… Quando Ricina…

Quando Recco, la Ricina di romana memoria, non aveva, in quanto a bellezza, nulla da invidiare alla vicina Camogli… quando si poteva mangiare il pesce appena pescato dai gozzi, sopra una rudimentale palafitta sul mare… quando l’antico borgo marinaro non era ancora stato devastato dai bombardamenti alleati avvenuti durante la seconda guerra mondiale. Tra il 10 novembre 1943 e il 28 giugno del ’44 Recco, infatti, venne praticamente rasa al suolo da 27 incursioni aeree volte, in particolare, a distruggere il ponte della ferrovia, passaggio strategico per i rifornimenti alle forze nemiche della Wehrmacht.

“… Non esiste un altro luogo nel mondo…”

Il grand tour nella nostra penisola era di gran moda presso i nobili anglosassoni a cavallo fra ‘600 e ‘700, un viaggio in Italia era tappa obbligata nel percorso formativo culturale di ogni patrizio che si rispetti.

Nel suo “Diario” il viaggiatore britannico John Evelyn così annotava a proposito della Superba:

“Villa Rosazza Di Negro, detta dello Scoglietto”.
“Cartolina dei giardini alle spalle di Villa Rosazza”.
“Una delle 139 stampe che costituiscono l’opera in due volumi I Palazzi di Genova di Rubens. Pubblicato per la prima volta ad Anversa nel 1622”.

“La città è costruita all’estremità di una collina, il cui dislivello è molto ripido, alto e roccioso: così, se la si guarda dalla Lanterna o dal Molo con lo sguardo rivolto verso le colline circostanti, la città ha la forma di un anfiteatro. Le strade sono così strette e i palazzi così alti uno sopra l’altro, come i posti di un nostro teatro: ma a causa del meraviglioso materiale con cui sono costruiti, per la bellezza e la loro posizione, non si è mai vista una scenografia artificiale altrettanto splendida; non esiste sicuramente un altro luogo nel mondo, ricco di Palazzi così ben disegnati e posizionati; si può facilmente concludere che quel grande volume composto di grandi fogli, che il grande Virtuoso e Pittore Paolo Rubens, ha pubblicato, contiene solamente (i prospetti dei palazzi) una strada e di due o tre chiese. Il primo palazzo degno di nota che andammo a visitare fu quello di Geronimo di Negro, e per raggiungerlo dovemmo attraversare il porto con una barca. Questo Palazzo Di Negro (oggi Villa Rosazza) è ricco di quadri più preziosi e di altre straordinarie collezioni e arredamenti. Ma non v’è nulla che mi deliziasse più del parco, un giardino collinoso, con un boschetto di alberi maestosi, popolato di pecore, pastori e animali selvatici, intagliati nella pietra grigia, da apparire così reali in mezzo alle fontane, rocce e a un laghetto, che gettando il tuo sguardo in una direzione potresti immaginarti immerso in una campagna selvaggia e silenziosa, ai due lati nel cuore di una grande città e alle spalle nel mezzo del mare. E ciò che è più ammirevole è che tutto questo si trova all’interno di un terreno ampio appena un acro, il più delizioso e stupefacente del mondo intero.

In questa casa notai per la prima volta i pavimenti di stucco rosso, che sono fatti in maniera così resistente e così ben lucidati, che talvolta uno li potrebbe scambiare per pezzi di porfido…

“Statua del Nettuno, opera di Taddeo Carlone”.
“Uno degli sfarzosi arazzi fiamminghi del Palazzo del Principe che illustra le storie di Alessandro Magno”.

Vi sono in questa città innumerevoli altri palazzi di particolare interesse, poiché i nobili sono incredibilmente ricchi, benché come i loro vicini Olandesi, non possiedono proprietà molto grandi su cui estendersi; perciò collezionano quadri e tappezzerie, case di marmo e ricchi mobili.

Una delle citazioni di maggior rilievo di tutto il viaggio riguarda la Villa del Principe Doria, che si estende dalla scogliera fino alla cima di una collina. Il Palazzo è senza dubbio magnificamente edificato, e non meno splendidamente ammobiliato, con ampi tavoli e lettiere di argento massiccio, e altri di agata, onice, cornalina, lapislazzuli, perle, turchesi e altre pietre preziose. A questo palazzo appartengono tre giardini, il primo dei quali si affaccia meravigliosamente sul mare grazie ad una balconata di piloncini di marmo. Vi è inoltre una fontana decorata con aquile e animali marini di Nettuno ed un’altra del Tritone (del Montorsoli), più a monte, tutt’e due del più puro marmo bianco che il mio occhio abbia mai osservato. E in un lato del giardino si trova un Uccelliera come quella descritta da Sir Francis Bacon nel suo saggio “Of Gardens”, in mezzo ad alberi di circa 70 cm. di diametro, oltre a cipressi, mirti, lentischi e altri arbusti (la gabbia era lunga 130 passi, ampia 22 e alta oltre sei metri), che serve come nido e posatoio per ogni tipo di uccello, che qui può trovare aria e spazio a sufficienza sotto una protezione metallica, sostenuta da un’enorme costruzione in ferro battuto, mirabile sia per la fattura sia per il peso che deve sopportare. Gli altri due giardini sono ricchi di alberi d’aranci, limoni e melograni, fontane, grotte e statue. Tra queste spicca un Giove di colossale magnificenza (la statua in stucco raffigurante Andrea Doria in realtà nelle sembianze di Ercole, soprannominata il “Gigante”, fu demolita negli anni ’30 del secolo scorso), ai cui piedi si trova il sepolcro di un cane beneamato (il Gran Roldano), per il cui mantenimento la famiglia riceveva dal re di Spagna e per tutta la durata della vita del fedele animale, 500 corone all’anno”.

“La statua di Giove, detta del Gigante alla cui base era sepolto il Gran Roldano”.

Il viaggiatore inglese era rimasto quindi incantato dal paesaggio, dai marmi, dai palazzi sopraelevati, dai giardini, dalle statue e da tutte le meraviglie possibili e immaginabili ma in una lettera indirizzata ad un suo amico, il Dottor Burnet rivela: “I Genovesi sono la peggiore gente di tutta Italia poiché generalmente i più corrotti nei costumi, in quanto ricettacoli di ogni sorta di vizi”. Una rivisitazione in chiave più moderna della celebre invettiva dantesca “Ahi Genovesi uomini diversi…”.

… Quando si andava al Campo…

Quando per andare allo stadio si usava dire “vado al Campo” (il “Tempio” lasciamolo per le funzioni religiose)… operai ed impiegati ci andavano a piedi o in tram, i signori in auto stile gangsters di Chicago… quando in piena epoca fascista non si poteva dire Genoa 1893, bensì Genova 1893… quando i cugini non esistevano ancora se non sotto forma di continue fusioni e trasformazioni… quando non v’erano dubbi su quale fosse l’unica vera squadra cittadina.

… Quando rombavano i motori…

Quando, costruita fra il 1909 e il 1915 su progetto dell’ingegnere Dario Carbone, Corso Italia non era ancora meta delle passeggiate domenicali … quando i padri di famiglia non avevano ancora sottobraccio la moglie e dovevano, con la mano libera, ninnare le carrozzelle dei pargoli… quando, nei primi decenni del Novecento davanti al Lido, sfrecciavano bolidi degni delle formula uno e si correvano gran premi da far invidia a Montecarlo… quando il rombo dei motori sovrastava quello delle cronache della radio.

… Quando in Piazza Rossetti…

Quando l’architetto Daneri, dove un tempo sorgeva il cimitero musulmano e il Lazzaretto prima, i cantieri navali Odero poi, concepì il suo prototipo di piazza moderna (1933), Piazza Rossetti.

Nel primo venivano sepolti i turchi, nel secondo internati in quarantena gli equipaggi dei vascelli a rischio contagio di peste (vi fu ospite anche Jean-Jacques Rousseau), dall’ultimo si forgiavano lamiera su lamiera le imbarcazioni più prestigiose della penisola…  Quando, inaugurato nel 1947, al posto di tutto ciò, in Piazza Rossetti c’era un campo di calcio, intitolato “Libertà”, in onore di quanto accaduto un paio d’anni prima.

“La casa delle mogli”…

Camogli è senza alcun dubbio uno dei borghi marinari più incantevoli della riviera di Levante e non solo, patria secolare dei migliori marinai italiani, da sempre compagna inseparabile delle primaverili passeggiate domenicali dei genovesi.

Di Camogli se ne ha per la prima volta menzione in un inno liturgico del 1018 e la sua storia si dipana parallela a quella della Repubblica di Genova per la quale divenne inestimabile e proficua fucina di uomini di mare. Nei secoli  successivi, a conferma della sua indiscutibile vocazione marittima, venne identificata come la  “Città dei Mille Velieri Bianchi”.

In relazione all’origine dell’etimo di questa località numerose sono le interpretazioni, alcune fantasiose e leggendarie, altre basate su studi ed ipotesi glottologiche.

Una delle prime teorie si rifà a Camulo, il corrispondente etrusco del dio Marte o a Camolio omologo nell’ambito gallo celtico. Secondo altri storici invece il nome deriverebbe dalla popolazione che abitava quei luoghi, prima della conquista romana, i Casmonati, argomentazione quest’ultima, recentemente smentita dagli studiosi moderni.

I glottologi, inoltre, dissentono sostenendo la teoria secondo la quale “Cam” significherebbe nell’antico greco ligure, “in basso” e “gi” terra, ovvero “terra in basso” (che procede lungo alla costa rispetto al valico della strada “Rua”, la Ruta).

Queste le spiegazioni storiche e linguistiche più accettate, ma esistono anche un paio di favole, miti, leggende che meritano di essere raccontate:

“Camogli fronte mare”. Foto di Leti Gagge.

La prima, forse quella più credibile, racconta di “Ca” case a “moggi” a mucchi a sottolineare la particolare e suggestiva conformazione delle abitazioni camogline ammucchiate ed addossate le une alle altre, sia sul mare che verso il monte, lungo l’Aurelia.

“Le pittoresche palazzate di Camogli”. Foto di Leti Gagge.
“La Basilica dell’Assunta ancorata alla scogliera”. Foto di Leti Gagge.

La seconda, quella che preferisco, anche se di pura fantasia, si riallaccia ad un ambito più strettamente marinaro. “Ca” casa “mugge” delle mogli poiché il borgo, con i suoi marinai spesso impelagati in qualche mare foresto, era abitato in prevalenza da donne. Una volta doppiato il promontorio di Portofino il marinaio camoglino era un uomo libero e, affrancato da vincoli terrestri, il mare diventava la sua sposa. Quando tornava, magari dopo mesi di lunga navigazione, veniva accolto in maniera coreografica. Avvistando all’orizzonte i legni rientrare, le donne esponevano infatti alle finestre dei drappi o lenzuola colorate in modo che gli uomini potessero, associando il colore prestabilito alla propria dimora, riconoscere la propria abitazione -dicono le male lingue- senza incorrere in spiacevoli equivoci.

“Il Porticciolo dei pescatori di Camogli”. Foto di Antonella Piazza.

Che il suo etimo tragga origine da divinità etrusche o galliche, dalla particolare conformazione del suo fronte mare, o dalla suggestiva accoglienza muliebre, ciascuno scelga la versione che più lo soddisfi, Camogli, esercita sempre il suo immutato fascino pronta ad arruolare, sui suoi velieri, persino il marinaio più indisciplinato, la mia fantasia.

… Quando Corso Buenos Aires…

Quando, per allinearla con la nascente Via XX settembre, sul finire dell’800 Corso Buenos Aires venne letteralmente abbassata di circa tre metri. In realtà, ad inizio dello stesso secolo si chiamava “Strada Reale”, poi “Via Minerva” ed era stata rialzata di circa cinque metri, per non coinvolgerla nelle piene del Bisagno.

… Quando onda del mare e borgo…

quando onda del mare e borgo si carezzavano vicendevolmente… quando bagnanti e pescatori coesistevano a pochi metri di distanza… quando scogli e spiaggia si arrembavano al muraglione sotto la chiesa di S. Pietro. Quando anche nel nostalgico bianco e nero dell’immagine i colori sembrano irrompere per dipingere ed eternare panorami della Foce cancellati per sempre.