Vico del Duca

In Via Garibaldi davanti al Palazzo del Comune di si trova il vico del Duca.

Il caruggio si chiama così proprio per via del nome del palazzo del Duca di Tursi sede del primo cittadino genovese.

Tursi è una località in Basilicata che venne concesso in feudo nel 1552 all'ammiraglio   come marchesato (poi ducato) dall'imperatore .

Carlo I Doria del Carretto dal 1601 al 1649 fu il primo a ricoprirne il titolo di Duca.

Il vicolo unisce il sacro dell'elegante via Garibaldi con il profano della multietnica via della Maddalena.

Vico del Duca. Archivolto lato .

Scomparsi nel tempo un bassorilievo con una crocifissione e una tavella con l'Agnus Dei, sotto l'archivolto rimangono, malinconiche testimoni di un antico passato, due nicchie vuote che ospitavano un tempo statue di santi e, al civ. n. 7, un piccolo rilievo con un Sant'Antonio da Padova col Bambino.

In Copertina: Vico del Duca. Foto di Giovanni Cogorno.

Vico dietro il Coro delle Vigne

In Vico dietro il Coro delle Vigne può capitare al civ. n. 15r di cenare in un ristorante con al centro, su un grande basamento testimonianza di uno scomparso porticato, una marmorea colonna dorica.

Al civ. n. 13r invece si incontra la Bottega degli Incisori del maestro docente presso l'Accademia Ligustica delle Belle Arti.

Disegnatore, orafo e maestro incisore esperto nelle più antiche tecniche di lavorazione: sbalzo e cesello su lastre di metallo e argento. Ideatore di cornici, acquasantiere, reliquiari e arredi sacri.

Stampe alla puntasecca e all'acquaforte, acquatinta, alla cera molle che hanno come protagonisti immagini sacre e scorci dei .

Salendo da piazzetta Cambiaso verso via della Maddalena si nota, posto sopra una finestrella rossa in ferro battuto, un rilievo rettangolare in pietra che raffigura tre stemmi abrasi.

In Copertina: Vico dietro il Coro delle Vigne. Foto di Giovanni Cogorno.

Coniglio alla ligure

Lo so il , piatto tipico del ponente della regione, andrebbe cotto in un classico tegame () di coccio.

Purtroppo però i fornelli ad induzione della mia non mi permettono di seguire tale sacrosanta disposizione e mi sono dovuto così adattare ad utilizzare un moderno tegame di acciaio.

Di questa ricetta non si hanno particolari riferimenti storici ma, essendo legata alla cultura contadina dell'entroterra, è cucinata un po' ovunque, in paricolare tra le province ponentine di Imperia e .

Oltre al coniglio, protagonista del piatto è la tipica oliva taggiasca il cui inconfondibile gusto amarognolo ben si sposa con gli altri aromi (timo, aglio, rosmarino e pinoli) conferendo alla vivanda il suo armonico gusto.

Ricetta e preparazione variano di famiglia in famiglia.

L'importante comunque, prima di aggiungere il vino per la sfumatura, è farlo rosolare bene a fiamma vivace stando attenti che non si attacchi o bruci.

Dettaglio non da poco infine è la scelta del vino da utilizzare sia in cottura che come abbinamento durante il pasto:

Rossese di Dolceacqua all'estremo Ponente, Ormeasco in Alta Valle Arroscia, Rossese di Campochiesa o Pigato (seppur bianco) lad Albenga e nella sua Piana.

Io ho scelto in ricordo di Dolceacqua dove l'ho assaggiato la prima volta tanto tempo fa, l'omonimo Rossese.

Coniglio alla ligure

  • 1 coniglio (da circa 1,5 Kg)
  • 1 cipolla
  • 2 spicchi d'aglio
  • 1 bicchiere di vino
  • 100 gr o della Riviera
  • 6 rametti di timo
  • 2 rametti di rosmarino
  • 2 foglie di alloro
  • 20 gr pinoli
  • Olio di oliva evo ligure
  • Pepe Nero macinato

Vico dei Fregoso

Alle spalle di via del Campo, in quello che un tempo è stato il cuore del secentesco ghetto ebraico, si trovano vico e piazzetta dei Fregoso.

La zona, abbastanza abbandonata e degradata, è ricca di testimonianze del passato: edicole votive portalini in pietra, archetti e vecchi portoni, sono visibili un pò dappertutto.

Purtroppo anche questo caruggio non sfugge alla pratica di presunti artisti da strada, meglio qualificabili come ignoranti incivili, di imbrattare i muri con le loro abominevoli scritte.

Il toponimo del sito trae origine dal nome dell'omonima nobile famiglia polceverasca.

Costoro, chiamati anche , provenienti da Piacenza agli albori del 200 infatti si stabilirono nella valle lungo il torrente Polcevera (“il fiume che porta le trote”) da loro indicata come “Fregosia”.

Fu un casato molto potente che si suddivise in diversi rami e che diede origine ad un plurisecolare strategico dualismo, legato alle alleanze con Francia e Spagna, con gli Adorno.

I Fregoso raggiunsero il loro apogeo infatti con Domenico Campofregoso che nel 1378 si auto proclamò Doge dopo aver destituito dalla carica il rivale Gabriele Adorno

Non pago il pugnace Tommaso tolse ai Fieschi il feudo di Roccatagliata e assicurò l'isola di Malta ai .

Il fratello Piero non fu da meno poiché anch'egli, nominato poi Doge nel 1393, riprese Cipro agli infedeli restituendola, in cambio della signoria su Famagosta, al legittimo re.

Anche Giacomo, Tommaso, Spinetta, Giano, Ludovico, Pietro, Battista nei decenni successivi ottennero il dogato.

Paolo a metà ‘400 e Federico un secolo dopo furono cardinali e influenti arcivescovi di .

L'esponente più famoso fu senza dubbio Ottaviano che fu Doge dal 1513 al 1515 e poi, per conto della Francia di Francesco I, governatore fino al 1522 quando la città passò, con il famoso Sacco, in mano spagnola. Morì in carcere ad Ischia, probabilmente avvelenato.

A lui si devono i lavori di ampliamento portuali, la costruzione del campanile di San Lorenzo e l'abbattimento della Fortezza della Briglia presso la Lanterna

Fu una figura di grande rilievo nel suo tempo al punto che Baldassarre Castiglione nl suo “Il Cortigiano” lo celebrò come modello illuminato per i governanti dell'epoca e persino il Guiccciardini nella sua “Storia d'Italia” ne tessè le lodi:

Principe certamente di eccellentissima virtù, e per la giustizia sua e per altre parti notabili, amato tanto in quella Città, quanto può essere amato un Principe nelle terre piene di fazioni, e nella quale non era del tutto spenta nella mente degli uomini, la memoria dell'antica libertà”

Caduti in disgrazia ai Fregoso fu impedito di formare un loro proprio albergo autonomo e nel 1528 furono ascritti in quello dei De Fornaro.

Continuarono a far fruttare il loro valore in armi in qualità di capitani e ammiragli prestando servizio per i veneziani, Papa Giulio II e Francia.

Per questo un ramo dei Fregoso fu fregiato della contea di Verona, un ramo si trasferì a Parigi mentre a Genova si estinsero già nel XIX secolo.

In Copertina: Vico dei Fregoso. Foto di Anna Armenise.

Le Mura del ‘500…

Nel ‘500 dopo il nefasto Sacco della città avvenuto nel 1522 Genova dispone l'ampliamento della precedente e obsoleta cinta muraria affidandone la realizzazione all'ingegnere Olgiati e all'architetto Sangallo. Si tratta della sesta delle sette cinte murarie della storia della città:

la prima risalirebbe all'epoca romana in risposta alla distruzione operata nel 205 a. C da Magone, la seconda del 935, a seguito del saccheggio musulmano predetto dal leggendario episodio della fontana del Bordigotto, la terza, la più celebre, quella detta del Barbarossa perché eretta come deterrente per le bellicose mire dell'imperatore tedesco, la quarta del 1276 – 1287, al tempo delle lotte fra le Repubbliche marinare in pieno periodo di scontro con Pisa e Venezia, la quinta del 1320, sorta dopo “la congiura dei moccolotti” e la minaccia della marcia di Castruccio signore di Lucca, promossa dalla fazione ghibellina, la settima del 1626 – 1639 detta delle “Mura Nuove”.

L'ultima, l'ottava, al tempo della dominazione piemontese, in pieno ‘800 merita un discorso a parte perchè legata principalmente ai forti.

Uno dei principali sostenitori dell'opera è l'ammiraglio Andrea Doria che, dopo aver liberato nel 1528 la Superba dai Francesi, intende proteggerla con mura e bastioni adeguati, da possibili futuri attacchi.

Fu così che, a partire dal 1536, vennero erette o rinnovate sei porte: Porta di S. Tomaso che da allora sarà anche detta del “Principe” in omaggio all'ammiraglio Andrea (sita più o meno nella zona in cui sorge oggi la Stazione Marittima), di Carbonara lungo il corso dell'omonimo rivo in zona tra S. Agnese e il Carmine, del Portello a protezione della zona delle Fontane Marose, dell'Acquasola o di Santa Caterina, del Molo o Cibaria e dell'Arco o di S. Stefano.

Quest'ultima un tempo situata all'incirca dove oggi si trova il Ponte Monumentale, trovandosi nelle vicinanze della chiesa di S. Stefano, nel linguaggio comune ne aveva assunto il nome.

    “Porta degli Archi o di S. Stefano nella sua originaria collocazione presso l'attuale Ponte Monumentale. In alto si riconoscono le forme e il campanile dell'omonima chiesa”. Cartolina tratta dalla Collezione di Stefano Finauri.

Alla costruzione della porta lavorarono i maestri Giovanni Orsolino, Pietro Antonio, e Giacomo da Corona. Nel 1605 il Senato commissionò a Taddeo Carlone la statua di S. Stefano da apporre sul frontespizio. Nel 1897 con la realizzazione del Ponte Monumentale, come ricordato da apposita targa, venne trasferita, o meglio nascosta, nell'odierna Via Banderali presso le Mura delle Cappuccine dove la si può ancora ammirare in tutta la sua imponente e rassicurante presenza.

“Porta degli Archi o di S. Stefano nella sua attuale collocazione di Via Banderali in ”. Foto di Leti Gagge.

Questa Porta / Disegnata da Gio Maria Olgiato /

decorava il Varco orientale della Mura cittadine del 1536/

Fu demolita per Sostituirvi il Ponte Monumentale/

e qui ricomposta /

per deliberazione della giunta municipale /

10 giugno 1896

“Santa Caterina posta a custodia della Porta dell'Acquasola:  La scultura regge nelle mani la palma e la ruota simboli che stanno a ricordare il martirio.. Ai piedi la testa dell'imperatore Massimino che ne aveva decretato la morte”. Foto di Franco Risso

La Porta Murtedo (sita nell'odierno Largo Lanfranco) appartenente alla cerchia del tempo del Barbarossa nel 1511 venne atterrata e sostituita da quella detta dell'Acquasola. La nuova porta (locata dove oggi si staglia la discussa statua equestre del re sabaudo in Piazza Corvetto) venne rinnovata per meglio adattarsi al nuovo assetto murario e decorata con una preziosa statua di Santa Caterina d'Alessandria, opera di Guglielmo della Porta (oggi conservata in una nicchia di fronte allo scalone del primo piano dell'accademia Ligustica) e da un bassorilievo, opera di Gian Giacomo della Porta, raffigurante il Salvatore oggi conservato a Palazzo Bianco.

Venne purtroppo sacrificata nel 1830 dall'architetto Carlo Barabino per ampliare la scenografica passeggiata che collegava l'omonimo parco con la villetta del marchese Gian Carlo Di Negro. La struttura venne definitivamente rimossa negli anni '70 dell'ottocento. Di passeggiata e Porta sono rimasti solo i  ricordi.

La lapide attribuita all'umanista Pietro Bembo su incarico del Senato recitava:

DUX GUBERNATORES PROCURATORESQUE /

AMPLISSIMI ORDINIS DECRETO  UT TUTELA AD HOSTI

BUS /

JUCUNDISSIMA LIBERTATE FRUATUR  SUMMA IMPEN

SA / INGENTIQUE STUDIO MONTIBUS

EXCISIS, / ET LOCI NATURA SUPERATA

PER DIFFICILI OPERE URBEM FOSSA/

MOENIBUS  AGGERIBUS  PROPUGNACULISQUE

INCREDIBILI CELERI MUNIERUNT/

ANNO DOMINI MDXXXVIII / RESTITUITAE
VERO LIBERTATIS X.

“Il Doge, i Governatori e i Procuratori, / per decreto di tutto il Senato,

Onde proteggere la Repubblica di nemici, /

E poter godere della carissima libertà,

con ingentissima spesa, / scavati i  monti con grande cura, / e vinta la natura del luogo con lavori assai difficili, / i confini della città di mura, bastioni e baluardi, con incredibile velocità munirono. /

Nell'anno del signore 1538 /

Anno decimo della restaurata libertà”.

“Brani delle mura cinquecentesche nel tratto dell'Acquasola dietro il Palazzo di Giustizia”. Foto dal web.
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“Stampa ottocentesca della Porta di San Tomaso vista dall'interno”.

Analoga lapide venne posta sopra Porta di San Tomaso che, esistente già dal 1345, assunse caratteristiche simili a quelle della Porta dell'Arco. Anche la statua del Santo, raffigurato nell'atto di toccare il costato del Salvatore, venne scolpita da Guglielmo della Porta. Nel 1749, per celebrare la cacciata degli austriaci in memoria dell'eroica impresa del Carbone, venne arricchita con una statua raffigurante la Madonna. La porta e l'omonimo attiguo monastero, furono demoliti a metà dell'800  nell'ambito dei lavori di ampliamento di Ponte dei Mille e Ponte Federico Guglielmo per far posto a fine secolo alla Stazione Marittima. La statua del santo è stata preservata ed è custodita nella chiesa di San Tomaso in Via Almeria, quella della Madonna, presso il Seminario del Righi.

“Lo scomparso Monastero di S. Tomaso”.

Infine Porta Siberia, o meglio Porta del Molo Vecchio, che venne costruita su progetto dell'Alessi fra il 1553 e il 1555 per fungere da raccordo fra le mura del Mandraccio e quelle della e chiudere così la cinquecentesca cinta a levante. Ornata in pietra di Finale sul fornice alla sommità dell'arco reca una lapide attribuita al letterato Jacopo Bonfadio:

AUCTA EX S.C. MOLE EXTRUCTAQ.

PORTA PROPUGNACOLO MUNITA

URBE CINGEBAT MOENIBUS

QUACUMQUE ALLUITUR

MARI ANNO MDLIII.

“Per decreto del Senato, dopo aver prolungato il molo, costruita la porta e averla munita con difese (i cittadini) cingevano con mura la città lungo tutta la parte ove è bagnata dal mare”.

“Porta del Molo Vecchio”. Foto di Leti Gagge.

Ho lasciato volutamente per ultime le restanti due porte di Carbonara e Portello perché sono quelle le cui notizie e testimonianze sono più scarne.

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“Porta di Carbonara in una veduta  ottocentesca di P. Domenico Cambiaso. Da notare il casotto delle guardie e l'immancabile edicola votiva”.

Della prima si sa che, come la Porta di San Tomaso, esisteva già nel 1345 costruita nell'ambito del progetto di ampliamento delle mura verso ponente che prevedeva l'erezione di tre nuove porte (oltre a S. Tomaso e Carbonara, Pietraminuta). La porta era affiancata da una torre che controllava la porzione di territorio lungo l'omonimo rivo, compresa tra S. Agnese e il Carmine sotto il Castelletto.

“Cartolina di inizio novecento di Via Caffaro al cui imbocco nel ‘500 si trovava la Porta del Portello”. Immagine tratta da genovacollezioni.it”.
“Il Ponte Reale con l'omonima Porta di accesso proprio di fronte a Palazzo ”.

Anche della seconda si conosce poco. Si sa che si trovava nell'odierna omonima piazza all'imbocco dell'attuale Via Caffaro, al di fuori della quale v'erano ulivi e terreni coltivati. Posta a protezione e accesso, tramite un caruggio tra i palazzi Imperiale Lercari e Cambiaso, alla monumentale Strada Nuova, odierna Via Garibaldi. Da una parte la semplicità di oliveti ed orti, dall'altra l'opulenza della famiglie patrizie e della borghesia mercantile.

“I Ponti Calvi e Spinola. Acquaforte settecentesca.  Collezione topografica del Comune”.
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“Il Molo Vecchio con sulla destra la Porta del Molo e quella dei Cattanei”.
“Il Ponte Reale e quello della Mercanzia. Acquaforte settecentesca, Collezione topografica del Comune”.
“I Ponti Spinola, Reale e Calvi. Acquaforte settecentesco. Collezione topografica del Comune”.

Oltre alle principali sei porte citate ve ne erano altre cinque minori in porto collocate in corrispondenza degli omonimi moli: Porta Ponte Cattanei, Porta della Mercanzia, Ponte Reale, Ponte Spinola e Ponte Calvi.

In Copertina: “Porta degli Archi o di S. Stefano nella sua attuale collocazione di Via Banderali in Carignano”. Foto di Leti Gagge.

Portale in Vico dei Ragazzi 7r.

Poco prima dell'archivolto che immette in piazzetta Invrea sul fianco del a cui si accede dal civ. n. 3, si incontrano vestigia di un lontano passato.

Si tratta dei residui al 7r di un portale in pietra di Promontorio risalente addirittura al XIII secolo.

Ormai distrutto resta solo il trave in pietra nera che ritrae in rilievo una racchiusa in una di fiori sorretta da due angeli.

Dalle descrizioni precedenti si evince che ai lati erano scolpiti candelabri, uccelli, mostri e figure alati.

In alto sul lato destro dello stipite si nota un medaglione imperiale.

In Copertina: Portale di 7r. Foto di Giovanni Cogorno.

L’Archivolto Baliano

In Piazza Matteotti proprio poco prima di immettersi in via San Lorenzo sulla sinistra si incontra un passaggio che collega la piazza con il budello di via di Canneto il Lungo.

Questo varco è noto come e prende il nome dall'omonima famiglia che qui aveva le sue proprietà.

L'Archivolto Baliano ripreso da Canneto il Lungo verso Piazza .

Tale archivolto, oggi semi tamponato e sovrastato da ulteriori successive costruzioni, è una delle porte della prima cinta muraria di cui si ha traccia del X secolo.

La copertura è stata realizzata nel primo decennio del 2000 per mascherare l'ingombrante struttura di consolidamento con travi metalliche necessarie alla sua stressa staticità.

L'Archivolto Baliano ripreso da Piazza Matteotti verso Canneto il Lungo.

L'esponente più famoso di tale schiatta fu senza dubbio il fisico e matematico Giovanni Battista Baliani o Baliano (, 1582 1667).

La lapide che ricorda il rapporto di amicizia con

I suoi studi di meccanica e di astronomia gli valsero, testimoniata da una fitta corrispondenza epistolare, la stima e una venticinquennale amicizia con Galileo Galilei.

L'archivolto prima della copertura. Foto di Mario Caraffini.

Gio Batta Baliano fu anche uno dei principali artefici della costruzione delle Mura Nuove del 1639.

In Copertina: L'Archivolto Baliano ripreso dalla parte di Canneto il Lungo.

Vico Teatro delle Vigne

Tutta la zona contraddistinta dal toponimo delle Vigne ha origine antichissime e presenta continue vestigia medievali.

I nomi dei rimandano infatti alla vocazione agreste della contrada e omaggiano la millenaria basilica di Santa Maria delle Vigne – per i genovesi- semplicemente le Vigne.

In questo vicolo nel ‘600 aveva sede un'osteria che nel 1702 si trasformò in un teatro popolare.

La struttura interamente di legno contava ben 39 palchetti più un loggione.

Gli spettacoli di dubbia moralità che vi si rappresentavano costrinsero le autorità a numerosi interventi repressivi.

Il teatro, sotto la giurisdizione della nobile famiglia dei , si convertì alle rappresentazioni di burattini e di storie sacre fino alla chiusura nei primi anni del ‘800 per motivi di igiene e sicurezza.

Qui nel 1789 si esibì la Compagnia di Giambattista Sales e Gioacchino Bellone ignari inventori in quel frangente della maschera piemontese Gianduja.

Il nome del loro personaggio principale Gerolamo infatti venne, per non offendere l'omonimo doge (Gerolamo Durazzo) cambiato in Giuanin d'la douja (Giovanni della ) che per contrazione si trasformò in Gianduja.

In Vico Teatro delle Vigne rimane curiosa testimonianza invece di un passato molto più recente in un vecchio cartello di latta inchiodato al muro che avverte:

Contravvenzione £ 1000 e Risarcimento Danni Contro Chiunque non Rispetti i Muri di questi Edifizi Dichiarati Monumenti Nazionali e Contro Chiunque Versi Immondizie o Rifiuti in Questo Transito, Senza Riguardo alla Salute Pubblica e Contro la Moralità… Art. 726-733 Codice Penale.

Banali regole di buona educazione, per altro attuate dalla Repubblica di già in pieno Medioevo, che oggi tra presunti writers e degrado diffuso, sono lettera morta di costante inciviltà.

In Copertina: Vico Teatro delle Vigne con scorcio su Piazza della Lepre. Foto di Giovanni Cogorno.

Vico della Prudenza

In quest'area della zona del Carmine sorgeva in epoca pagana il Tempio della Prudenza.

Da qui l'origine del nome del caruggio dove si presume avesse sede il tempio.

Secondo la tradizione il simbolo della prudenza era la giuggiola.

La giuggiola infatti (zizzoa in genovese) rappresentava la virtù del silenzio e forniva gli ornamenti per il tempio stesso.
Ancora oggi un secolare esemplare di questa pianta fa bella mostra di sé e dà il nome all' omonima vicina piazza.

In Copertina: . Foto di Stefano Eloggi.