Storia di una meravigliosa… e misteriosa Signora…

Nel gennaio del 1636 il porto di Genova è devastato da una terribile mareggiata che, di fatto, spazza via tutte le navi. A Zena si sa, non si butta via niente così i rottami delle imbarcazioni vengono messi all’asta.

Due marinai acquistano una prosperosa polena appartenuta ad una nave d’alto bordo irlandese e, in attesa di decidere cosa farne, la ripongono in un magazzino di un palazzo della famiglia Lomellini.

Lì rimarrà  dimenticata per settanta lunghi anni fino a quando un bambino cadrà dall’ultimo piano di quell’edificio rimanendo illeso.

Il fanciullo alla gente accorsa incredula racconterà di essere stato preso in braccio da una bella signora vestita d’azzurro, uscita dal magazzino.

“Il prezioso altare in cui è conservata la Madonna della Fortuna”. Foto di Franco Risso.

Sfondata la porta, trovarono l’azzurra polena e subito la vestirono con abiti sacri e la portarono nella vicina chiesa.

Ancora oggi, per chi ci crede, è venerata nella chiesa di San Carlo in Via Balbi, con il nome di “Madonna della Fortuna” perché fu un vento di fortunale a portarla nella nostra città e porta fortuna a chi la onora.

Storia di un Teatro libertino e…

leggenda di una maschera… con un dolce finale.
In Vico dietro il coro delle vigne, nei pressi dell’omonima chiesa, aveva sede sul finire del ‘600 un’osteria che, nel 1702 si trasformò in un teatro molto popolare.
Spesso offriva spettacoli di girovaghi scatenando, per questioni di moralità, la repressione delle autorità cittadine: “si permettono gesti, motti, atteggiamenti ed anche abbracciamenti che non sono degni di una nazione civile e gentile”.
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Vico dietro il coro delle Vigne”. Foto di Giovanni Cogorno.

Ad inizio ‘800 vi si esibì la Compagnia di burattini Sales Bellone famosa per le gesta del vivace contadino piemontese Gerolamo, personaggio da loro creato.
Essendo Girolamo anche il nome del Doge dell’epoca (Durazzo) la polizia impose, per scongiurare imbarazzi, il mutamento del nome in “Giuanin d’la douja”(Giovanni della Foglietta) che, nel tempo, si trasformò in Gianduj
a.
Così nacque la più famosa maschera piemontese e, più tardi, l’accostamento al celebre cioccolatino.

In Copertina: immagine di Gianduja maschera piemontese (Asti, Torino). Tratta dal sito castellalfero.net

Storia di Crociati… di Balestrieri…

tornei… di dita tagliate e occhi strappati.

I Balestrieri genovesi, protagonisti della conquista di Gerusalemme, costituirono il corpo scelto più temuto del Medio Evo.

I Crociati nostrani, insieme a quelli fiamminghi e provenzali, rimasti a guardia del Tempio, diedero origine al secolare ordine dei Templari.

"Balestrieri genovesi all'assalto delle mura".
“Balestrieri genovesi all’assalto delle mura”.

 

Si esercitavano nella zona del Vastato (o “Guastato”), dove oggi sorge la chiesa dell’Annunziata, partecipavano a veri e propri tornei di selezione banditi in tutta la Repubblica.

Dovevano avere una certa prestanza e soprattutto una notevole mira per utilizzare la “manesca” (nome della balestra genovese) e scagliare i loro dardi fino a quattrocento metri di distanza con precisione assoluta.

"Balestrieri genovesi impegnati nella battaglia di Crécy".
“Balestrieri genovesi impegnati nella battaglia di Crecy del 1346”.

 

La paga era cospicua ma i contratti rinnovati annualmente. Per poter issare lo stendardo di S. Giorgio dovevano salpare almeno cinque galee in assetto da guerra con almeno una “Bandiera” per legno, a bordo.

La “Bandiera” era una formazione di venti balestrieri comandata da un “Conestabile”. I francesi in particolare, ma anche quasi tutti gli altri eserciti europei, li noleggiavano pagando lauti compensi alla Repubblica.

I contingenti potevano raggiungere anche qualche migliaio di individui e, fino all’avvento della polvere da sparo, erano considerati un po’ i “marines” del loro tempo.

Addirittura Federico II, catturatone una formazione nel 1247, fece loro mozzare le dita e orbare gli occhi perché non potessero più nuocere in battaglia.

Il loro utilizzo toccò l’apice durante la Guerra dei Cent’anni a fianco dei francesi e perdurò ancora per gran parte del Cinquecento.

Oggi la Compagnia dei “Balestrieri del Mandraccio” con sede nella Casa del Boia si occupa di mantenerne viva la storia attraverso accurate rievocazioni in costume.

Storia di un cagnolino…

longevo e di un artista riconoscente…

Scolpito sulla colonna destra del portale della Cattedrale di S. Lorenzo, lato dell’omonima via riposa, ad altezza occhi un cagnolino opera di uno degli artisti che, nel ‘500, restaurarono la chiesa.

Pare che i due fossero inseparabili così che, alla morte dell’animale, lo scultore appartenente alla Corporazione degli antelami (maestranze provenienti dal comasco e dal Canton Ticino) volle ricordarlo dormiente per l’eternità.

La gradevole storiella è priva di fondamento e trova palese smentita nelle numerose altre simili rappresentazioni zoomorfe presenti in città.

Ad esempio nel chiostro di S. Andrea dietro la casa di Colombo ve ne è uno identico.

Le figure antropomorfe, fitomorfe e zoomorfe, soprattutto se fantasiose e bizzarre, come spiegato dal Prof. Giacomo Montanari (curatore delle manifestazioni dei Rolli) erano infatti patrimonio consolidato dell’arte già dal XIII secolo.

La leggenda sostiene che accarezzarlo porti fortuna ma il marmo, a forza delle attenzioni che gli hanno riservato i genovesi, ormai è liscio e consumato. Meglio quindi, al fine di  preservarne l’integrità, limitarsi ad ammirarlo. Il cagnolino stesso ve ne sarà grato.

Storie… e… racconti magici…

e di un folletto dispettoso…
Nella cultura della tradizione popolare genovese in particolare, e ligure in generale, anche se non mancano orchi e diavoli o fate, le streghe (“strie”) sono di gran lunga le più gettonate.
Spesso, nei racconti in cui vengono citate, sono protagoniste in positivo come, ad esempio,nel caso della fiaba “Baffidirame il senza paura”.
In questa favola sarà proprio la strega, cattiva all’inizio, a redimersi e ad indicare, nel proseguio, il da farsi al protagonista per aiutarlo a fuggire.
Nel racconto di “Prezzemolina” invece, a rabbonirsi, è un gatto magico che aiuterà, una volta divenuto suo amico, la bimba caduta prigioniera delle orchesse, a scappare, sciogliendo i malvagi incantesimi.
Sorta di elfi cittadini erano poi chiamati “Cursi”, piccole creature a metà fra i nani e i folletti.
Uno di questi, piuttosto dispettoso, si palesa davanti alla chiesa di S. Barnaba sollevando malizioso le vesti dei religiosi.
Non contento, sempre lo stesso folletto, si sarebbe adoperato fornendo ogni genere di provocazione, nel tentativo di far desistere i novizi dalla loro vocazione.
Interpellato il noto esorcista S. Lorenzo da Brindisi, grazie alle sue potenti preghiere, il folletto fu relegato in un angolo isolato del convento, concedendogli di poter uscire solo tre volte all’anno.
Sulle alture di Voltri invece, nelle grotte utilizzate durante la seconda guerra mondiale come rifugi antiaerei, i vecchi tramandano la presenza di donnine minuscole e piuttosto vendicative.

Storia di leggende… quarta parte…

misteri… e fantasmi…
continua… quarta parte.
Anticamente Via Luccoli (“piccolo bosco”) era la strada che conduceva all’Acquasola sede dei templi pagani del Sole e della Luna.
In quel tempo era purtroppo normale fare sacrifici umani per ingraziarsi le divinità.
Una di queste vittime che, oltre mille anni dopo, gironzola ancora oggi nel vicolo, ignara del proprio triste destino, è il fantasma di un ingenuo fanciullo che sorride ai passanti.
Tra la sera del venerdì santo e l’alba di Pasqua è possibile invece imbattersi in un lugubre carro che, guidato da un misterioso nocchiero e trainato da un superbo palafreno, percorre il tragitto da Porta di S. Fede, attraversa Via delle Fontane e prosegue lungo Corso Carbonara, carico delle anime defunte di morte violenta.
Sempre nei pressi della Porta certe notti si può intravedere lo scellerato spettro del Vacchero colui al quale, a causa del suo tradimento, la Repubblica ha dedicato la celebre colonna infame.
Un’altra sanguinosa leggenda riguarda la Cattedrale di S. Siro nella quale i Vescovi lombardi, in fuga da Milano, traslarono le reliquie del loro patrono S. Ambrogio.
Fra i prelati milanesi si distinse per costumi dissoluti un tal Valentino che, una volta deceduto, nella chiesa ebbe sepoltura.
Ma una notte, fra il terrore dei presenti accorsi sul posto perché turbati dal frastuono delle urla, due spettri furibondi riesumarono la salma del monaco.
Costoro lo resuscitarono e trascinarono fuori dall’edificio religioso.
All’indomani il corpo del malcapitato venne rinvenuto gettato in malo modo nella fossa comune del cimitero.
In Piazza Banchi, nei pressi di S. Pietro della Porta vaga invece, accompagnato da una triste melodia, lo spirito dello Stradella, noto compositore secentesco, protagonista di torbide vicende amorose.
Ai fatti accaduti la sera del 24 aprile 1841 è infine legata l’infelice relazione fra il Conte Camillo Benso di Cavour e la nobildonna genovese Anna Schiaffino Giustiniani.
Costei, depressa perché non corrisposta, la sera sopra citata, durante un importante ricevimento, si gettò nel vuoto dalla finestra del palazzo Lercaro di Via Garibaldi.
Da allora, ogni 24 aprile, in corrispondenza della finestra del folle volo, compare una grande macchia con le sembianze della trentatreenne suicida.

Fine quarta parte… continua…
In Copertina: Via Luccoli di sera. Foto di Leti Gagge.

Storia di leggende… terza parte…

misteri e fantasmi… terza parte.
Un racconto a me molto caro che si perde nella notte dei tempi narra di una singolare coppia di frequentatori dei caruggi: il Diavolo e il Vento.
Una sera il Diavolo, passando sotto l’Arcivescovato, disse all’amico che sarebbe salito a parlare con il Vescovo e di attenderlo lì sotto.
Nel palazzo della Curia il Diavolo, evidentemente, si trovò proprio a suo agio visto che più non scese.
Ecco perché in Salita all’Arcivescovato soffia sempre forte il Vento; perché questi è ancora lì sotto ad aspettare il Diavolo.
Legato invece ad un fatto storico vero è il racconto che vede come sfondo l’intrigante Piazza di Campo Pisano:
nel 1284 infatti i Genovesi condussero in città, in seguito al trionfo della Meloria, ben novemila nemici pisani.
Molti di questi morirono di stenti e trovarono sepoltura, lontano dal suolo patrio, proprio nel cimitero sottostante l’attuale piazza (da qui il toponimo).
Per questo, dalla Marina lungo tutta la salita che conduce alla piazza, nelle fredde sere invernali, riecheggia un incessante tintinnare di catene e ferraglia trascinate dai prigionieri.
In Piazza Senarega invece, dal palazzo dell’omonima famiglia, si può scorgere a mezzogiorno in punto, una giovane dama affacciarsi dalla finestra e vederla spiccare il volo tenendo in mano un fagotto.
Superato l’attimo di incredulità si può notare come il presunto fagotto sia in realtà il suo capo mozzato opera del suo geloso amante.
Proseguendo poco distante, in Vico delle Mele, è possibile inoltre imbattersi in una misteriosa meretrice, bruna di capelli, di pelle ambrata e dalle prosperose forme che vi farà girar la testa e, magari, sparire il portafoglio.
La leggenda in proposito racconta infatti che, colta in flagrante insieme al suo nobile amante, sparì insieme alla dimora in cui nel vicolo avvenne l’incontro, non lasciando più traccia né di se, né del palazzo.
Per finire un cenno al fatto che, a partire da inizio ‘500 le impiccagioni avvenivano presso il Castellaccio e le odierne Via Cavallo e Via Accinelli che un tempo si chiamavano Salita dell’Agonia e della Morte, erano le uniche strade per arrivarci.
I condannati infatti le percorrevano entrambe: da vivi la prima all’andata, e da cadaveri la seconda al ritorno…
Via vai continuo di anime…..
Fine terza parte… Continua.

Storia delle Casacce…

A Genova con questo termine si indicano le confraternite, di derivazione provenzale, presenti in città fin dal tredicesimo secolo.
I loro membri, vestiti con tuniche a sacco e cappucci, percorrevano i quartieri della Superba in occasione di particolari feste religiose, recitando preghiere e canti sacri.
Col passare dei secoli dalle semplici tuniche si passò a vestiari sfarzosi facendo a gara quanto a ricchezza dei paramenti.
Nel ‘700 le Confraternite erano venti, quattro per ogni quartiere e le loro processioni erano seguitissime e oggetto di contesa (un po’ come il palio di Siena).
I protagonisti erano i “Brassezei” che reggevano crocifissi alti più di cinque metri e pesanti oltre cento chili, appoggiandosi sul crocco (astuccio di cuoio legato in vita), al ritmo e a tempo di musica.
Le Confraternite più ammirate e prestigiose erano intitolate a

"San Giacomo che combatte i Mori del Navone", cassa processionalesettecentesca un tempo conservata nello scomparso Oratorio di San Giacomo delle Fucine, oggi custodito in quello di Sant' Antonio Abate, presso la Marina.
“San Giacomo che sconfigge i Mori del Navone”, cassa processionale settecentesca un tempo conservata nello scomparso Oratorio di San Giacomo delle Fucine, oggi custodito in quello di S. Antonio Abate, presso la Marina.

i Santi Giacomo e Leonardo, San Giacomo delle Fucine e a S. Antonio Abate della Marina.
Queste gareggiavano ogni anno per primeggiare, quanto a originalità, sfarzo e opulenza degli apparati, sulle altre.
Grande rilievo avevano le casse processionali, raffiguranti i personaggi a grandezza naturale, il cui principale artefice fu, manco a dirlo, il Maragliano.
Questi perfezionò l’arte del Navone e del Bissone traslando sulle proprie opere i concetti e le scene dei pittori in voga nel suo tempo (molta influenza su di lui ebbe l’amicizia con il Piola).

"Incontro fra S. Ambrogio e l'imperatore Teodosio". Cassa processionale settecentesca della parrocchia di S. Ambrogio opera del Maragliano.
“Incontro fra S. Ambrogio e l’imperatore Teodosio”.
Cassa processionale settecentesca della parrocchia di S. Ambrogio a Savona opera del Maragliano.

La più nota, conservata in S. Antonio abate della Marina, S. Giacomo che sconfigge i Mori, del Bissone, è di una bellezza sconcertante.
Causa i frequenti disordini pubblici e le violente risse, in epoca napoleonica, le Confraternite vennero abolite.
Ma negli ultimi decenni, vuoi come segno di devozione, vuoi come manifestazione folcloristico culturale, hanno ripreso grande popolarità nella nostra tradizione.

In Copertina: stampa ottocentesca delle Casacce.

Storia di un Borgo di pescatori…

di una dolorosa emigrazione… di un porto argentino e… di una squadra genovese…
Non doveva apparire molto diversa l’immagine che i pescatori genovesi si portarono nel cuore allorquando, nei primi decenni dell’800, abbandonarono il loro quartiere natio, imbarcandosi alla volta di Buenos Aires in cerca di fortuna.

"I colori pastello della Boca"
“I colori pastello della Boca”

Fu così che sbarcati in Sudamerica si diedero da fare e costruirono in breve tempo, a immagine, somiglianza e ricordo di quello originario, il Porto della Boca (da Boccadasse… a Boca…).
I genovesi oltre ai colori e agli odori della propria terra portarono seco la necessità di praticare il football.

"Los Xeneizes"
“Los Xeneizes”

Fu così che nel 1905 sei amici, di cui quattro genovesi, fondarono quella che sarebbe diventata la squadra più titolata del pianeta; il Boca Juniors.
Nel 1907 il giovane Baglietto, primo presidente, insieme ai suoi amici intento a osservare nostalgicamente il mare, decise che

"Il porto della Boca nello specchio adibito ai pescatori".
“Il porto della Boca nello specchio adibito ai pescatori”.

il Boca avrebbe adottato i colori della prima nave che fosse giunta in porto.
La prima fu un’imbarcazione svedese.

Per questo il giallo e il blu divennero i colori sociali, associati al titolo “xeneizes” impresso sulla maglietta.
Giusto per non dimenticare mai le proprie origini.
A titolo di curiosità anche l’altra grande squadra argentina fondata già nel 1901 il River Plate, il cui primo presidente fu Salvarezza, nacque alla Boca e fu fondata dai genovesi.

"Casacca del River".
“Casacca del River”.
Costui, osservando sulla banchina delle casse di legno chiaro, bollate trasversalmente di rosso con la dicitura “River Plate” in attesa di essere imbarcate (traduzione inglese di Rio de la Plata”), ne trasse ispirazione per la scelta della divisa bianca con banda trasversale rossa del Club.

Storia di una Chiesa particolare…

 profondamente genovese…
In Piazza Banchi attigua all’antica Porta di S. Pietro fin dal 862 esisteva, appena fuori le mura, l’omonima chiesa.
Nel 1398, a causa di un vasto incendio, rimase al suo posto un cumulo di tristi macerie fino a quando, alla fine del secolo successivo, venne demolita per permettere la costruzione del palazzo nobiliare di Giannotto Lomellini, Doge della città.
In seguito ad un voto compiuto nel 1583 dal nobile durante la peste, la lussuosa dimora venne abbattuta.
Soltanto le costruzioni a livello della strada rimasero intatte.
Si decise così di ricostruire la chiesa e, caso unico al mondo, si stabilì di tassare i commercianti che, in questo modo, poterono ottenere la concessione delle botteghe sottostanti.
Rispetto a quella originaria l’architetto Bernardo Cantone spostò la facciata rivolgendola non più a mare, bensì sulla Piazza e aggiunse sia la coreografica balaustra marmorea che lo scalone di accesso.
Terminata nel 1590 la chiesa di S. Pietro prese il nome della Porta, in ricordo della vicinanza all’arco dell’antica porta.
Testimone secolare di liti, omicidi (celebre teatro dell’assassinio del musico Stradella), rivolte, contrattazioni, scambi, commerci S. Pietro in Banchi ,come identificata dalla maggioranza, è la chiesa che meglio rispecchia l’approccio tutto genovese, come direbbe De André, “al sacro e al profano”.
L’edificio dovette subire anche l’onta dei bombardamenti di Re Sole nel 1684 e, soprattutto, quelli alleati del 1942.
Ristrutturata per l’ennesima volta si mostra come ancora oggi la vediamo, nonostante i disarmonici squilibri, in tutta la sua scenografica presenza.

“Chiesa di Piazza Banchi”. Foto di Leti Gagge.