Storia di una Chiesa particolare…

 profondamente genovese…
In Piazza Banchi attigua all’antica Porta di S. Pietro fin dal 862 esisteva, appena fuori le mura, l’omonima chiesa.
Nel 1398, a causa di un vasto incendio, rimase al suo posto un cumulo di tristi macerie fino a quando, alla fine del secolo successivo, venne demolita per permettere la costruzione del palazzo nobiliare di Giannotto Lomellini, Doge della città.
In seguito ad un voto compiuto nel 1583 dal nobile durante la peste, la lussuosa dimora venne abbattuta.
Soltanto le costruzioni a livello della strada rimasero intatte.
Si decise così di ricostruire la chiesa e, caso unico al mondo, si stabilì di tassare i commercianti che, in questo modo, poterono ottenere la concessione delle botteghe sottostanti.
Rispetto a quella originaria l’architetto Bernardo Cantone spostò la facciata rivolgendola non più a mare, bensì sulla Piazza e aggiunse sia la coreografica balaustra marmorea che lo scalone di accesso.
Terminata nel 1590 la chiesa di S. Pietro prese il nome della Porta, in ricordo della vicinanza all’arco dell’antica porta.
Testimone secolare di liti, omicidi (celebre teatro dell’assassinio del musico Stradella), rivolte, contrattazioni, scambi, commerci S. Pietro in Banchi ,come identificata dalla maggioranza, è la chiesa che meglio rispecchia l’approccio tutto genovese, come direbbe De André, “al sacro e al profano”.
L’edificio dovette subire anche l’onta dei bombardamenti di Re Sole nel 1684 e, soprattutto, quelli alleati del 1942.
Ristrutturata per l’ennesima volta si mostra come ancora oggi la vediamo, nonostante i disarmonici squilibri, in tutta la sua scenografica presenza.

“Chiesa di Piazza Banchi”. Foto di Leti Gagge.

Kainua…

il nome più antico della Superba…
Al nome Genua che compare per la prima volta nel 148 a.C, si sostituisce gradualmente il latino medioevale Ianua.
Di qui le varie interpretazioni che hanno portato all’idea che Genova, dal latino “Ianua” (porta, accesso), significasse appunto “Porta” sul mare e sui monti (compare così Giano bifronte).
Per altri invece dal greco “Xenos” (straniero), luogo di scambi fra vari popoli.
Per taluni dalla radice celtica “ghe” ovvero mascella, riferito alla particolare forma dell’arco portuale.
Appare invece ormai acclarato, grazie ai ritrovamenti di anfore e reperti vari nella zona del sottopasso e dell’Acquario, che l’emporio dei Liguri sia sorto in virtù del prevalere della comunità etrusca che avrebbe contribuito alla fondazione di una nuova città con funzioni commerciali in relazione alla Provenza e a Marsiglia.
Su molti di questi reperti, come certificato dalla Professoressa Melli, sovrintendente ai beni culturali in quel periodo (anni ’90), appare la destinazione di “KAINUA”, che in etrusco significa proprio “Città nuova”… (dal greco kainòs/kainòn che significa “nuovo”) e dalla desinenza “ua” associata ai toponimi delle città etrusche in genere .

Kainua, da non confondersi con l’omonima località (Marzabotto) nei pressi di Bologna.

GE… NOVA città nuova alla stessa maniera della NEA… POLIS di Napoli.

A scuola continuano, almeno quei pochi che lo fanno, nonostante i glottologi siano ormai concordi nel validare quest’ultima ipotesi, a raccontare le precedenti vulgate.

Nella foto “Genova a metà del XV sec.”.

Ben visibile la Torre dei Greci, a dx dell’ingresso del porto, sul Molo Vecchio. Fu innalzata nel 1324 e dotata di lanterna a olio nel 1326 (stesso anno de la Lanterna).
Incisione in legno realizzata nel 1493 dalla bottega di Michael Wolgemut e successivamente colorata a mano.
Per il “Liber Chronicarum” (Cronache di Norimberga) di Hartmann Schedel, stampato a Norimberga il 12 luglio 1493 da Anton Krobergerl.

“La versione colorata per il Liber Chronicarum”.

Storia degli Ebrei e del ghetto a Genova…

La prima comunità ebraica, il cui nucleo era composto da circa trecento sefarditi, si costituì nell’anno 1493 quando molti di loro furono espulsi dalla Spagna tornata nell’orbita cattolica.
Provenienti da Barcellona dove si erano imbarcati alla volta dell’Africa e dell’Oriente, approdarono nel nostro porto.
Gli fu concesso di sostare nella nostra città dove trovarono impiego come personale di servizio presso le grandi famiglie genovesi, per un periodo non superiore all’anno.
All’inizio del ‘500 il governatore francese impose loro, per poterli riconoscere, la coccarda gialla.
I più apprezzati furono medici, commercianti e prestatori di pegno che, presto, ottennero ampie proroghe al proprio soggiorno.
Nel 1656 Genova, colpita dalla peste, vide la propria popolazione dimezzarsi (da 180 a 90 mila abitanti).
Per incentivare la ripresa economica la Superba ne favorì l’insediamento destinando loro il ghetto che comprendeva la zona di Via del Campo, Untoria, Croce Bianca e Piazzetta Fregoso.
Il quartiere venne cintato da cancelli e decorato con numerose edicole votive e crocifissi per ricordare loro l’inferiorità e la necessità del pentimento.
Le chiavi del ghetto erano custodite dai Massari che vigilavano affinché fosse interdetto ogni rapporto, al di là di quello commerciale, con i locali.
Gli fu concesso diritto di sepoltura (presso la Cava) e il permesso di costruzione della Sinagoga.
Dovevano però, in occasione di particolari funzioni, al fine di espiare le proprie colpe, presenziare alle messe presso le Chiese delle Vigne o di S. Siro.
Il ghetto venne poi spostato in Vico Malatti presso il quartiere del Molo e nel 1674 trasferito definitivamente in Piazza dei tessitori (zona sopra Piazza delle Erbe).
Negli annali, a parte sfottò e lanci di ortaggi, non sono annotati fatti di particolare violenza o intolleranza a riguardo.
Il ghetto venne abolito, a seguito delle nuove idee illuministe nel 1752, ma i diritti civili vennero pienamente riconosciuti agli Ebrei solo nel 1848 sotto il regno Sabaudo di Carlo Alberto.
 
In copertina “Il cambiavalute” quadro di Rembrandt.

Storia dei Rolli…

Molti pensano che i Rolli siano i Palazzi di Via Aurea (attuale Via Garibaldi) e pochi altri di nobili famiglie.
In realtà essi sono circa centocinquanta come codificato in cinque editti dal 1576 al 1664.
Fino a quel tempo infatti, non avendo Genova un palazzo pubblico ufficiale per accogliere le delegazioni foreste (il Palazzo Ducale ricoprirà in seguito anche questa funzione), gli ospiti di lustro erano quasi sempre a carico dei Doria e dei Fieschi.
Nel ‘500 fu così stabilito di censire gli edifici privati e di suddividerli in elenchi (“rollo” significa elenco) da tre categorie:

"Interni di Palazzo Agostino Spinola in Piazza De Ferrari".
“Interni di Palazzo Agostino Spinola in Piazza De Ferrari 3”.

alla prima appartenevano edifici degni di papi e re, alla seconda di legati pontifici e principi, alla terza di cardinali, ambasciatori, artisti e grandi mercanti.
Ad ogni edificio corrispondeva un bussolotto (di pergamena cartacea) arrotolato ed inserito in una delle tre apposite urne (come il giuoco del Lotto) pronto per essere sorteggiato.
Non tutti i Nobili genovesi erano contenti di questa iniziativa che comportava onori e oneri a loro carico.
Molti però ne intravvedevano i vantaggi derivanti dalla possibilità di stringere rapporti di amicizia e commerciali con le più importanti casate europee.
Dal 2006 quarantadue Palazzi dei Rolli, grazie all’impegno profuso dal compianto Prof. Ennio Poleggi, sono stati riconosciuti Patrimonio UNESCO dell’Umanità.

In copertina Palazzo Nicolosio Lomellini, noto anche come Podestà (dal nome di Andrea barone e sindaco di Genova a fine ‘800 che ne fu uno degli ultimi proprietari).

Edificato tra il 1559 e il 1565 da Giovanni Battista Castello detto il “Bergamasco” e Bernardino Cantone.

Storia di un saccheggio…

e di un modo di dire che è divenuto proverbiale…
Nell’anno 205 a.C., durante la Seconda Guerra Punica, Genova alleata di Roma, subisce l’imprevisto e violento attacco di Magone, fratello minore dei più celebri condottieri cartaginesi Asdrubale e Annibale.
Il Generale, come ci racconta lo storico Tito Livio, parte dalle Baleari e si presenta nel Golfo di Genova al comando di trenta navi in assetto da guerra, un numero imprecisato di imbarcazioni varie, dodicimila fanti e duemila cavalieri.

"Seconda guerra punica, scontro navale".
“Seconda guerra punica, scontro navale”.

“Busto di Magone”.

Distrugge, devasta e saccheggia la città che, parole sue: “non merita di essere risparmiata perché priva di una buona vigna” (il nostro vino gli era parso infatti aceto).

Il bottino viene trasportato fra le mura della fedele alleata Savona (forse da qui inizia la millenaria rivalità).

Roma riconoscente per il suo sacrificio nel 203 a.C. contribuirà alla ricostruzione di quella che diventerà la Signora del Mare, inviando mezzi e uomini al comando del Console Spurio Lucrezio.
Da qui, ancora oggi, nell’immaginario dei genovesi e non solo, avere il magone, cioè quel doloroso groppo alla gola, ricorda la paura e l’ansia provate in quella funesta circostanza.

In realtà l’idea dell’identificazione di tale sentimento con il nome del condottiero cartaginese è suggestiva quanto fantasiosa.

Secondo i linguisti infatti il termine magone deriverebbe dal vocabolo germanico “mago” che significa stomaco e, per estensione, disgusto, dispiacere, diffuso in gran parte dell’Italia settentrionale.

Di qui il verbo amagonâse a significare provare disgusto e dispiacere.

Storia di coraggiose imprese…

di una lapide straordinaria… di un Santo protettore…
Già nel 1016 le flotte pisana e genovese congiunte cacciarono gli arabi da Corsica e Sardegna ma fu nel 1088 che, ancora alleate, si resero protagoniste di un’impresa straordinaria che invertì gli equilibri del Mediterraneo nel Mar Tirreno.
Stanche delle incursioni musulmane sulle proprie coste, per la prima volta infatti, le due Repubbliche anziché difendersi, attaccarono il nemico in casa loro.
Violarono l’emporio di Madhia, roccaforte della città di Kerouan, riportando una clamorosa vittoria.

s-sisto
“Quadro raffigurante l’ammiraglio Benedetto Zaccaria, eroe della Meloria, nell’atto di donare alla Chiesa di San Sisto un pallio d’oro come voto, in segno di ringraziamento.”


Dopo aver assediato il Sultano Temim nel proprio castello, ottennero un ricco bottino, il riscatto dei prigionieri e posero le basi per i loro futuri commerci con la totale esenzione fiscale delle merci in tutto il Maghreb.
Pisani e Genovesi si spartirono il bottino; i primi destinarono la quota di loro pertinenza all’erezione del Duomo, i secondi invece, una parte per l’armamento di nuove galee e l’altra per la costruzione della chiesa di San Sisto, in onore del santo che li aveva protetti (la battaglia avvenne il 6 agosto giorno dedicato al Santo).


Sopra il portone della chiesa, come trofeo di guerra, venne affissa una lapide in arabo andata smarrita nel corso dei secoli, il cui significato resta ignoto.
Probabilmente hanno la stessa provenienza altre due lapidi murate in Santa Maria di Castello entrambe antecedenti l’undicesimo secolo.

"Rappresentazione della lapide in Cufico con i versetti di una Sura del Corano custodita in Santa Maria in Castello."
“Rappresentazione della lapide in Cufico con i versetti di una Sura del Corano custodita in Santa Maria in Castello.”

Delle due la prima risulta abrasa e illeggibile, la seconda invece, incisa in Cufico (stile calligrafico arabo) riporta due versetti della terza Sura del Corano, detta della “famiglia di Imran.”

 

Una Sura inneggiante alla pace come spesso se ne trovano scolpite all’interno delle moschee:
90 In verità nella creazione dei cieli e della terra e nell’alternarsi della notte e del giorno ci sono certamente dei segni per i dotati di intelletto…

 

91 … I quali menzionano Dio in piedi, seduti o coricati su un fianco e meditano sulla creazione dei cieli e della terra dicendo “Signore, tu non hai creato tutto questo invano”
che tu sia lodato, preservaci dal castigo del fuoco.”


Altro che pace, da allora le due Repubbliche si scontrarono fra di loro fino a quel, ironia della sorte, 6 agosto del 1284, quando proprio nel giorno di Sisto i Genovesi, presso la Meloria, annientarono i rivali.
Chissà, forse il Santo volle ringraziare i nostri avi per l’erezione della chiesa da questi a lui dedicata e punire i Pisani per non aver fatto altrettanto.

Storia dell’Ammiraglio… terza parte…

La notte fra il 2 e il 3 gennaio 1547 si odono spari e urla provenienti da Porta S. Tommaso; è in atto la celebre congiura dei Fieschi, dal nome della nobile famiglia filo papale e filo francese che l’ha organizzata.
Nel tentativo di sovvertire il potere e l’influenza spagnola del Doria, Gian Luigi Fieschi orchestra il colpo di mano che però, non va a buon fine.
Egli, passando da una galea all’altra cade in mare e muore, causa la pesante armatura, annegato.
Muore anche Giannettino Doria, nipote prediletto ed erede designato dell’Ammiraglio, accorso per sedare i tumulti, colpito forse da un colpo d’archibugio in uno scontro a fuoco presso la Porta di San Tommaso.
Andrea mette in salvo i familiari presso il Castello degli Spinola a Masone e, una volta ripristinato l’ordine, rientra in città.
Il dolore per la perdita del nipote è pari all’atroce vendetta che ordisce, ponderata e tremenda, in un paio d’anni.

Andrea Doria Nettuno
“Ritratto di Andrea nelle vesti di Nettuno opera del Bronzino”.

Espugna e rade al suolo il Castello di Montoggio, uccide tutti i maschi della famiglia, cancella il celebre palazzo di S. Maria in Via Lata (riconosciuto unanimemente come la più lussuosa dimora cittadina), ne confisca tutti i beni, una parte tenendola per sé, una parte per gli Spagnoli e una parte per la Repubblica.
Giustizia anche Pier Luigi Farnese, duca di Parma e Piacenza mente occulta della rivolta, alleato papale dei Fieschi.
Intanto in Spagna Carlo v, preoccupato per l’accaduto, temendo che Doria non abbia più in mano la situazione e che Genova possa passare in mano francese, invia un proprio presidio militare.
L’Ammiraglio non lascia passare gli ispanici e invia Adamo Centurione, il banchiere più ricco d’Europa, a Madrid per rassicurare l’Imperatore che, convinto, ritira le truppe.
“Io che permetto a tutto il mondo cristiano di navigar sereno e alla Spagna di primeggiar credi che non sappia governare la mia città?” … queste, piu o meno, furono le parole dettate dall’ammiraglio.
Andrea Doria continua le sue imprese marinare conquistando nel 1550 la Tunisia, anno in cui muore Peretta, la sua sposa, e riprendendo la caccia a Dragut.
Negli anni successivi sconfigge i francesi in più occasioni e doma le rivolte della Corsica
Allontana dalle coste napoletane le galee di Dragut ma, in una battaglia, all’altezza di Ponza subisce la grave perdita di sette galee e ripara,a stento, nel capoluogo partenopeo.
Nel 1556 a 89 anni suonati, terminata la sua ultima missione, ritorna a Genova dove affida il comando della flotta imperiale al nipote Gian Andrea, ammiraglio del nuovo Re di Spagna Filippo II, subentrato nel frattempo a Carlo V.

" L'Aquila nera uncinata stemma araldico dei Doria".
” L’Aquila nera uncinata stemma araldico dei Doria”.

Nel 1559 ottiene, con la pace di Cateau Cambresis, che la Corsica, abbandonata dai Turchi sconfitti, sia restituita al Banco di S. Giorgio e che i francesi lascino l’isola.
L’anno successivo assiste impotente alla sconfitta del nipote da parte di Dragut, in quel di Gerba, disfatta che permette ai Turchi di consolidare il proprio dominio nel Mediterraneo.
A quasi 94 anni Andrea, corroso dai dolori e dalle recenti delusioni, si spegne nel suo palazzo.

“La teca contenente la spada di Andrea Doria”. Foto di Giuseppe Ruzzin.

Il Dio Nettuno del mare alto un metro e novanta, Principe di Melfi, Ammiraglio Imperiale supremo con il titolo di Capitan general del la Mar, insignito della Legion d’onore francese, del Toson d’oro spagnolo (le massime onorificenze militari) e Padre della Patria è sepolto nel mausoleo, scolpito dal Montorsoli, nella cripta di S. Matteo, accanto ai suoi avi e vicino ad una teca con la copia dell’originale trafugato, della spada d’oro donatagli da Papa Paolo III come “Defensor” della Cristianità.
L’arma aveva cintura e pomo d’oro, l’elsa era incastonata di gemme preziose e recava inciso lo stemma pontificio. Sulla lama invece scintillava il nome di Paolo III e sul fodero il motto “con raro artificio scolpito”.
Appoggiato pensieroso alla sua spada, così lo ha scolpito Eugenio Baroni, in compagnia di Guglielmo Embriaco, a guardia della città.
A eterno ricordo del protettore dell’Occidente!
In Copertina: Andrea Doria è uno dei sei Padri della Patria raffigurati sul prospetto a mare di Palazzo San Giorgio. Opera di Lazzaro Tavarone.
 

Storia dell’Ammiraglio… seconda parte…

Un piccolo passo indietro…

l’anno prima Andrea Doria sposa a sessantuno anni Peretta Usodimare, donna nobilissima, vedova del Marchese del Carretto e parente di Papa Innocenzo VIII.
Passato, come già detto al servizio degli Spagnoli, interra definitivamente il porto di Savona con le cui mura fa erigere la fortezza del Priamar.
Elabora la riforma degli Alberghi (28 principali famiglie delle quali adottano volontariamente il cognome tutti quelli che hanno con esse rapporti di varia natura), istituisce il dogato biennale, la Signoria composta da otto membri, il Maggior Consiglio (400 sorteggiati) e il Minor Consiglio (100 sorteggiati).
Tutte queste cariche sono sottoposte a giudizio dei Supremi Censori.
Andrea viene proclamato Censore Perpetuo e Padre della Patria.
Il Comune, in segno di ringraziamento, gli dona una casa (tuttora esistente) in S. Matteo dove, per altro, mai abiterà.

"Lapide che testimonia il dono dei Padri del Comune del Palazzo in San Matteo". Recita: "Senat. Cons Andre Ae De Oria patriae liberatori Munus Publicum".
“Lapide che testimonia il dono dei Padri del Comune del Palazzo in San Matteo”.
Recita: “Senat. Cons Andre Ae De Oria patriae liberatori Munus Publicum”.

Infatti da tempo ha ingaggiato Il miglior architetto su piazza, Perin del Vaga, per la costruzione della sua reggia il Palazzo di Fassolo, meglio noto come la Villa del Principe.
Dalle terrazze del giardino tiene sott’occhio la Lanterna, davanti controlla (odierna Stazione Marittima) la Porta di S. Tommaso come privilegiato accesso alla sua flotta ricoverata nell’Arsenale.

Alle spalle (attuale Miramare) coltiva boschi e giardini ricchi di selvaggina per essere autosufficiente in caso di assedio.

Per lo stesso motivo fa costruire un lago artificiale il Lagaccio che, ancor oggi, da il nome all’intero quartiere.
Al suo interno sfarzo e opulenza senza eguali (40 letti, quadrerie, ori, arazzi, argenterie e arredi regali) in stile moresco, lo stesso utilizzato per arredare la sua Quadrireme, la galea più grande mai costruita.
Qualunque personalità capiti a Genova prima si reca dal Principe, poi dal Doge.
Nel frattempo Carlo V nomina ambasciatore a Genova De Soria con il quale, in passato, non sono mancati gli screzi. Doria, ne ottiene, a nome della Repubblica, la revoca.
Nel 1532, per meriti militari, l’Imperatore gli conferisce il titolo di Principe di Melfi (il più antico possedimento normanno in Italia).

"La Fontana di Nettuno".
“La Fontana di Nettuno di Taddeo Carlone”.

Al comando delle flotte pontificia, spagnola e dei Cavalieri di Malta sbaraglia i legni turchi rincorrendoli persino nei loro lidi.
L’anno successivo Khair Ad Din, il celebre Barbarossa, con 60 galee non riesce a conquistare Messina difesa, con coraggio da Andrea.
Nel 1535, a capo di novanta Galee, assedia Tunisi, libera i Cristiani prigionieri ma Barbarossa, lì rintanato, gli sfugge e ripara in Algeri.
Nel 1537 cattura dieci navi turche della flotta imperiale del Sultano Solimano.
L’anno seguente è protagonista di un particolare aneddoto al limite della leggenda;

incrociando, nel Mar Egeo, la flotta veneziana (in quel tempo alleata sia della Spagna che del Vaticano) impegnata in uno scontro con i Turchi, se ne mantiene ben alla larga e prosegue la sua rotta, evitando accuratamente di prestarle soccorso.
Viene perciò accusato di condotta scorretta da parte degli alleati ma nessuno oserà mai contraddirlo “de visu”.
Pare avesse confidato ai suoi ufficiali: “Giammai potrei cagionar vittoria a S. Marco a danno di S. Giorgio” (la rivalità delle due città era sempre ben viva).
Nel 1541 Carlo V si imbarca sulla flotta armata del Doria per assediare Algeri ma una devastante tempesta li costringe al rientro in Spagna e a rinunciare all’ambizioso progetto.
Nel 1544 Doria cattura Dragut, braccio destro del Barbarossa e lo fa rinchiudere nella Torre Grimaldina trattandolo, comunque, con tutti gli onori.

"Doria e il gatto Dragut", ritratto di pittore anonimo veneto presso la Villa del Principe".
“Doria e il gatto Dragut”, ritratto di W. Key presso la Villa del Principe”.

Accoglie a Palazzo il Barbarossa che, per liberare il corsaro, paga millecinquecento scudi d’oro e se ne riparte senza problema alcuno.
Il Principe, in smacco al pirata, chiama il suo gatto Dragut…

In Copertina: le aquile dei Doria che adornano la fontana del Palazzo del Principe.

continua…

Storia dell’Ammiraglio…

comandante supremo di tutte le forze cristiane per mare (Venezia esclusa)…
Nel 1512 all’età di quarantasei anni Andrea Doria, dopo una lunga esperienza come capitano d’artiglieria presso lo Stato Pontificio, ottiene dalla Repubblica di Genova il suo primo incarico marittimo, iniziando così la leggendaria epopea del più grande ammiraglio che l’Occidente Cristiano abbia mai avuto.
L’ascesa è rapida: con un’azione ardita rompe il blocco navale francese in porto, assedia e occupa la Briglia (la fortezza ai piedi della Lanterna) e libera la città dagli invasori.
Questa impresa e il conseguente incarico ottenuto di pattugliare le coste per fermare i pirati contribuiscono al suo blasone.
Andrea, in mare, è invincibile.
Passa al servizio della Francia per la quale compie il capolavoro, sconfigge e cattura a Varazze, l’ammiraglio Moncada, comandante in capo della marina spagnola.
A seguito di divergenze con i reali francesi torna a navigare per il Vaticano, per conto del quale, distrugge a Piombino la flotta di Sinan l’Ebreo, luogotenente del Barbarossa.
Ma nel 1527 dopo il Sacco di Roma riprende il comando della flotta francese nel Mediterraneo cagionando numerose e sanguinose sconfitte agli spagnoli, catturandone uno dei tre principali ammiragli e, uccidendone gli altri due (fra cui il Moncada).

"La Sala del potere con sullo sfondo il celebre ritratto del Del Piombo".
La Sala del potere con sullo sfondo il celebre ritratto di Agnolo Bronzino 1540/50 circa che ritrae il Principe nelle sembianze di Nettuno.

Il 1528 è l’anno del colpo di scena; Doria viene ingaggiato dagli Spagnoli, firmando il 10 agosto con l’Imperatore Carlo V, la “Convenzione di Madrid”, in base alla quale si garantisce l’indipendenza della Repubblica, la sottomissione alla stessa della ribelle Savona, l’armamento biennale di dodici galee (il famoso “asiento”, il contratto di nolo delle navi) e il titolo di ammiraglio supremo, il tutto corredato da un faraonico compenso di sessantamila scudi, il doppio di quanto percepito sotto le insegne francesi e papali.
Un mese dopo schiera la sua flotta all’ingresso del porto impedendo la fuoriuscita dei francesi.
Il Senato invia ambasciatori per convincerlo a ritirarsi, in realtà  costoro gli assicurano il loro stesso appoggio e quello del popolo.
Al grido di “Viva San Giorgio e la Libertà“, due schiere sbarcate a Sarzano convergono sul Palazzo Ducale.
I Francesi si rifugiano nel Castelletto e, dopo un lungo assedio, in ottobre si arrendono.
Il 13 settembre di quell’anno Genova era comunque di fatto già libera e l’ammiraglio, rifiutando il personale dominio della città, pronunziava il celebre discorso a favore “dell’Unione” (fra nobili e popolari):

“Genova è nata libera e libera deve restare”…. a 62 anni Andrea Doria è al culmine della sua fama.
Il Mediterraneo è ripulito da Turchi e pirati, Solimano il Magnifico, imperatore turco, assiste incredulo alla fuga della sua flotta davanti al Genovese.
Ludovico Ariosto ne “L’Orlando Furioso” verseggia:

“Questo è quel Doria che fa dei pirati, sicuro il vostro mare da tutti i lati”… ma il bello deve ancora venire…
L’ammiraglio  camperà 94 anni e, a 89 sarà ancora in mare aperto a dirigere la sua flotta…ma queste sono altre storie…
continua…
In Copertina: Ritratto di Andrea Doria opera di Sebastiano del Piombo 1526 conservato presso la villa del Principe.
 

Storia del Sacro Mandillo…

di un re… di un pittore… e di un Capitano…
Il re di Edessa Abgar, ammalatosi di lebbra, inviò in Palestina il pittore Anania per ritrarre le sembianze di un giovane predicatore di cui aveva sentito molto parlare, un tal Gesù, nella speranza che ciò lo avrebbe aiutato nella guarigione.
Anania non riuscì a dipingerne le fattezze cosicché, il Nazareno si asciugò il volto in un fazzoletto di lino imprimendovi i propri lineamenti, dicendogli di consegnarlo al proprio Re.
Tornato in patria Anania accostò il Volto Santo al Re che subito guarì e si convertì al Cristianesimo, proclamandolo religione di Stato.


Dopo varie peripezie, nel 1362, la reliquia giunse a Genova donata dall’imperatore di Costantinopoli al futuro doge, il Capitano e mercante Leonardo Montaldo.
Costui la consegnò ai monaci armeni in fuga dalle invasioni musulmane, stabilitisi in Genova già dal 1308, presso la Chiesa di S Bartolomeo degli Armeni.
Trafugato nel ‘500 dai francesi venne riacquistato e riconsegnato nuovamente ai Monaci orientali.

"Crocifisso bianco settecentesco del Maragliano".
“Crocifisso bianco settecentesco del Maragliano”.


Un’altra perla di Genova, anzi un prezioso gioiello di fattura bizantina, una reliquia che, per valore storico, culturale, artistico e religioso, venerata dagli Ortodossi, è ritenuta addirittura dagli stessi più importante della Sindone custodita a Torino.
Ultima curiosità il Capitano Montaldo, portò seco anche una singolare pianta che ornava i balconi della città.

“Strepitoso trittico del 1415 di Turino Vanni sull’altare maggiore: Madonna e Santi e storie di San Bartolomeo”

Fu così che, secondo la leggenda, quella profumata piantina, chiamata “Erba del Re”, il basilico approdò sulle nostre coste.