Storia di un Palazzo… di un Ponte… di un Re… di un risseu..

… di una chiesa scomparsa… di un mobiliere… di dipinti di Van Dyck…

In una città che re e principi né ne ha mai avuti, né ne ha mai visti di buon occhio è quanto mai curioso che due dei principali musei siano a questi intitolati: Villa del Principe e Palazzo Reale. il Quest’ultimo in realtà si chiama Palazzo Stefano Balbi dal nome del facoltoso mecenate che lo fece, insieme all’omonima strada, costruire nella prima metà del ‘600.

La lussuosa dimora venne poi acquistata nel 1679 da un’altra nobile famiglia, quella di origine albanese, dei Durazzo che diedero incarico al prestigioso architetto Carlo Fontana, di ristrutturarla nella versione in cui, grosso modo, la possiamo ammirare ancora oggi.

“Il monumentale cortile lato giardini”.
“l’atrio in primo piano”.

Divenne Reale solo nel 1823 quando subentrarono i Savoia, nuovi indigesti signori della città dopo il frustrante Congresso di Vienna del 1815, che la elessero a loro residenza cittadina. Nel 1842 la famiglia reale incaricò lo scenografo genovese Michele Canzio di trasformare alcuni ambienti, come le sale del Trono e delle Udienze e il salone da Ballo, per adattarle alle nuove necessità di rappresentanza.

“Il Ponte Reale e la Darsena ad inizio ‘900”.

Fu allora che fu eretto, nella parte a mare, il Ponte Reale che, scavalcando la strada carrabile ( Via Carlo Felice, oggi via Gramsci),

“Resti dell’antica chiesa di San Vittore”.

permetteva ai Savoia di raggiungere, lontano da occhi indiscreti e al coperto, direttamente l’imbarcadero del porto. Il Ponte per la cui costruzione era stata demolita parte dell’attigua e secolare chiesa di S. Vittore, fu abbattuto nel 1964 in occasione della costruzione della sopraelevata.

Una parte della chiesa chiusa al culto venne inglobata nelle strutture del Palazzo Reale e una parte sacrificata per l’artificiosa creazione di Piazza dello Statuto. La navata destra fu invece immolata per l’allargamento di Via Carlo Alberto (1831-39), odierna Via Gramsci.

“Figuranti in costume in occasione delle giornate dei Rolli”.
“Sala del Trono”.
“Trono e Corona”.

Entrambi i lati mutili sono stati “mascherati con facciate posticce di stile ottocentesco ancor oggi visibili mentre gli interni superstiti sono stati ristrutturati per ospitare locali del Palazzo Reale ed una caserma della Guardia di Finanza, da tempo trasferitasi altrove. Di originale a ricordarci del tempio scomparso e dell’abuso commesso rimane solitario il campanile che svetta fra i tetti e vigila sui giardini.

Gli arredi e le opere d’arte, come la celebre Madonna della Fortuna, vennero trasferite nella vicina S. Carlo che ne assunse anche il titolo chiamandosi da allora Chiesa di San Carlo e San Vittore.

Nel 1919 i Savoia donarono il palazzo allo Stato e venne così istituito il museo della galleria nazionale.

“Nel cortile carrozza dei Reali con impresso lo stemma sabaudo”.

Varcato l’imponente portale si accede al cortile con l’arco di trionfo che separa il bel giardino pensile affacciato sulla Darsena del porto.

“Spettacolare immagine dall’alto del risseu”.

Assai particolare è il mosaico della pavimentazione in risseu proveniente dal distrutto Monastero delle Monache Turchine che si trovava sotto Corso Carbonara e Largo della Zecca. Come testimoniato da apposita lapide il risseu è stato risistemato da Armando Porta lo stesso splendido artista che avrebbe restaurato quello di Campo Pisano.

“La lapide che ne ricorda la provenienza”.
“Una preziosa Secretaire di Peters”.

Al suo interno il Palazzo Reale conserva i mobili originali di tutta la sua secolare storia ed include mobili genovesi, piemontesi e francesi della metà del XVII secolo fino all’inizio del XX secolo. Tra questi meritano particolare menzione quelli del celebre ebanista britannico Henry Thomas Peters. L’artista aprì infatti a Genova un laboratorio proponendo il suo stile moderno e all’avanguardia. La sua raffinata produzione marchiata a secco “Peters Maker Genoa” divenne un tratto distintivo imitato per decenni dai mobilieri locali.

Fra i numerosi e pregevoli affreschi sono da ricordare “La fama dei Balbi” di Valerio Castello e Andrea Seghizzi,” La primavera che spinge lontano l’inverno“ di Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli e “Giove che manda giustizia sulla Terra” di Giovanni Battista Carlone.

Nelle sale dei due piani nobili sono inoltre esposti circa 200 dipinti dei migliori artisti genovesi del Seicento come Bernardo Strozzi, il Grechetto, Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccio, Domenico Fiasella insieme a capolavori di Bassano, Tintoretto, Luca Giordano,  Simon Vouet, Guercino e Antoon Van Dyck del quale si possono ammirare due capolavori assoluti: il “Ritratto di Dama” e il “Crocefisso”.

“Ritratto di Caterina Balbi di Van Dyck”.
“Il Crocifisso di Van Dyck”.

Adeguato risalto e spazio viene anche dato alla scultura grazie alla presenza di opere di Filippo Parodi, uno dei massimi esponenti della scultura barocca genovese.

“Elegante portantina reale”.

Il Museo, aperto al piano nobile, presenta una serie di eleganti ambienti decorati e arredati nel Settecento dalla famiglia Durazzo. Appartengono al XVIII secolo la Galleria degli Specchi, la Sala di Valerio Castello (il pittore autore degli affreschi) e la Galleria della Cappella. Risalgono invece all’epoca dei Savoia la Sala del Trono, la Sala delle Udienze, il Salone da Ballo.

“Prezioso e raffinato vasellame”.
“Camera da letto del Re”.
“Sala delle Udienze”.
“Lampadario e soffitto della sala delle Udienze”.
“Sfarzosi arredi e interni laccati”.
“Mobilio e specchio”.
“La Galleria degli Specchi”.
“Soffitto della Galleria degli Specchi”.

La galleria degli Specchi in particolare costituisce veramente un gioiello di eleganza e sfarzo in cui spiccano quattro statue (Giacinto, Clizia, Amore o Narciso, Venere) di Filippo Parodi e un gruppo marmoreo (Ratto di Proserpina) di Francesco Schiaffino.

“Il trionfo di Bacco di Domenico Parodi”.
“Le ancelle preparano Venere”. Domenico Parodi.

Fatta costruire dai Durazzo decorata a fresco 1730 da Domenico Parodi con statue romane e affreschi metaforici sulle virtù e sui vizi. Sullo sfondo risalta il “Ratto di Proserpina” di Francesco Schiaffino.

“la statua del Ratto di Proserpina di Francesco Schiaffino”.

“La Grotta ritrovata del Principe”…

Era prassi consolidata nei giardini privati delle ville patrizie di costruire grotte artificiali e ninfei con giochi d’acqua e fontane.

I nobili le commissionavano, ad imitazione delle antiche domus romane, per trascorrervi qualche momento di sollievo al riparo dalla calura estiva o per immergersi in solitaria lettura accompagnati dal bucolico scorrere delle acque. Spesso le nobildonne vi si intrattenevano con le dame di compagnia mentre si dedicavano ai loro passa tempo preferiti.

A Genova questa moda di costruire caverne artificiali ebbe gran successo ed è per questo che se ne possono ammirare ancora diversi esemplari: quella di Villa Pallavicini a Pegli, di Palazzo Lomellino in Via Garibaldi o quella di Palazzo Balbi Senarega, decorata quest’ultima con statue in stucco, marmi e conchiglie.

Di certo la più celebre rimane però quella del giardino settentrionale della Villa del Principe (Palazzo Doria), realizzata da Galeazzo Alessi a metà del Cinquecento..

Citata addirittura dal Vasari nell’elenco delle opere del capitolo sulla vita dell’Alessi risulta essere oltre che la più antica grotta genovese, senza dubbio la più spettacolare e affascinante, con una vicenda assai travagliata da raccontare.

Venne infatti commissionata a metà ‘500 al celebre architetto perugino da un certo “Capitan Lercaro”, membro di una famiglia di luogotenenti di Andrea Doria, i Doria Galleani, che abitavano nella vicina – e perduta – villa del Gigante proprio nei pressi del luogo dove dal 1566 sorgeva l’omonima statua dell’ammiraglio.

La villa e il terreno con relativa grotta vennero acquistati nel 1603 da Giovanni Andrea Doria ed entrarono così a far parte del parco della Villa del Principe.

Ma a causa del progressivo inurbamento della sovrastante collina nei secoli passati fu dimenticata e trascurata. Già lo storico ottocentesco Federico Alizeri ne denunciava allibito il degrado, descrivendola come deposito di fascine dei contadini della zona.

Ad inizio Novecento fu addirittura trasformata nella cantina di un condominio, danneggiata poi  durante un bombardamento durante la seconda guerra mondiale, fu riscoperta negli anni Ottanta (1984) grazie alla determinazione del prof. Lauro Magnani. Questi, nella speranza che esistesse ancora e conoscendo la sua ubicazione originale, prima di trovarla, girò il nuovo quartiere sorto in quell’area alla disperata ricerca d’informazioni, finché ottenne notizie e riscontri da un’ignara condomina proprietaria, senza saperlo, della secolare grotta nascosta nella sua cantina.

Lo studioso si adoperò perché le istituzioni si attivassero per salvaguardare quell’incredibile patrimonio storico e artistico non riuscendo, a causa della mancanza di fondi e del disinteresse della burocrazia, nel suo nobile intento.

“L’ingresso alla grotta inglobato nel palazzo”. Foto di Emiliano Beri.
“L’ingresso alla grotta”. Foto di Emiliano Beri.
“Particolari delle decorazioni della volta”. Foto di Emiliano Beri.
“Ancora dettagli della copertura”. Foto di Emiliano Beri.
“Spettacolari rappresentazioni marine”. Foto di Emiliano Beri.

Chi la dura la vince e per fortuna il professore salvò il tesoro convincendo nel 1999 la famiglia Doria Pamphilj ad acquisire l’appartamento a cui era legata la proprietà della cantina-grotta che oggi è visitabile, previa prenotazione, nell’ambito dei percorsi guidati del Palazzo del Principe.
Dietro al Miramare varcato un piccolo cortile si apre davanti alla favolosa grotta: pianta ottagonale, pavimento in marmi policromi. Alle pareti non c’è limite alla fantasia dei mosaici polimaterici, con cui si realizzano temi classici: cristalli, coralli, tessere di maiolica colorate e migliaia di conchiglie di ogni forma e tipologia. Non c’ è uno spazio liscio, intorno. Le figurazioni del Nilo, del Tevere, come vecchi dal cui otre sgorgano le acque. L’intera superficie della grotta, tranne i pavimenti rivestiti di marmo, è incastonata di decorazioni in conchiglie, coralli, tessere di maiolica, ciottoli, cristalli e frammenti di stalattiti naturali: un mosaico composto in più materiali di eccezionale ricchezza, che riesce a mescolare natura ed artificio donando all’intera grotta un aspetto acquatico. Sul fondo, si apre la grotta naturale, con stalattiti e stalagmiti dove dal 1550 sgorga ancora l’acqua, attinta chissà dove, e canalizzata, chissà come, fino a qui. Originalmente, sulle figure di coralli e pietre scendevano rivoli d’acqua che tintinnavano. Adesso l’effetto è perduto. Il vano è chiuso, in alto, da una cupola a spicchi: sono rappresentate figure mitologiche legate a Nettuno (rappresentazione metaforica di Andrea Doria).

“Brani di mosaico”. Foto di Emiliano Beri.
“Decorazioni marittime”. Foto di Emiliano Beri.
“Figure mitologiche”. Foto di Emiliano Beri.

Questo anche perché l’acqua, nella grotta, scorre davvero sulla superficie della profonda nicchia aperta sul lato di fronte all’ingresso, mentre anticamente stilava dall’alto nei bacini posti sotto le varie nicchie minori. Tutti gli episodi rappresentati sulle pareti della grotta sono di soggetto e ambientazione marina: Polifemo sullo scoglio, Galatea sulla conchiglia trainata dai delfini, il rapimento di Europa, Nettuno sul cocchio, Perseo mentre uccide il mostro marino che minaccia Andromeda, Peleo e Teti e il rapimento di Deianira.

Un mondo meraviglioso in cui i gli eroi qui rappresentati come direbbe Platone  …” se uscissero dalla caverna e vedessero le cose alla luce del sole si renderebbero conto di aver vissuto in un mondo di apparenze”.
(Il mito della caverna)

“La caverna naturale da cui sgorgava l’acqua”. Foto di Emiliano Beri.
“Mosaici e decorazioni”. Foto di Emiliano Beri.
“Brani di scene mitologiche”. Foto di Emiliano Beri.

Sul Passo del Faiallo…

Dall’alto della montagna

osservo l’incantevole contrasto

fra il verde chiaro delle colline

e il blu cobalto del mare.

Il panorama è illuminato e riscaldato

da un sole esanime ma generoso

di fine estate

che si fa largo lottando fra le nubi.

Un attimo dopo quel che era non è più:

le impetuose correnti provenienti da ponente

spazzano via tutto e quel solare paesaggio

“In poco tempo il paesaggio viene avvolto dalle nubi”.

improvvisamente è ammantato da una melanconica nebbia.

Prima vedevo chiara ogni cosa,

ora non scorgo più niente.

Forse solo le sagome e sento la nebbia

che mi avvolge in una fiaba

come se cercasse di rapirmi.

Forse è solo la mia fantasia.

“La Principessa Sissi sale al Gazzo”…

Con lo scopo di commissionare un monumento funebre degno di tal nome per la tomba del figlio Rodolfo, da pochi anni morto suicida, sua Maestà Elisabetta d’Austria, a tutti nota come Principessa Sissi, giunse a Genova. Scese nel tardo pomeriggio del 26 marzo 1893 dal treno proveniente da Milano alla stazione di Piazza Principe sotto le mentite spoglie di “Lady Parker”. Noleggiata una carrozza, in incognito, raggiunse Ponte Federico Guglielmo dove ad attenderla c’era lo yacht Miramar giunto da Nizza. L’imperatrice era già a bordo quando arrivarono a Calata delle Grazie i suoi bagagli, ben sessantanove colli sistemati su tre carri.
Il giorno successivo dopo la colazione a bordo, l’imperatrice mandò verso le 11 il suo cameriere a fare acquisto d’una guida di Genova e un’ora dopo, accompagnata dalla sua dama di compagnia e dal suo professore di greco, scese a terra… Nessuno fece caso al suo passaggio. Si incamminò verso il centro della città, fino alla chiesa dell’Annunziata dove entrò e si trattenne parecchio ad ammirare le numerose opere d’arte custodite al suo interno.

“Ritratto della Principessa Sissi”.

Uscita dalla chiesa, Elisabetta si diresse in corso Carbonara dove aveva lo studio lo scultore Domenico Carli. Si fermò ad esaminare monumenti quasi terminati. E da lì, proseguì a piedi con passo sostenuto, lungo la Circonvallazione a Monte, per arrivare a piazza Manin.

Di qui, discendendo per via Montaldo, arrivò alla monumentale necropoli di Staglieno, orgoglio dei genovesi pedinata da un cronista del Secolo XIX che nel frattempo si era messo sulle sue tracce.

“Il Monumento dello Scanzi”.
“Sagrato in risseu davanti all’ingresso del Santuario”.

Annota il giornalista: “…Nel cimitero si fermava con compiacenza ad ammirare le opere di Monteverde, Villa, Saccomanno, Sclavi, Carli, Moreno, Fabiani… Dinanzi al monumento di Giacomo Carpaneto dello Scanzi, raffigurante una barca con un angelo, fece copiare sul suo taccuino l’epigrafe: “Avventurato chi nel mar della vita ebbe nocchier si fido”.

Panorama dal belvedere del Gazzo”. Foto di Elena Russo Delmonte

Chiese l’indirizzo dello studio dello scultore… Ritornò in città con una vettura chiusa… In via Roma nel negozio filogranista signor Savelli, fece diversi acquisti e, dopo essersi fermata alquanto nell’offelleria Ferro e Cassanello in piazza De Ferrari, scese in via Orefici, entrando a far spese nella pasticceria della vedova Romanengo”. “Non è dato sapere – precisa il cronista – a quale scultore Sissi  commissionasse il lavoro per il sepolcro del figlio Rodolfo”.

“Il terzo giorno, martedì 29 marzo, venne organizzata un’escursione nel ponente genovese. Verso le 11, vestita con un elegante abito nero, in mano un ombrellino color cenere, assieme alla contessa Festelia e al professor Barker salì su una carrozza scoperta ad un cavallo. La prima sosta fu appena fuori la porta della Lanterna, a ridosso del bastione di San Benigno, per ammirare il paesaggio della cornice rivierasca. Risaliti in vettura proseguirono per Pegli dove giunsero poco prima di mezzogiorno alla Villa Pallavicini. Alle 14 la visita era terminata. Diretta verso Sestri Ponente, la piccola comitiva fece ancora una breve fermata a Villa Rostan, a Multedo, per ammirare il parco di querce secolari ed il laghetto.

Ripreso il cammino, attorno alle tre pomeridiane arrivarono a Sestri. Qui del proposito di Sissi di salire sulla vetta del monte Gazzo doveva essere giunta notizia, perchè a Palazzo Fieschi dalla mattina stavano armeggiando per trasformare in portantina una comoda poltrona, uno di quei capaci e maestosi “careguin” in cuoio di Cordova che allora attorniavano il salone municipale. Portatori sarebbero stati i “camalli da menna”, capitanati dal leggendario “Perrucca”, assai noto a Sestri per il suo pugno proibito e per il trasporto del grandioso gruppo ligneo della Decollazione del Maragliano durante la processione delle Casacce.

“La statua della Madonna, opera del savonese Antonio Brilla”. Foto di Elena R. D.

Nonostante al mattino non si fosse risparmiata, Elisabetta d’Austria – formidabile camminatrice, instancabile e svelta – rinunziò alla portantina preferendo arrampicarsi a piedi fin sulla cima del monte. Fece fermare la carrozza in San Giovanni Battista, dove ad attenderla c’era la guida Francesco Patrone che l’accompagnò fino al santuario, a 421 metri d’altezza”.

Dall’altura il panorama (a quel tempo una distesa di spiagge) era davvero stupendo e l’imperatrice – annota fedelmente il reporter de “Il Secolo XIX” che dal suo arrivo la pedinava discretamente come un’ombra – “espresse il suo compiacimento con delle frequenti esclamazioni di jolie! jolie!”.

” La statua fu scolpita di notevoli dimensioni, alta ben cinque metri, per essere visibile dal mare”. Foto di Elena R. D.

L’imperatrice nei suoi programmi avrebbe voluto fermarsi qualche giorno di più se le fosse riuscito – come era suo desiderio – di passare inosservata. Ma la notizia del suo arrivo aveva ormai fatto il giro della città e nei salotti buoni non si parlava d’altro. Ragion per cui diede ordine al comandante di salpare l’indomani. Il mattino dopo, alle nove in punto, lo yacht imperiale uscì dal porto e costeggiando la riviera di levante puntò deciso verso Napoli, tappa successiva di quel continuo ed inquieto peregrinare. Un moto fine a se stesso, senza una direzione nè un senso, che spinse Sissi a scrivere sul suo diario: “Non si sa che farsi di me perchè vivo al di fuori delle convenzioni. Nulla fa sentire il peso dell’esistenza come il contatto con gli uomini, mentre il mare e le foreste liberano di tutto ciò che è terrestre.”
A ricordare la visita di Elisabetta d’Austria a Genova è rimasta, unica testimonianza, una lapide nel piazzale del santuario del monte Gazzo, murata sulla facciata lato mare del vecchio ospizio dei pellegrini.
L’iscrizione, dettata sul finire dell’800 da Angelo Boscassi, archivista del Comune di Genova, suona così:

“La statua della Madonna del Gazzo come doveva apparire ai tempi della Principessa”.
“La lapide affissa sull’antico ospizio che ricorda il passaggio dell’Imperatrice”. Foto di Elena Russo Delmonte.

“Perchè non cada nell’oblìo – d’Austria Ungheria – alcuni devoti di questo Santuario – posero il presente ricordo”. l’Augusta visita qui fatta il 29 marzo 1893 dalla piissima Imperatrice Regina Elisabetta”.

“Di Ritorno da un viaggio”…

Dietro una serie di gallerie

finalmente la luce del sole,

tanto viva,

che mi parve abbacinante.

L’aria entrava dai finestrini

a folate, tiepide e profumate.

Non più traccia di neve,

nè di bruma:

il cielo era un cobalto purissimo.

Il treno correva

tra le alte colline

ammantate di vigne,

ancora dorate dalle ultime foglie.

Intravedevo grandi onde turchine

che s’infrangevano allegramente

in bianca schiuma fra gli scogli.

Il treno sferragliava ora,

attraverso un sobborgo interminabile

in cui ogni tanto coglievo

un lampo abbagliante di mare turchese,

e bionde facciate di case assolate

dalle persiane verdi,

adornate con grappoli di mimose.

Poi la corsa rallentò

e voci gridarono: “Genova!, Genova!”

Foto di Leti Gagge.

“Venite in Paradiso”…

Dalla spianata, dove un tempo sorgeva il temuto Castelletto, si gode senza dubbio del panorama più affascinante della città: sullo sfondo di una distesa di mare turchino si ha l’impressione di accarezzare con lo sguardo un tappeto di tetti d’ardesia.

Campanili che, come diceva Faber, “segnano il confine tra la terra e il cielo”, torri insolenti che sfidano il firmamento e palazzi da re, in una città che di re non ne ha mai voluti.

“L’ascensore di Castelletto”.

Davanti a cotanto spettacolo Giorgio Caproni compose la sua celebre lirica nella quale immaginava di salire in paradiso a bordo dell’ascensore che lì lo aveva condotto. Eh si perché Genova nell’immediato dopoguerra, con le macerie dei bombardamenti, proprio un inferno  doveva apparire. Un paesaggio desolato che mano a mano che il poeta completava la sua ascesa svelava la sua incomparabile bellezza tramutando l’inferno in paradiso.

“Lapide posta all’interno dell’ascensore”.

Costruito nel 1909, completamente in stile liberty (le cabine son state rifatte nel 2010 in occasione dei suoi cento anni), copre un dislivello di 57 metri, dalla spianata di Castelletto fino a piazza del Portello. Nella seconda strofa de “L’Ascensore” (1948) Giorgio Caproni verseggiava:

“Quando mi sarò deciso
d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore notturne,
rubando un poco
di tempo al mio riposo”.

“Suggestivo scorcio di paradiso”. Foto di Leti Gagge

E un inferno certamente era sembrata la Superba a Hermann Melville che così annotava nei suoi appunti nella primavera del 1857:

“La costa verso il sud. Un promontorio. Tutta Genova e le sue fortezze, la loro esterna solitudine. La desolazione, l’aspetto selvaggio delle valli che intercorrono sembrano fare di Genova la capitale e il campo fortificato di Satana; fortificato contro gli Arcangeli. Le nuvole che si addensano sui bastioni sembrano immaginarie. Sono andato sulla parte orientale del porto e ho cominciato il giro della terza linea di fortificazioni”.

“La Lanterna vista dalla spianata”. Foto Danilo Lo Re.

E nell’Inferno il Sommo Dante aveva collocato i genovesi: fra i traditori pose, infatti, Branca Doria ancor vivo, reo di aver fatto a pezzi il suocero Michele Zanchè per impossessarsi dei suoi possedimenti sardi.
Come racconta il Foglietta nei suoi resoconti il Poeta, giunto nella Dominante, “fu solennemente bastonato sulla pubblica via dagli amici e dai servi di Brancaleone.
Da questa offesa, non potendo il Sommo, vendicarsi con le mani, si vendicò con le parole e la penna”. Da qui la celebre invettiva scolpita nel Canto XXIII dell’Inferno, versi 151-153:
“Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogni magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?”.
Il “Ghibellin fuggiasco” prende inoltre a modello, dopo averla attraversata entrandovi da Lerici, l’aspra nostra terra, per descrivere la montagna del Purgatorio:
“Tra Lerice e Turbia la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole ed aperta”.
(Canto III del Purgatorio, verso 49-51).

E se avesse ragione Faber nei versi di “Preghiera in Gennaio” dedicata all’amico Tenco, morto suicida?

“Venite in Paradiso
Là dove vado anch’io
Perché non c’è l’inferno
Nel mondo del buon Dio”…

“Dio di misericordia
Il tuo bel Paradiso
L’hai fatto soprattutto
Per chi non ha sorriso
Per quelli che han vissuto
Con la coscienza pura
L’inferno esiste solo
Per chi ne ha paura”.

Venite a Genova, venite in Paradiso!

La Piazza dei sette dolori…

La Piazzetta dei Cambiaso deve il nome alla nobile famiglia proveniente da San Cipriano in Val Polcevera che ha dato alla patria due dogi e numerosi senatori. A questa schiatta appartiene anche il famoso Luca, il celeberrimo pittore cinquecentesco nato a Moneglia dove suo padre si era trasferito per sfuggire ai rastrellamenti delle truppe borboniche che, appunto, si erano accampate in Val Polcevera.

“L’altro scorcio della piazzetta!. Foto di Leti Gagge.

Lo spiazzo dei Cambiaso, nonostante l’inopportuna presenza, in un contesto così antico di una moderna edicola del XIX sec, costituisce tuttora un affascinante scorcio da far invidia a certi tanto decantati angoli parigini. Tale edicola plasmata nello stucco e dipinta con una Madonna Addolorata fu infatti posta in sostituzione di quella originaria, di cui non si ha più traccia e a cui si doveva il nome dello slargo una volta chiamato Piazza dei sette dolori o del Dolore.

La dimora che subì gravi danni durante i bombardamenti del 1942/43, come del resto gran parte dei palazzi attigui, è un piccolo scrigno dove sono custodite diverse preziose testimonianze:

“Palazzo Fattinanti, Cambiaso poi”. Foto di Leti Gagge.

ad esempio l’atrio del XVI sec. Palazzo Fattinanti, poi Cambiaso sede del teatro Hop Altrove, dal quale si accede al loggiato varcando un semplice portale marmoreo ornato da lesene con capitelli scolpiti con testine e al centro del trave un cartiglio vuoto.

“In primo piano il portone attorno al quale s’intuiscono i colori di un tempo”. Foto di Leti Gagge.

La famiglia Cambiaso fu ascritta al patriziato nel 1576 e fu probabilmente a partire da questa data che costoro si occuparono di abbellire il palazzo commissionando importanti opere agli artisti più in vista del tempo. Ciò che rimane della decorazione murale ad affresco pare infatti riferibile alla cerchia di Andrea Ansaldo (1584-1638) mentre quella a grottesche che adorna la volta dell’atrio e delle scale, nella quale si notano affinità con le decorazioni delle volte nel vicino Palazzo Imperiale, furono eseguite da Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco (1525-1569) e ultimate appunto dall’Ansaldo.

Di notevole interesse risulta essere altresì un affresco di autore ignoto che raffigura una finestra aperta su di un tipico paesaggio della Genova tardo cinquecentesca.

“Lo scalone che conduce al loggiato con le volte affrescate dal Bergamasco e terminate dall’Ansaldo”. Foto di Leti Gagge.

La scala si snoda elegante ed è resa ancor più scenografica dagli affreschi delle volte e dalle colonne corinzie. I capitelli sono scolpiti con piccole cornucopie, fogliame, pissidi e piccole teste leonine. Sul capitello della colonna ad inizio scala è inciso lo stemma del casato.

“Atrio con ingresso al teatro e accesso allo scalone”. Foto di Leti Gagge.
“Il loggiato dell’atrio ripreso dall’alto”. Foto di Leti Gagge.
“Ancora le volte affrescate”. Foto di Leti Gagge.
“Particolari degli affreschi”. Foto di Leti Gagge.
“Il tratto iniziale dello scalone ripreso dall’alto”. Foto di Leti Gagge.

Durante alcuni lavori di ristrutturazione nel loggiato del primo piano sotto l’intonaco sono emersi pittoreschi brani di azulejos. Sul muro a fianco sono stati rinvenuti resti in pietra e laterizio dell’edificio originale e con essi un’interessante testimonianza di tubazioni in ceramica a trombette delle condotte dell’acqua, il tipico sistema genovese di ripartizione detto a ”piceda”.

“Ho sceso dandoti il braccio…”

Nel quartiere di Carignano alla confluenza fra Corso Podestà e Via Mura di S. Chiara scende la sinuosa ed elegante scalinata Camillo Poli. Uno spazio un tempo occupato dalle imponenti mura cinquecentesche del Prato, delle Cappuccine e di Santa Chiara, con i possenti bastioni che dominano la parte di Levante del centro affacciati sull’odierna Piazza della Vittoria.

“L’ultimo tratto della scalinata visto dal basso”. Foto di Leti Gagge.

Lo scalone è intitolato al medico piemontese di nascita, ma genovese d’adozione, fondatore dell’associazione genovese contro la tubercolosi (1905 – 1973) malattia della quale si occupò tutta la vita. L’opera venne costruita nell’ambito dei lavori di risistemazione di Piazza della Vittoria negli anni ’30 presentati da Marcello Piacentini, il progettista esponente di spicco dell’architettura razionalista. Questi la concepì in stile neo liberty con lo scopo di fornire un coreografico e aulico collegamento alla zona delle Fronti Basse della zona attigua al Bisagno, con la soprastante collina di Carignano.

La scelta della forma ellittica accentua il carattere neo barocco della composizione di chiara ispirazione romana. Tale geometria nel linguaggio propagandistico romano era destinato agli anfiteatri e, in genere, agli spazi celebrativi della magnificenza dell’impero;  ellittici sono i viali di circonvallazione attorno al monumento ai caduti; è pseudo ellittico il segno imposto su piazza Verdi per rendere più morbide le linee di uno spazio irregolare, geometrizzato dal rigore dei palazzi porticati, naturale prosecuzione di quelli di via San Vincenzo.

“L’inizio della discesa. Genova s’intravede sopra la ringhiera”. Foto di Leti Gagge.

A me che ho frequentato il quartiere per 25 anni, scendendo i gradini di Scalinata Poli, sovvengono gli struggenti versi della lirica di Eugenio Montale “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale” (1967). Struggente come è il ricordo degli occhi cerulei di mia madre l’ultima volta che l’ho accompagnata per una visita al vicino Ospedale Galliera.

“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue”.

“Scalinata Camillo Poli”. Foto di Leti Gagge.

Storia di lepri… di case chiuse… di azulejos…

Anticamente nelle mappe la contrada era indicata come Piazza della Foglia a causa della presenza di una bottega di foglie di granoturco, meliga in lingua genovese, utilizzate per l’imbottitura dei pagliericci. Il toponimo mutò intorno al 1795 per via di una locanda esistente in loco dal 1774 rinomata per la preparazione di selvaggina e cacciagione.

Non è da escludere tuttavia il legame con il casato della famiglia Lepre che nel Medioevo aveva qui le sue proprietà. Il vicolo che inizialmente era la prosecuzione del Vico della Torre delle Vigne, solo nel 1864 assunse l’attuale denominazione rimasta legata nella toponomastica cittadina per la presenza fino al 1958 di una delle più apprezzate case di tolleranza della città.

“Il Portale in pietra nera del civ. 9”. Foto di Leti Gagge.

“Rivestimento in azulejos del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

Al civ. n. 9 si può ammirare lo splendido portale in pietra nera con medaglioni imperiali fra nastri svolazzanti del Palazzo Grimaldi Di Negro. La dimora che al suo interno custodisce una delle meglio conservate testimonianze di rivestimento, lungo le prime tre rampe di scale, in azulejos. La trave è ornata con due angeli alati che sorreggono uno stemma abraso a forma di cavallo. Oltre alle pissidi, nei sovra capitelli, si notano degli uccelli esotici, forse cicogne. Al vano scale, decorato con un paio di lapidi in pietra nera, si accede attraverso una cornice ad arco tondo del medesimo materiale con fregi di fogliame a spirale. La scala è adornata con colonne fornite di capitelli e con balaustre marmoree.

“Rampa di scale con pavimento in pietra nera e rivestimento in azulejos del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

“L’antica numerazione a sestieri”.

Vicino al portale in alto è ancora leggibile il numero 400 che ci riporta all’antica numerazione divisa in sestieri, antecedente quella ottocentesca introdotta dai Savoia che ancora oggi utilizziamo.

“Portone interno, ballatoio a rombi marmorei bianco neri e azulejos del civ. n.9”. Foto di Leti Gagge.

“Spettacolare rivestimento in azulejos del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

“Portale con i sovrastanti archi tamponati”.

Guardando verso l’alto, al livello del secondo e terzo piano, subito si notano i resti di archi in pietra bicroma successivamente tamponati e riempiti con finestre posticce. Fra queste risalta quella del primo in marmo con doppio arco tondo e colonnine con al centro il rilievo di una testa imperiale.

“Rampa di scale del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

“Portone e colonne del civ. n. 5”.

Anche l’accesso a Vico Lepre n. 5 è impreziosito da un altro portale marmoreo del XVI sec. con semi colonne ioniche scanalate. Sul trave, fra piccole cornucopie onuste di frutti e conchiglie, si affacciano due mascheroni ghignanti. Forse a ricordarci che i suoi abitanti erano signori della terra e del mare. Al centro campeggia il cartiglio che recita: “Qvodcvnqve Boni Egeris / Ad Devm Referto”.

Trad. “Riferisci a Dio qualunque cosa avrai fatto di bene”

“Suggestiva inquadratura di azulejos in primo piano e fra le colonnine della balaustra del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

E sicuramente bene svolgevano la loro professione le ragazze appunto del Lepre, la casa di tolleranza nota fra i suoi clienti anche con il poetico nome di “Casa dalle persiane chiuse”, che qui aveva sede.

“Decori in azulejos recentemente restaurati del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

“Ancora azulejos del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

Il centro storico fino all’abolizione delle case chiuse sancita dalla famigerata Legge Merlin pullulava di bordelli: ad esempio in vico Basadonne, vico delle Fate, vico Lavezzi, vico Spada e Vico dei Castagna frequentati dalla clientela più alla buona mentre il Lepre, pur non essendo lussuoso come il “Mary Noire” sito in San Luca, o alla moda come il “Suprema” (detto anche “Cebà” dal nome della via nel cuore della vecchia Portoria), godeva di un certo prestigio e, sicuramente, beneficiava di una privilegiata ubicazione. Oggi la piazzetta ospita, in una sorta di ritorno alle origini, una genuina trattoria ed un chiassoso ritrovo della movida notturna cittadina.

A vegliare sulla contrada, all’angolo fra piazza e vico, si trova infine, protetta da una grata, una settecentesca edicola in stucco con al suo interno la statuetta della Madonna con il Bambino.

Storia di Crociati… di una Confraternita… e di una camicia rossa…

Percorrendo Via Ravecca, giunti quasi all’altezza di Piazza Sarzano, si trova il Vico del Dragone, un caruggio come tanti, il cui toponimo fornisce però curiosi spunti narrativi.

I membri della famiglia Dragoni o Dragone, di origine umbra, si distinsero come valorosi cavalieri gerosolimitani durante le crociate e per questo, sul loro scudo, potevano esibire con legittimo orgoglio le insegne con tre teste di drago. Numero di teste che venne ridotto a una sola adagiata sul corpo di una colomba da Confidato Dragoni sostenitore, prima dell’Imperatore, e poi di Papa Innocenzo II.

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“La targa di vico del Dragone”.

Secondo un’altra versione l’origine dell’etimo del caruggio deriverebbe invece dalla presenza in loco dei Draconari. Costoro erano portatori di labari con sopra dipinti dei dragoni simbolo dell’eresia. I membri di questa misteriosa confraternita non solo partecipavano a processioni e a riti esoterici ma accompagnavano anche le spedizioni militari.

In Vico Dragone 43r. si può ammirare una cornice lineare in stucco completamente vuota del cui dipinto una volta esposto all’interno non sono riuscito a trovare notizie.

Pochi metri più in là è affissa un’ottocentesca lapide che recita:

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“Lapide affissa sulla casa natale di Bartolomeo Savi”.

“Nacque in questa casa,
il VI gennaio MDCCCXX
Francesco Bartolomeo Savi
carcerato per tentativo del 1857
prode dei Mille
apostolo della fede mazziniana
sino alla morte
XXX marzo MDCCCLXV
nel vigesimo anno di Roma liberata il Circolo del pensiero”.

“Armi e divise garibaldine presso il Museo Risorgimentale”.

Bartolomeo Savi fu insieme a Nino Bixio uno dei fondatori della Società del Tiro a Segno della Foce che, sotto questa copertura, era il centro di reclutamento delle camicie rosse. Alcune sue lettere private e indirizzate all’eroe dei due mondi sono custodite presso l’archivio del Centro Sociale di Storia Sociale di Palazzo Ducale. La sciabola e il ritratto del valoroso combattente garibaldino sono conservati presso il Museo del Risorgimento, la Casa di Mazzini in Via Lomellini.

Bartolomeo fu anche animatore dell’organizzazione operaia e tra i fondatori del giornale mazziniano “Italia e Popolo”; partecipò al fallito moto insurrezionale genovese del 1857, a causa del quale finì in carcere. Beneficiato da un’amnistia si arruolò nelle file dei Carabinieri genovesi come luogotenente del comandante Antonio Mosto; partecipò alla spedizione dei Mille durante la quale rimase ferito a Calatafimi; sfruttò la sua attitudine di cronista occupandosi di inviare al giornale “Unità d’Italia” accalorate corrispondenze di guerra. Seguì Garibaldi fino al giorno che, dopo l’Aspromonte, tutto gli parve falsato. Malato e depresso, di lì a poco, tediato della vita si uccise sparandosi un colpo alla testa.

Il giornalista garibaldino riposa in pace, poco distante dal suo Generale, Boschetto Irregolare del Cimitero Monumentale di Staglieno.

 

“Ritratto di Bartolomeo Savi”.
“Monumento funebre di Bartolomeo Savi nel Boschetto Irregolare del Cimitero di Staglieno”.

In copertina: vico Dragone. Foto di Stefano Eloggi.