L’antichissima cerimonia del Confeugo…

… ha origine agli inizi del ‘300 e nasce per omaggiare il Podestà  prima, il Capitano poi e infine il Doge.
Consiste in un corteo che partiva dalla zona di Porta Romana (Borgo Incrociati) dove l’ Abate del Popolo uscente lasciava a quello entrante la carica e i problemi simboleggiati da nastri bianco rossi (i colori di S. Giorgio) con i quali si adornava un grosso ceppo di alloro (il Confeugo).
L’Abate ora si recava in processione a Palazzo Ducale, dove scambiati i saluti e i doni di rito con il Doge, partecipava insieme all’Arcivescovo al banchetto.

Il Confeugo veniva poi acceso e spento con una brocca di zucchero, vino e confetti.
La fumata che ne conseguiva, a seconda che fosse dritta o storta, veniva interpretata positivamente o meno in relazione ai problemi da risolvere (i nastrini rossi).
La popolazione si contendeva i resti perché, si diceva, avessero proprietà magiche e portassero fortuna.
Questo, spesso causava risse e disordine pubblico, quindi venne stabilito di bruciare più ceppi per distribuirlo equamente a tutti.
La cerimonia natalizia genovese venne abolita dai francesi nel ‘500 e da Napoleone nell’ 800… ma sempre ripristinata.
Oggi il Sindaco e il Priore della Compagna rappresentano Doge e Abate.
Oltre al valore culturale e storico il Confeugo simboleggia l’unione della città in tutte le sue componenti:
Il Doge, il governo borghese o aristocratico e mercantile (a seconda dei contesti) l’Abate, il Popolo artigiano, contadino e operaio, infine l’Arcivescovo, silenzioso e onnipresente, il potere ecclesiastico.

 

Storia di un cardinale… seconda parte…

molto… molto speciale…
Continua… seconda Parte…
Il giovane assistente del cardinale e suo futuro successore Giuseppe Siri, incaricato di mantenere i contatti con l’Alto Comando tedesco, informa Boetto dell’intenzione da parte dei tedeschi, di minare il porto e di cannoneggiare da monte Moro la città, se non vengono concessi loro quattro giorni per la ritirata armata.
Il futuro Magnifico Rettore dell’Università di Genova, Carmine Romanzi, nome di battaglia Stefano, viene incaricato dal CLN e dal cardinale di consegnare a Savignone, sede del Comando teutonico, due lettere in cui il primo chiede la resa immediata e incondizionata, il secondo, di farsi intermediario della complicata trattativa.
“Lo Stato Maggiore tedesco sfila alla testa dei propri uomini in Via XX Settembre, scortato da due ali di Partigiani”.
“Il tavola della sala di Villa Migone su cui è stato firmato l’atto di resa”. Foto di Leti Gagge.
“Il Generale Meinhold comandante della Piazza di Genova”.
“Un’altra preziosa immagine di quella storica mattinata del 28 aprile”.

A bordo di un’ambulanza della Croce Rossa, nel pomeriggio del 25 aprile, Romanzi preleva, scortato dai partigiani, il Generale Gunther Meinhold, comandante della piazza di Genova.
Questi, venuto a conoscenza che la Pinan Cichero, controllando la viabilità, gli impedisce il ricongiungimento con il Gen. Kesselring lungo la linea Gotica, accetta di seguirlo, in compagnia del colonnello Pohl, a Villa Migone sede dell’incontro e residenza privata del cardinale.
A garanzia, fatto inaudito, consegna, durante il viaggio, la sua pistola a Romanzi.
Giunto nel primo pomeriggio, ad attenderlo nel quartiere di San Fruttuoso per conto della rappresentanza tedesca ci sono:
Il Console Von Hertzdorf.
Il Capitano Asmus, capo di Stato Maggiore.
Per quella italiana:
Remo Scappini Presidente CLN Liguria.
L’Avvocato Errico Martino e il Dottor Giuseppe Savoretti, membri del direttivo del CLN ligure.
Il Maggiore Mauro Aloni Comandante dell’esercito di liberazione della piazza di Genova.
La discussione si protrae per quasi tre ore… gli italiani pretendono la ritirata immediata, i tedeschi rifiutano e rinnovano la minaccia di far saltare il porto e di bombardare la città con l’artiglieria pesante di stanza a monte Moro.
La trattativa si fa tesa; il generale
interrompe la discussione alzandosi bruscamente dal tavolo quando, il Cardinal Boetto, fino a quel momento rimasto in religioso silenzio e quasi in disparte, lo afferra con fermezza per un braccio e proclama:” Eccellenza, Genova è, di fatto, già libera….. forse non vi è chiaro che, se voi farete quello che avete minacciato, sarà un bagno di sangue, ma una cosa è certa… da questa città non uscirà un solo tedesco vivo”.
Non ci fu bisogno di traduzione… alle 19:30 il generale Meinhold siglava il documento della resa.
Alle 4:30 del mattino successivo il generale annunciava via radio a tutte le forze poste sotto il suo comando la resa incondizionata e di consegnare se stesse e le armi ai partigiani.
Il colonnello Pohl non regge l’umiliazione e, nella notte stessa, si suicida.
Il capitano di vascello Max Berninghaus, comandante delle truppe di stanza nel porto e sul monte Moro dichiara, nel nome del Führer, la condanna a morte di Meinhold, colpevole di alto tradimento, senza riuscire però a trovarlo.
Dopo due giorni di battaglia, il 27 aprile, anche il suo contingente sarà costretto alla resa.
La mattina del 28 aprile, 6000 tedeschi disarmati, sfileranno lungo Via XX settembre, scortati fra due ali di partigiani, fra il giubilo popolare, fuori dalla città.
Non era mai successo che un esercito ufficiale e ben armato si arrendesse a un Popolo… quello genovese!
Il 31 gennaio del 1946 il cardinal Boetto, in seguito ad una crisi cardiaca, muore.
Viene sepolto nella cattedrale di S.Lorenzo.
Gli succede quel giovane prelato che tanto si era prodigato per salvare il porto, Giuseppe Siri, per oltre 40 anni indiscusso monarca della chiesa genovese e non solo.
Intervistato qualche anno dopo il generale Meinhold, a cui va riconosciuto il buon senso di non aver sparso sangue inutile, attribuirà grande merito al valore dei partigiani genovesi e al ruolo del cardinale.
Genova verrà insignita il 1 agosto 1947 della Medaglia d’Oro al Valor Militare per la guerra di Liberazione.

In Copertina: La lapide davanti alla villa che attesta gli eventi e il ruolo decisivo del Cardinal Boetto.

Storia del pandolce…

… dall’Egitto, alla Grecia… fino alla Persia… dalla tavola dell’ammiraglio… fino a quella di San Biagio…
Non se ne abbiano a male gli amici milanesi, ma il pandolce genovese ha una storia molto più antica rispetto al panettone, che si perde nella notte dei secoli… una vera e propria genesi rituale.
Dati gli ingredienti comuni, molti ne fanno risalire l’origine addirittura ai tempi dell’antico Egitto e della Grecia dove era diffuso un dolce simile a base di miele.


Sicuramente, visti i rapporti commerciali con quel Paese, i Genovesi potrebbero aver tratto ispirazione dalla Persia (basti pensare a maggiorana, “persa” in genovese) dove il suddito più giovane (in grado di camminare), all’alba di Capodanno, porgeva al Sovrano un grande pane dolce a base di canditi, miele e mele da dividere fra i suoi commensali.
In effetti anche a Genova il pandolce, chiamato anche Pan co-o zebibbo veniva portato in tavola dal più giovane della famiglia e, con gesto beneaugurante, privato del sovrastante ramoscello di alloro.
Fu l’ammiraglio Andrea Doria che, nel ‘500, indisse concorso fra i pasticceri locali, per creare un dolce degno del matrimonio del nipote con Zanobia del Carretto e del prestigio della Repubblica.
Così venne codificato il pandolce genovese nella versione alta, affiancato poi, qualche secolo più tardi, dalla moderna versione bassa.
Molti sorrideranno di questa affermazione ma, a quel tempo, tolto forse Venezia e Bisanzio odierna Istanbul, non erano molte le città in Europa sulle cui tavole si potevano gustare canditi, uvetta e frutta secca.
Secondo la tradizione il Capofamiglia affettava il panduce canticchiando una filastrocca:
“Vitta lunga con sto’ pan!
Prego a tutti tanta salute,
comme ancheu, anche duman,
affettalu chi assettae,
da mangialu in santa paxe,
co- i figgeu grandi e piccin,
co- i parenti e co- i vexin,
tutti i anni che vegnia’,
cumme spero Dio vurria’.”
Alla moglie spettava l’assaggio e poi veniva distribuita una porzione per ciascun invitato, dopo di ché, visionate le letterine dei pargoli, gli stessi, in piedi sulla sedia, recitavano la loro poesia.
Due fette però venivano accuratamente conservate a parte da offrire una, al primo viandante di passaggio, da consumarsi l’altra, il 3 febbraio festa di San Biagio, protettore della gola.
Il Pandolce genovese, a seconda del Paese in cui è consumato, ha assunto altri nomi:
dal nostrano “Pan do bambin” sanremese, al “Londra cake” o “Genoa cake” britannici, fino al “Selkirk bannock”, una versione scozzese molto apprezzata dalla Regina Vittoria.
Quanta cultura in un semplice…. Panduce..

In Copertina: il Pandolce di una super bis nonna Lorenza che non c’è più.

Storia di una leggenda…

… di una chiesa… e di un campanile…. molto particolare…
Alla sua morte, avvenuta nel 430 d.C. , le spoglie di S. Agostino vennero traslate in Sardegna ma, causa la successiva invasione saracena, il re longobardo Liutprando chiese ai genovesi di intervenire per salvare il corpo del santo.
Il re, infatti, era un gran devoto del padre della chiesa e voleva trasportare le reliquie del santo a Pavia, capitale del suo regno.
Tornati a Genova, compiuta la missione, i nostri marinai deposero il santo nella cappella del Palazzo del Vescovo (attuale Facoltà di architettura) in attesa dell’arrivo di Liutprando (anno 726).
Al momento di trasportare l’arca nessuno riuscì a sollevarla, come se il santo non volesse più abbandonare la città.
Il re fece allora voto solenne di edificare in quel luogo una chiesa a lui dedicata.
Miracolosamente il corpo si lasciò sollevare e trasportare nella basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro, a Pavia.
Di questa leggendaria chiesa non resta più alcuna traccia e fu eretto, in corrispondenza dell’altare maggiore, il monastero di Santa Tecla.
Solo nel 1477, per volere popolare, fu reintitolata dagli agostiniani al loro fondatore.
Qui vennero eletti i Capitani del Popolo i due Oberto, Doria e Spinola e, nel 1339 Simone Boccanegra, il primo Doge della Repubblica.
Fu sede di numerose confraternite e consorterie
nonché di cappelle nobiliari.

genova
“Il Campanile in alicados di Sant’Agostino”.

Nel 1798 chiesa e convento vennero soppressi per volere di Napoleone e la struttura venne usata prima come magazzino e officina del Genio Civile, poi come sede dei Carabinieri Reali.
Il complesso, gravemente danneggiato durante la Seconda Guerra Mondiale, è stato recuperato dagli architetti nei primi anni ’80.
La facciata a fasce bicrome è sormontata da una lunetta affrescata con l’immagine del Santo.
Ma, a mio parere, il pezzo straordinario è il duecentesco campanile, coevo di S. Giovanni di Prè e delle Vigne, interamente ricoperto, unico esempio nel nord Italia, in alicados cioè delle stesse piastrelle lisce monocrome con cui si rivestono le moschee.
Gli alicados di S. Agostino sono maioliche opera dei Magistri, come inciso su di esse, di Albisola.

 

Storia di una Piazza… di mercanti…

di alabardieri… e di fallimenti.
Fin dal finire del 1100 mercanti e marinai provenienti da ogni angolo di mondo attraccavano le loro navi nei pressi dell’attuale Sottoripa, saldavano le gabelle dovute alla Dogana di Campetto prima, S. Giorgio poi e si recavano nello retrostante piazza per smerciare i propri prodotti.
Lì li attendevano i cambia valute che, ognuno col proprio banco e sgabello, annotava e registrava le operazioni di cambio.
"La loggia dei mercanti in Piazza Banchi".
“La loggia dei mercanti in Piazza Banchi”.

 

Piazza dei Banchi con la chiesa di S. Pietro della Porta”.

Quando sorgevano contestazioni o dissidi intervenivano gli alabardieri che, accertato l’eventuale dolo, provvedevano con un colpo di scure a rompere il banco e, di fatto, a impedire al cambiavalute di proseguire la propria attività.

Da qui, ancora oggi in tutto il mondo Wall Street compresa, l’utilizzo del termine “bancarotta”.
Ecco il perché del nome di questa Piazza che presenta altre meraviglie come la Loggia dei Mercanti, il Palazzo dei Conservatori del Mare (la più antica magistratura portuale del mondo), la Porta di S. Pietro e l’omonima Chiesa (unico caso di una chiesa eretta sopra un piano adibito agli esercizi commerciali e mantenuta dagli stessi).
 

Il figlio del leone…

discendente di Ercole…
“Per il tuo regno sarei disposto a sacrificare ogni mio soldato… io invece, per ogni mio uomo, sarei pronto a sacrificare me stesso…”
Queste le parole pronunciate da Leonida, re di Sparta in risposta alle minacce di Serse, imperatore di Persia.
Nel 480 a.C., in piene Olimpiadi, duecentomila persiani sono pronti ad invadere la Grecia.
I re ellenici, occupati nei giochi, non danno grande peso alla minaccia.
Solo Leonida, interpellato l’oracolo di Delfi, parte con i suoi trecento opliti e circa altri duemila confederati alla volta delle Termopili (agosto 480 a.C.) dove attende lo sbarco nemico.
Serse, confidando nella propria superiorità numerica, intima al re spartano la resa e di cedere le armi.
Questi, come tramandato da Erodoto, risponde “Vieni a prenderle”… Stermina oltre ventimila uomini, dando prova del coraggio e dell’organizzazione spartana.
Il secondo giorno, sconfigge gli “Immortali” il corpo scelto dell’imperatore.
Serse allora propone al re di arrendersi in cambio del titolo di Satrapo (governatore) di tutta la Grecia.

Ancora una volta Leonida risponde “sono un uomo libero e come tale morirò”.
Il terzo giorno, un pastore del luogo, rivela al re persiano l’esistenza di un altro passaggio, utile all’accerchiamento dei nemici.
Accortosi di ciò, il quarto giorno, Leonida ordina la ritirata dei soldati alleati e rimane con i suoi trecento opliti, la Guardia scelta.

Muore sul campo, protetto fino all’ultimo dai suoi soldati, pronti a morire, come il loro re, da uomini liberi.
Il suo sacrificio permette ai Greci di confederarsi e di sconfiggere a Salamina (settembre 480 a.C.) prima e, definitivamente a Platea (agosto 479 a.C.) poi, il pericolo persiano.
Grazie al coraggio e al sacrificio di Leonida siamo rimasti occidentali!
Cosa c’entra tutto ciò con la nostra storia?
Apparentemente niente… in realtà molto… quanti Leonida sono presenti nel nostro passato; ne cito solo alcuni:
I Liguri tutti che si batterono oltre un secolo contro la sottomissione a Roma, Il Senato di fronte all’aggressione del Re Sole nel 1684, il Balilla, il Carbone e il Popolo intero durante la rivolta del 1746 e la cacciata austriaca, i Fratelli Ruffini della Giovine Italia e l’apostolo Mazzini durante il Risorgimento, la Guardia Civica nei giorni del Sacco del La Marmora, i Partigiani della Seconda Guerra Mondiale

Guerriero greco.

Storia di rivalità familiari…

e di una maestosa Basilica… i cui lavori non finiscono mai…
Una delle più importanti famiglie genovesi, quella dei Fieschi, aveva in Carignano, in S. Maria in Via Lata, vicino al famoso palazzo (ritenuto il più sfarzoso della città), la propria chiesa gentilizia.
Le funzioni che vi si celebravano erano frequentate da tutte le famiglie del quartiere.
Anche da quella dei Sauli, mercanti originari di Sori che, da tempo, vi si erano stabiliti e che avevano fatto fortuna, in particolare, con il commercio del sale.

"La chiesa sconsacrata di Santa Maria in Via Lata".
“La chiesa sconsacrata di Santa Maria in Via Lata”.

A causa di un ritardo ad una cerimonia solenne, questi vennero invitati a costruirsi una chiesa, per fare “il comodo loro”.
Bandinello Sauli decise allora, nel 1481, di stanziare un apposito fondo presso il Banco di S. Giorgio per finanziare l’impresa.
I lavori iniziarono però solo molti anni dopo, nel 1522, e gli eredi commissionarono il progetto ad un giovane emergente architetto perugino, Galeazzo Alessi.
Costui prese a modello le imponenti forme del Bramante e di Michelangelo, adottate per S. Pietro, in Roma.
Quando il perugino abbandonò Genova, mantenne la direzione dei lavori, appoggiandosi ad un gruppo di architetti locali, capitanati da Bernardo Cantone.
La cupola venne terminata solo nel 1603 quando l’Alessi era morto già da trent’anni.
I principali lavori si dipanarono nell’arco di oltre un secolo.
Nacque da ciò il modo di dire, per indicare qualcosa di interminabile, “E’ come la fabbrica di Carignano”.

"La Basilica dell'Alessi".
“La Basilica dell’Alessi”.

Fra il 1718 e il 1724 Domenico Sauli fece costruire, per facilitare l’affluenza da Sarzano e migliorarne l’impatto scenografico, il monumentale Ponte di Carignano.
Nel ‘800 fu poi Carlo Barabino a completare gli esterni nelle forme attuali.
La Basilica intitolata ai Santi Fabiano, Sebastiano e all’Assunta è tuttora chiesa gentilizia dei Marchesi Negrotto, Cambiaso, Giustiniani.
Al suo interno sono conservate sculture di pregio di Filippo Parodi e di Pierre Puget, oltre ad importanti tele di Domenico Piola, Luca Cambiaso, Guercino e Procaccini.
Ancora oggi, se passate in zona, noterete, per non venire meno al detto, lavori sempre in corso.

In Copertina: uno scorcio della Basilica dell’Assunta vista da via Santa Maria in Via Lata.

Storia di Magistrature portuali…

… di quella di “Credenza”… e dello Stendardo.
Nel 1281, per la prima volta, negli Annali, si fa menzione dei “Salvatores portus et moduli”.
Genova si dota di un’apposita magistratura destinata ad occuparsi delle faccende portuali, a proposito delle quali, ha pieni poteri.
Per quanto concerne invece la navigazione e le navi, la competenza spetta all’Ufficio di Oltremare e, più tardi, a quello di Gazaria (Colonie).
Dal 1340, per volere del primo Doge Simone Boccanegra, la magistratura del Porto viene gestita dai Padri del Comune, dieci membri di provato prestigio, eletti ogni due anni dai Serenissimi Collegi e dal Minor Consiglio.
Costoro si dividono in due gruppi speculari:
Conservatori del Mare, il primo, esperti di navigazione e Conservatori del Patrimonio, il secondo, preposti a tutte le attività inerenti la manutenzione e il decoro della città (strade, acquedotto, fognature, arredi urbani).
Nonostante le specifiche aree di pertinenza, nelle cerimonie pubbliche, formano un corpo unico. Nel 1282, in vista degli scontri contro Pisa, la Dominante crea un’altra Magistratura, quella detta di “Credenza”, un vero e proprio Consiglio di Guerra.
Tra i vari provvedimenti presi, si delibera che, per issare il Vessillo di S. Giorgio, debba costituirsi una flotta di almeno dieci galee, armate in assetto da guerra, dotate di Balestrieri e comandate da un ammiraglio.
In assenza di tali requisiti, il comando spetta al capitano che però, per nessuna ragione, è autorizzato a portare lo stendardo a bordo.
In copertina: dettaglio della “Veduta di Genova” nel 1482 realizzata da Cristoforo Grassi nel 1597.

La tela appresenta l’imponente spiegamento navale in occasione del rientro l’anno successivo della spedizione di Otranto del 1481(occupata dai turchi) voluta da papa Sisto IV  e condotta dal cardinale genovese Paolo Fregoso. Museo Galata Genova.

Storia di leggende… seconda parte…

misteri… e fantasmi… seconda parte…
Si aggira in Via di Francia chiedendo l’elemosina e inveendo contro chi non lo accontenta, per poi sparire nel nulla, lo spettro del “Monaco errante”.
Meno aggressivi sono invece gli spiritelli che infestano, scambiandosi effusioni e bisbigli amorosi, i parchi di Villa Piantelli nei pressi dello stadio Luigi Ferraris lato distinti, o quelli di Villa Saluzzo Bombrini, detta “Il Paradiso” (nella quale alloggiarono due grandi poeti Byron e De André).
Come non ricordare poi la vicenda di Forte Sperone dove, nel corso di una seduta medianica, si qualificò lo spirito di un assassino reo confesso di aver trucidato un’innocente.
In seguito a ricerche di archivio si accertò che lì, circa duecento anni prima, effettivamente era stata uccisa una giovane pastorella.
In San Donato si trascina invece l’anima senza requie di Stefano Raggi che nel ‘600, ricercato per aver cospirato contro la Repubblica, cercò salvezza nascondendosi nel campanile dell’omonima chiesa.
Catturato dalle guardie e rinchiuso nella Torre Grimaldina si suicidò con un pugnale procuratogli da una guardia, celato dentro ad un crocifisso.
In molti affermano di averlo visto nelle sere autunnali camminare a passo svelto, avvolto in una tunica rosso porpora, proprio nelle vicinanze della chiesa stessa.
E che dire poi del mio fantasma preferito, quel Branca Doria colpevole di aver assassinato il suocero per impadronirsi dei suoi beni e collocato da Dante, ancor vivo all’inferno?

La sua anima inquieta si aggira furtiva fra le colonne e i palazzi di Piazza S. Matteo, in attesa di infilarsi in chiesa e di sparire, dopo essersi appoggiata con le mani insanguinate alla colonna che, ancora oggi, ne testimonia il violento passaggio.
Anche le vicende di altri traditori e i delitti d’amore meritano menzione ma, queste sono altre storie….
Fine seconda parte… continua

Storie di leggende… prima parte…

misteri… fantasmi…
Già altri, prima di me, hanno ideato percorsi e iniziative in merito quindi non intendo, in alcun modo, sostituirmi loro.
Ma si sa, ciò che la storia non può avallare, la leggenda tramanda. Ogni quartiere, palazzo o scantinato della città nella sua millenaria esistenza, è ricco di favole, racconti e aneddoti tra i quali, eccone alcuni, di mia conoscenza:
Il primo che mi sovviene riguarda la Cattedrale di S. Lorenzo, dove la vigilia di S. Giovanni Battista, allo scoccare della mezzanotte, sotto la navata centrale, tutte le maestranze che ne hanno contribuito alla costruzione, sfilano in solenne corteo fin sulla cupola dell’Alessi per poi, dopo circa un’ora, dissolversi nell’oscurità.
Nell’antica chiesa dei SS. Cosima e Damiano invece, nelle notti di luna piena, c’è chi sostiene di aver visto apparire, per qualche istante, delle figure incappucciate, forse membri di qualche antica Casaccia.
Casaccia alla quale certamente appartengono le anime scorte all’imbrunire, in periodo di Quaresima, percorrere affrante Salita San Francesco.
Questo della processione evidentemente è un tema che riscuote successo e ritorna spesso, visto che, sempre di sera, in Salita degli Angeli, un altro corteo, in determinate ricorrenze, sfila contrito in direzione del cimitero della Castagna.
Poi ci sono altri racconti… ma, queste sono altre storie…
Fine prima parte… continua…