Vico Morchi

Vico e piazza Morchio o Morchi devono il nome alla famiglia originaria dei dintorni di Rapallo dal 1350.

Costoro in città possedevano una casa con relativa torre ancora oggi visibile dal lato di Piazza Caricamento.

Nel 1528 con la riforma degli Alberghi voluta da Andrea D’Oria la famiglia fu ascritta in quella dei Giustiniani.

All’angolo con Sottoripa una lapide ricorda che qui aveva sede l’albergo Croce di Malta che ospitò molti personaggi illustri: Fenimore Cooper, Henry James, Mary Shelley, Stendhal, Flaubert, Mark Twain e Giuseppe Verdi.

La Grande Bellezza…

In copertina Vico Morchi. Foto di Stefano Eloggi

La Divina Pietà

Dopo il palazzo Ducale, la dimora della potenza passata di Genova, bisogna visitare lAlbergo dei poveri molto più ricco del palazzo Ducale stesso. Tre grandi architetti lo hanno costruito con un lusso incredibile. Vi si può ammirare, adagiato tra le braccia della Madonna, un magnifico Cristo di Michelangelo, marmo stupendo“.

Con queste parole Jules Janin, scrittore romantico francese nel suo “Voyage en Italie” del 1838, descriveva la preziosa scultura custodita presso l’altare maggiore della cappella dell’Albergo dei Poveri.

Per molti secoli infatti esperti e illustri visitatori hanno ritenuto tale mirabile capolavoro frutto della divina arte del rinascimentale genio aretino.

Stendhal – ad esempio – nel suo “Journal d’un voyage en Italie et en Suisse, pendant l’année 1828″ annotava:

«Vedere l’ospedale o Albergo dei poveri: bassorilievo attribuito a Michelangelo»

Anche Giuseppe Banchero, ottocentesco esperto genovese, fra le opere degne di menzione cita naturalmente la «Divina Pietà», secondo lui «condotta dallo scalpello di Michel più che mortal angiol Divino»

A mettere in dubbio la paternità dell’opera fu il coevo e conterraneo storico Federico Alizeri che scrisse:

«dicono che in fatto di belle arti gran giudice è l’occhio e questo li avvisa come nella scultura manchi sovratutto quel risoluto, deciso, magistrale ch’è la somma dote di quel divino, senza dir delle pieghe mal composte e dure sul capo di N.D., e le minute ed ignobili forme del viso. Cercano per tanto ne’ seguaci di Michelangelo un nome probabile e non a torto s’arrestano al Montorsoli e al Francavilla, ambo vissuti a Genova e ambo devoti a quello stile».

Il celebre ottocentesco storico genovese aveva visto giusto infatti il prodigioso ovale marmoreo è oggi attribuito con ragionevole certezza all’allievo fiorentino di Michelangelo, Giovanni Angelo Montorsoli.

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In copertina: La Divina Pietà dell’Albergo dei Poveri. Foto tratta dal sito albergodeipoveri.com

La magia senza tempo del Carmine

Piazza del Carmine è il punto di partenza ideale per una passeggiata alla scoperta di un quartiere del centro storico un po’ fuori dai soliti percorsi ma non per questo meno affascinante.

Al centro il mercato comunale edificato nel 1921 e recentemente restaurato la fa da padrone, sorvegliato bonariamente da un lato dalla maestosa edicola votiva di San Simone Stock, dalla chiesa di N.S. del Carmine dall’altro.

Trattoria, bar e panificio, in cui tra l’altro si sforna una gustosissima focaccia prodotta a regola d’arte, animano la piazzetta da cui si dipartono alcune suggestive creuze: salita Carbonara in cima alla quale c’era nel XIV secolo l’omonima porta, trasformata poi in lavatoi pubblici; che dire poi delle vicine piazzetta e vico della Giuggiola che insieme a salita e piazzetta dell’Olivella con relativo convento di San Bartolomeo sono luoghi magici sospesi nel tempo; salita San Bernardino con il suo strepitoso e ingegnoso incrocio di archetti in laterizio e poi tutti quei caruggetti che rivelano la vocazione pasticcera artigianale della contrada quali vico dello Zucchero, del Cioccolatte e della Fragola o rammentano l’origine pagana come Vico Valore dal nome del tempio dedicato in tempi remoti all’omonima virtù.

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In copertina: Piazza del Carmine. Foto di Stefano Eloggi.

La Madonna del Diavolo

Conservata presso il Museo di Sant’Agostino si trova la Madonnina che adornava un tempo l’edicola sopra la casa natale di Paganini in Vico Gattamora, demolita nel 1973.

Se dal punto di vista artistico la statua non risulta né avere significativi pregi, né essere particolarmente ben conservata, da quello storico è senza dubbio importante perchè è tutto quel che rimane, a parte qualche sbiadita foto o rappresentazione, della dimora terrena del Diavolo del violino.

In copertina: la Madonna di vico Gattamora. Foto di Franco Risso.

Il Ninfeo di palazzo Nicolosio Lomellino

Varcato l’incantevole atrio del palazzo Nicolosio Lomellino di Via Garibaldi n. 7 si accede al cortile dominato da un imponente ninfeo frutto dell’ingegno di Domenico Parodi.

La fonte nel monumentale prospetto è alimentata dalla caduta delle acque provenienti dalla cisterna della retrostante collina del Castelletto.

L’imponente ninfeo si sviluppa appositamente in altezza per conferire continuità tra il palazzo e i giardini alla spettacolare scena.

Ed ecco che, fra l’edificio e la collina retrostante, si ammirano due ninfei connessi in soluzione di continuità l’uno con l’altro, il primo al piano del cortile e il secondo nel terrazzo sovrastante. 
Più in alto si sviluppa un ampio giardino realizzato su due livelli, costruiti, secondo tradizione, ‘in costa’, che funge da scenografica quinta.
La volta del grande ninfeo è retta da due giganteschi tritoni, realizzati dall’allievo Francesco Biggi, mentre un putto versa l’acqua, che incorniciavano una purtroppo perduta scena ispirata al mito di Fetonte.

Già Alizeri nella sua Guida del 1875 scriveva che il gruppo di “Fetonte giù capovolto dal cielo e un genietto dall’alto a versar acque da un’urna”, eseguito in stucco e collocato immediatamente sopra il grande arco, risultava a quell’epoca già disperso probabilmente eroso e sgretolato nei secoli dall’acqua.


Il giovane Fetonte, figlio del Sole, aveva ottenuto faticosamente la possibilità di guidare per un giorno il carro del padre ma, non sapendo reggerne i focosi cavalli, aveva incautamente bruciato il Cielo e la Terra, ed era stato per questo rovesciato da Zeus con un fulmine e precipitato nel fiume Eridano.

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In copertina: il Ninfeo di Palazzo Nicolosio Lomellino.

Poggio Bachernia

Percorrendo la Circonvallazione a Monte da Corso Magenta si accede in un luogo incantato dove il tempo sembra avere ritmi meno frenetici.

Salite le scalette di salita superiore di S. Anna ci si trova in una suggestiva piazzetta alberata dove si staglia l’omonima chiesa.

Questo silenzioso angolo della città, una piccola costa che divide la Valletta di Via Caffaro – appunto – da quella di S. Anna, è attraversata da una classica creuza che dal Righi scende a valle.

“Poggio Bachernia”.Foto di Leti Gagge.

Sul Poggio Bachernia, dal nome del sottostante omonimo rivo, questo è il suo nome, nel 1584 vennero edificati dai Carmelitani Scalzi sia chiesa e convento.

Imboccando il breve vialetto a sinistra si accede alla celebre secentesca farmacia del convento con i suoi spettacolari arredi, vasellami, ricettari e mobilio d’epoca.

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In copertina: Il Poggio Bachernia. Foto di Leti Gagge.

L’aquila e il ninfeo in Canneto il Lungo.

Alla confluenza con via Chiabrera si trova, in Canneto il Lungo al civ. n. 17, il palazzo Gio Andrea Cicala, poi Donghi.

Si tratta di una secentesca residenza nobiliare ascritta al terzo bussolotto, quello meno prestigioso dei Rolli.

Rappresenta, a mio parere, un classico esempio delle inaspettate bellezze che si possono scoprire dietro ad un, apparentemente anonimo, portone.

Sul modesto portale campeggia l’aquila, lo stemma nobiliare del casato e sul trave è inciso il motto “Mora non Reqvies”.

Sbirciando al suo interno si scorge, in un piccolo atrio con colonne doriche e soffitti a volta, un ingombrante cancello in ferro battuto.

A fianco dello scalone, una seconda imponente cancellata protegge un ninfeo.

La grotta è concepita con conchiglie, pietre, stalattiti e stalagmiti e alla base presenta una grande vasca marmorea.

Sul grande arco sovrastante un sapiente mosaico disegna due animali araldici, uno stemma incoronato ed un mascherone.

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In copertina: portone di palazzo Donghi Cicala. Foto di Giovanni Caciagli.

Galleria Ayrolo Negrone

Palazzo Negrone Ayrolo sorge sull’accorpamento di quello che era un tempo, in Piazza Fontane Marose, la residenza del governatore spagnolo in città.

Si tratta indiscutibilmente di uno dei palazzi dei Rolli più prestigiosi frutto, nella forma in cui lo possiamo ammirare oggi, delle rivisitazioni ottocentesche di Antonio Barabino.

Senza dubbio l’ambiente più significativo della dimora è la straordinaria galleria commissionata a metà ‘600 da Agostino Ayrolo a Giovanni Battista Carlone che ne decora la volta con le storie di Enea.

I magnifici affreschi in un trionfo di colori vividi e meravigliosamente conservati risultano valorizzati dagli ampi fasci di luce delle finestre che illuminano gli spazi. Le scene sono incastonate in un’articolata cornice di balaustre che fa risaltare il sapiente e suggestivo gioco prospettico.

Il racconto si sviluppa in tre principali scene che narrano il conflitto tra gli dei durante la guerra di Troia. Da un lato Giunone che istiga Marte ed Eolo contro l’eroe troiano, dall’altro Venere che, di contro, si fa garante e lo presenta addirittura a Giove.

Tutto attorno il Carlone rappresenta un ricco colorito catalogo di figure allegoriche e virtù che devono celebrare da un lato la regalità di Enea e l’avversità di Giunone nei suoi confronti, dall’altro.

Ma non finisce qui perché la famiglia Negrone, nel frattempo subentrata agli Ayrolo, impreziosisce la galleria con un ulteriore ciclo di affreschi alle pareti che racconta la battaglia di Lepanto del 1571.

Viene infatti affidato al pittore fiammingo Cornelius De Wael il compito di rappresentare il famoso scontro navale contro i turchi a cui il casato aveva partecipato con onore fra le fila del contingente comandato da Giovanni Andrea I D’Oria.

La dinamica narrazione del conflitto, ricca di dettagli trova nella conquista del vessillo della capitana turca (stendardo tuttora custodito nella Villa del Principe) il suo momento culminante.

La meraviglia della galleria viene completata qualche decennio più tardi dal pittore savonese Bartolomeo Guidobono a cui spetta l’incombenza di racchiudere le scene all’interno di cornici dinamiche metamorfiche che fungano sia da trait d’union tra parete e volta che da spazio autonomo espositivo.

La Grande Bellezza…

In copertina: Storie di Enea nella Galleria di Palazzo Ayrolo Negrone.

Foto di Lorenzo Zeppa.

Il Portale di Tursi

Per noi genovesi Tursi è il palazzo del Comune. In realtà la sua prima intitolazione fu Palazzo Nicolò Grimaldi.

L’edificio venne realizzato su progetto dei fratelli, Giovanni e Domenico, Ponzello.

Dai Grimaldi la proprietà passò di mano a Giovanni Andrea Doria e poi al figlio Carlo, duca di Tursi, a cui si deve l’odierna intestazione.

Il cinquecentesco palazzo, il più esteso di tutta via Garibaldi fu sede, a fine ‘700, della corte di Maria Teresa di Parma e per un decennio del collegio dei Gesuiti (1838-48).

Costoro stravolsero gli interni originali cancellando parecchi affreschi e decorazioni “blasfeme”, demolirono o spostarono molte opere d’arte.

Dopo la dominazione sabauda finalmente nel 1848 il palazzo fu donato al Comune di Genova.

Il sontuoso portale di impianto classico presenta colonne doriche, fornice arcuato, con sull’antico trofei e statue a coronamento dello stemma cittadino che riporta anche la testa di Giano sia alla base che al vertice, sotto la corona.

Al centro un mascherone ghignante con orecchie di satiro che in origine reggeva le insegne dei Grimaldi.

Gli altri vistosi mascheroni che ornano le finestre del piano rialzato sono invece opera di Taddeo Carlone e si ripetono anche nei prospetti laterali affacciati sui giardini.

La Geande Bellezza…

In copertina: lo stemma del portale di Palazzo Tursi.

L’atrio di Palazzo Nicolosio Lomellino

A volte per ammirare la grande bellezza delle dimore patrizie genovesi non necessariamente bisogna affidarsi a dettagliate visite ai piani nobiliari, ma basta camminare a testa in su e sbirciare nei portoni.

È questo il caso del cinquecentesco Palazzo Nicolosio Lomellino al civ. n. 7 di Via Garibaldi che risalta, per via del particolate colore azzurro carta zucchero e per la magnificenza degli stucchi della facciata, su tutti gli altri edifici della strada.

La mano del suo ispirato progettista Giovanni Battista Castello, detto il Bergamasco, si palesa oltre che nel prospetto principale, anche nel gusto teatrale dell’apparato festoso di stucchi dell’atrio a pianta ovale.

La complessa quanto armonica decorazione si dipana dal medaglione ovale centrale con una scena di trionfo di un condottiero circondata da mascheroni raccordati a quattro putti seduti sulla cornice stessa che reggono un capo dei festoni di frutti, agganciati a loro volta alle incorniciature delle quattro storie a bassorilievo, alternate ad altre figure efebiche alate sedute sul cornicione.

“Il Ninfeo che funge da raccordo fra il cortile e i giardini pensili posti due livelli più in alto.

Da qui si accede al cortile impreziosito dal celebre settecentesco monumentale Ninfeo di Domenico Parodi che si sviluppa su più livelli.

La Grande Bellezza…

In copertina: l’atrio di Palazzo Nicolosio Lomellino. Foto di Stefano Eloggi.