alla parola che identifica la festa dell’Epifania.

Negli antichi riti pagani intrisi di influenze mitraiche prima e celtiche dopo, tale ricorrenza era legata ai cicli stagionali dell’agricoltura, in relazione sia al raccolto dell’anno appena trascorso che, a scopo propiziatorio, per quello dell’anno futuro.

Gli antichi Romani ereditarono tali riti, associandoli quindi al calendario romano, e celebrando, appunto, l’interregno temporale tra la fine dell’anno solare, fondamentalmente il solstizio invernale e la ricorrenza del Sol Invictus.

La dodicesima notte dopo il solstizio invernale, si celebrava la morte e la rinascita attraverso Madre Natura.

I Romani credevano che in queste dodici notti (il cui numero avrebbe rappresentato i dodici mesi dell’innovativo calendario romano nel suo passaggio da prettamente lunare a lunisolare, probabilmente associati anche ad altri numeri e simboli mitologici) delle figure femminili volassero sui campi coltivati, per propiziare la fertilità dei futuri raccolti, da cui il mito della vecchina “volante”.

Secondo alcuni, tale figura femminile fu dapprima identificata in Diana, la dea lunare non solo legata alla cacciagione, ma anche alla vegetazione, mentre secondo altri fu associata a una divinità minore chiamata Sàtia (dea della sazietà), oppure Abùndia (dea dell’abbondanza).
Un’altra ipotesi collegherebbe la Befana con un’antica festa romana, che si svolgeva sempre in inverno, in onore di Giano e Strenia (da cui deriva anche il termine “strenna”) e durante la quale ci si scambiavano regali.

Un’altra leggenda racconta invece di una solitaria vecchina che viveva isolata da tutti e passava il tempo a cucire calze. Un giorno alla sua porta bussarono i Re Magi che la invitarono a seguirla per portare i loro doni a Betlemme dove stava per nascere il Salvatore.

La Befana rifiutò di accodarsi ma, per non essere scortese, lasciò comunque appesa una calza vuota da portare al nascituro.

Quando anni dopo ebbe notizie del Redentore comprese che quel bambino che aveva snobbato era Gesù.

La Befana pentita si vergognò della propria meschineria. Non sapeva darsi pace per il disonore.

Finché una notte Gesù le apparve in sogno e la perdonò.

Da allora la vecchia carampana cavalca la sua scopa per portare ad ogni bambino una calza colma di piccoli doni e leccornie.

La Befana è una bonaria vecchina che nulla ha a che fare, nonostante la scopa e alcuni tratti in comune, con le streghe. Non veste di nero, né calza stivali o indossa cappelli a punta. Si copre infatti con un fazzolettone di stoffa pesante (la pezzóla) o uno sciarpone di lana annodato in modo vistoso sotto il mento e vola, al contrario delle fattucchiere, con il manico alle spalle e le ramaglie davanti.

I Re Magi del Presepe della Madonnetta. Foto di Leti Gagge.

Da queste tradizioni pagane si ha poi il passaggio, con il Cristianesimo, alla simbologia della prima manifestazione (epifánein in greco significa apparire, mostrarsi) di Gesù in pubblico, presentato dunque ai Re Magi.

La Befana passando dal camino rappresenta l’unione fra cielo e terra e con il suo passaggio segna l’apertura del nuovo anno. Per questo è rappresentata vecchia e brutta e i suoi fantocci a immagine dell’anno appena trascorso venivano bruciati.

Da 1 al 6 gennaio la sua comparsa simboleggiava rigenerazione e prosperità. Non a caso nella notte fra il 5 e il 6 il ciclo del rinnovamento si compie e il mondo cambia, si trasforma: gli alberi si caricano di frutti, le acque sono oro liquido, e le fanciulle pongono foglie d’ulivo.

A Genova invece la festa della Befana, “Basara” in genovese, non solo non è l’ultima delle feste come vuole il noto proverbio che “l’Epifania tutte le feste porta via” ma è la prima di quelle importanti dell’anno appena iniziato e, proprio per questo, viene chiamata “Pasqueta” perché precedente anche la Pasqua. Secondo questa concezione, di conseguenza, il giorno dopo Pasqua non può più essere Pasquetta ma semplicemente il lunedì dell’Angelo.

La Basara, accompagnata dal vecchio marito la cui presenza si è poi pian piano smarrita nei tempi, in origine portava i suoi regali e il suo carbone e aglio in gerle di vimini o in sacchi di iuta sfatti e slabbrati che assumevano la forma di calzettoni enormi.

Il carbone, o la cenere, infatti erano un simbolo rituale dei falò che inizialmente venivano inseriti nelle calze o nelle scarpe insieme ai dolci, in ricordo, appunto, del rinnovamento stagionale, ma anche dei propiziatori fantocci bruciati.

Befana di notte in un paesaggio di mare. In realtà il profilo è più da strega.

Da qui l’usanza della calza in cui i bimbi trovavano frutta fresca o secca e qualche piccolo dolciume se erano stati bravi, il temuto carbone se erano stati discoli, adottata anche dalla chiesa cattolica.

In ogni caso niente regali perché quelli venivano dispensati a S. Lucia (13 dicembre) e/o a Natale.

E a tavola come si celebrava?

come recita l’antico adagio “Epifàgna, gianca lasagna” a Genova erano d’obbligo le lasagne bianche intese come impasto di sola acqua e farina senza uovo, bollite (ma non cotte al forno) e condite con il pesto.

“Mandilli al pesto”. Foto di Leti Gagge.

Insomma la classica pasta genovese molto simile ai tradizionali mandilli de saea.

Si proseguiva poi con il pesce bollito e l’immancabile Cappon Magro in una versione però molto più essenziale di quella odierna, priva di gelatina e con la salsa verde, per non occultare il sapore del pesce, servita a parte.

Cappon Magro dei giorni nostri. Foto e preparazione di Nicola Bellebuono.

Si concludeva infine come per tutte le feste con un brindisi e una fetta di Pandolce.

In copertina befane al Porto Antico nel 2019. Foto di Giulio Gazzale

I Pesci saê

Non è un caso che un vecchio detto popolare reciti: “chi sala le acciughe ad aprile perde il sale, le acciughe ed anche il barile”.
A me piace consumarli subito insieme al pane per gustarne tutta la marina sapidità. Altri preferiscono “ingentilirli”, per mitigarne la salmastra intensità, con un ricciolo di burro.

Ad inizio estate nelle case dei genovesi e dei liguri è tradizione procedere alla salagione delle acciughe, i pesci saê. Si inizia  già a maggio e a giugno ma il momento migliore è durante la luna piena di luglio perché le acciughe raggiungono in quel periodo la loro massima dimensione.

Non è un caso che un vecchio detto popolare reciti: “chi sala le acciughe ad aprile perde il sale, le acciughe ed anche il barile”.

Fondamentale per una corretta preparazione è la freschezza del pesce che deve essere, e non solo per questioni di gusto, ma soprattutto di salubrità, della nostra riviera: preferibilmente di Camogli o Monterosso.

Alle acciughe vanno tolte le teste, spezzando il pesce e tirando con le mani a livello delle branchie. Per essere sicuri che le interiora siano completamente pulite bisogna passare l’indice all’interno della pancia del pesce, aprendola e togliendo eventuali residui.

Ogni arbanella contiene circa un chilo e mezzo di prodotto e due chili di pesce necessitano di un chilo di sale grosso.

Si cosparge il fondo del vaso di vetro con un pugnetto di sale grosso, due cucchiai da cucina e poi si adagiano i pesci, in una fila da 12-14 pesci disposti testa-coda, con due o quattro pesci ai lati per riempire lo spazio rotondo che avanza ai lati della fila.

Si aggiunge poi un’altra presa di di sale per riempire i buchi fra i pesci e formare un leggero strato sovrastante. Per evitare pericolose bolle d’aria ogni tanto scuotere l’arbanella e aggiustare di sale laddove necessita.

In croce si fa un altro strato, ossia se hai fatto una fila dall’avanti verso di te, lo strato successivo lo fai da destra a sinistra. E lo strato successivo lo fai di nuovo dall’avanti verso di te. Si va avanti così, per 5-6-7 strati finché non si riempie l’arbanella fino a 2 cm dal bordo.

Giunti a questo punto si riempie di due centimetri di sale fino all’orlo, si mette una pietra piatta o un peso cilindrico di almeno 1 kg al fine di schiacciare il più possibile il contenuto.

Il pesce così salato, schiacciandosi al massimo, perde i propri liquidi interni e diminuisce di volume. Deve essere lasciato così schiacciato, al buio e aperto all’aria, per almeno un mese, meglio due.

L’arbanella può ora essere chiusa per limitare l’evaporazione del liquido ma il pesce deve rimanere comunque sempre schiacciato.

E’ sufficiente anche una comune pietra di mare piatta e rotonda da mezzo chilo. Quando il liquido evapora il pesce va coperto con una salamoia preparata al momento di acqua e sale.

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“Pesci saê conditi con olio, aglio e origano”.

Per la salamoia si fanno sciogliere a caldo due cucchiai di sale grosso in un bicchiere d’acqua che si lascia raffreddare e poi si aggiunge al bisogno. Per due mesi bisogna accertarsi che non si asciughi.

Trascorso il necessario periodo di “salagione” finalmente è possibile, secondo gli esperti per Ognissanti, procedere alla preparazione del pesce: si apre, pulisce e si toglie la lisca.

Io, dopo aver sciacquato i pesci saê con abbondante acqua corrente, li asciugo con cura sopra un tagliere di legno o carta assorbente e poi li dispongo a strati in un contenitore di vetro, ricoperti di olio extra vergine di oliva, aglio a scaglie e un po’ di origano.

Così sono già pronti come base per altre preparazioni, sughi o salse.

A me piace consumarli subito insieme al pane per gustarne tutta la marina sapidità. Altri preferiscono “ingentilirli”, per mitigarne la salmastra intensità, con un ricciolo di burro.

“Una piccola acciuga nel piatto vale più che un tonno in mare”. (Proverbio francese).

In copertina le mie acciughe con i tetti di Genova di sfondo.