Gli ammiragli in Piazza Palermo n. 3

Al civico n. 3 di Piazza Palermo proprio accanto alla sede della Pubblica Assistenza della Croce Bianca locale è possibile ammirare un elegante portone in stile neo gotico rinascimentale.

Gli stipiti del signorile ingresso sono intarsiati e il trave è sovrastato da un tripudio di disegni geometrici, riccioli e volute.

Le due nicchie su basamento a colonna culminanti in cuspidi ospitano le statue di altrettanti illustri genovesi: Cristoforo Colombo a sinistra e Andrea D’Oria a destra.

Il primo vestito elegantemente è rappresentato assorto nei suoi pensieri mentre regge in mano il globo. Chissà quale rotta starà studiando?

Il secondo invece dall’aspetto austero è bardato nella sua cotta di rappresentanza. Con una mano stringe una pergamena arrotolata. Forse un’importante missiva o un vantaggioso contratto? Con l’altra impugna fiero l’elsa della sua preziosa spada di prestigioso Defensor della cristianità.

Le due sculture richiamano palesemente quelle più famose, ma altrettanto sconosciute ai più, di G.B. Cevasco in Via Gramsci al civ. 99r.

In copertina: il portale del civ. n. 3 di Piazza Palermo. Foto dell’autore.

Le ceneri dell’esploratore

Assai avventurosa e di difficoltosa tracciabilità è la vicenda legata agli spostamenti delle ceneri di Cristoforo Colombo confuse, secondo alcuni studiosi, se non addirittura mischiate, con quelle del figlio Diego al tempo in cui quelle di entrambi erano ricoverate a Santo Domingo.

Da qui l’annosa diatriba, tuttora in evoluzione, che assume i nebulosi ma intriganti contorni del giallo internazionale che si dipana sostanzialmente lungo due filoni: quello, il primo, che asserisce che le spoglie del navigatore siano a Siviglia per via cubana, e l’altro, il secondo che invece le assegna, per il percorso dominicano, spartite tra Pavia e Genova.

Per questo motivo numerose sono le località che ne vantano – o ne hanno vantato – per lo meno un parziale possesso: Valladolid, Siviglia, Santo Domingo, Cuba, Venezuela, Stati Uniti, Cadice, Pavia, Genova.

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“Raccolta del Municipio in cui si racconta la donazione dominicana delle ceneri”

Nel 1877 infatti i resti del corpo all’interno della tomba monumentale di Siviglia furono identificati come quelli del figlio di Colombo e si scoprì così che le spoglie dell’esploratore erano rimaste ancora a Santo Domingo.

A quel tempo i fatti le ceneri di Colombo erano state affidate da Gio Batta Cambiaso, console di Santo Domingo al fratello Luigi, console italiano dell”isola caraibica, che le aveva ripartite in tre parti:

una parte fu inviata a Genova; un’altra parte, la seconda, fu mandata in Venezuela, prima terraferma scoperta da Cristoforo Colombo e l’ultima, la terza, fu spedita erroneamente a Pavia, perché si credeva che il celebre esploratore avesse studiato in quella famosa Università.

Cristoforo Colombo morì infatti il 20 maggio 1506 in Spagna e fu sepolto il giorno successivo nella cappella di Santa Maria de la Antigua nella chiesa di San Francesco a Valladolid.

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“Tomba a Santo Domingo”.

Nell’aprile 1509 il figlio Diego, dando inizio alle avventurose peregrinazioni, fece trasportare la salma a Siviglia nella cappella di Sant’Anna nella Cartuja di Santa Maria de las Cuevas dove, una iscrizione recita” A Castilla y a León, Nuevo Mundo diò Colón”.

Fu poi l’Imperatore Carlos I che, in Valladolid il 2 giugno 1537 con “Real Cédula”, concesse a  doña María de Toledo di trasferire e deporre i resti di  Colón, come il genovese stesso aveva sempre desiderato, nella cappella maggiore della cattedrale di Santo Domingo nell’isola di Hispaniola.

Nel 1541 i resti dell’Ammiraglio vennero quindi collocati nella cappella dell’altar maggiore della chiesa di San Francesco a Santo Domingo dove già si trovavano sepolti altri congiunti come il figlio Diego, i nipoti Luigi e Cristoforo II, il fratelli Bartolomeo e altri membri della famiglia.

“Il carro che trasportava l’urna con le ceneri dell’esploratore”. Foto originale di Giovanni Benzo.

Passano i secoli ma Colombo non trova requie: col trattato di Basilea del 22 luglio 1795 infatti la Spagna cedette alla Francia la parte orientale dell’isola di Hispaniola, Santo Domingo, che ancora occupava.

In concomitanza di quello storico passaggio di consegne l’Ammiraglio spagnolo Don Gabriel de Aristigabal ottenne dal governo francese l’autorizzazione di trasferire le ceneri di Cristoforo Colombo nell’isola di Cuba.

Così il 20 dicembre 1795 dopo una solenne cerimonia nella cattedrale di Santo Domingo, le preziose reliquie furono imbarcate sul brigantino francese “La Découverte” e trasbordate sul vascello spagnolo “San Lorenzo” per essere traslate nella cattedrale dell’Havana a Cuba.

Come prassi del codice della navigazione il porto si fermò in rispettoso silenzio mentre le navi presenti in rada spararono diversi colpi a salve e resero ai resti di Cristoforo Colombo gli onori militari dovuti ad un Ammiraglio di cotanto lignaggio.

Ma le peripezie non finirono qui perché, conseguenza del Trattato di Parigi del 1898 che sanciva l’isola di Cuba come possedimento degli Stati Uniti, il governo spagnolo stabilì di riportare le spoglie di Cristoforo a Siviglia.

“Mausoleo di Siviglia”.

Il trasporto venne effettuato in pompa magna con tutti gli onori a bordo della nave da guerra “Conde de Venadito” che viaggiò da Cuba sino a Cadice.

A Cadice le spoglie vennero trasbordate sullo yacht reale “Giralda” che risalì il Guadalquivir con le bandiere a mezz’asta ma lasciando bene in vista lo stemma dell’Ammiraglio, ancorando a Siviglia il 19 gennaio 1899 . 

A Siviglia le ceneri vennero  poi sbarcate e portate definitivamente nella cattedrale del capoluogo andaluso.

“La cerimonia della consegna sotto l’Arco dei Caduti”. Foto originale di Giovanni Benzo.

La parte delle ceneri genovesi provenienti da Santo Domingo furono riconsegnate (recuperandole dal ratto tedesco) il 31 maggio 1945 in Piazza della Vittoria dal generale della 92^ divisione fanteria USA ” Buffalo Soldier Division”:

“Oggi come comandante delle Forze americane in Genova, restituisco alla vostra città queste ceneri di un vostro figlio famoso, nello stesso modo con cui le nostre truppe hanno restituito a Genova la pace e la sicurezza poco più di un mese fa.

La teca presso il Galata Museo con le Ceneri di Colombo

Questo simbolo che era stato asportato dalla città dalle forze sinistre dei vostri recenti oppressori vi è ora restituita”.

Da qui vennero trasferite nel Municipio genovese a palazzo Tursi dove rimasero al sicuro per diversi decenni.

Oggi, nella speranza che l’Odissea sia terminata, l’ampolla di Colombo si trova sempre a Genova, ma ha cambiato domicilio ed è custodita, in una sala appositamente dedicata al nostro illustre concittadino, al Museo Galata.

In copertina l’ottocentesco Monumento di Colombo in Piazza Acquaverde a Genova. Foto di Bruno Evrinetti.

Fonti:

Odissea delle ceneri di Cristoforo Colombo- Da Valladolid a Siviglia, Santo Domingo, Havana, Cadice e Siviglia.

Il generale americano Ned Almond consegna alla città di Genova le ceneri di Cristoforo Colombo. 31 maggio 1945. ⋆ Comitato Nazionale Cristoforo Colombo

Link al sito: Homepage ⋆ Comitato Nazionale Cristoforo Colombo

Autore degli articoli e proprietario delle foto Bruno Aloi Presidente del Comitato Nazionale Cristoforo Colombo.

Sun zeneize e no ghe mòllo

L’ho trovato intento ad ammirare perplesso il chiostro di S. Andrea e quando l’ho chiamato, si è rivolto a me con un’espressione smarrita, bofonchiando:

“E questo cos’è?, ai miei tempi non c’era! o meglio esisteva ma si trovava non lontano da qui, tra il colle di S. Andrea e Piazza San Domenico.

Non certo in Vico dritto di Ponticello!”

“Porta Soprana”. Foto di Leti Gagge.

Mi ha guardato sconsolato dichiarandosi confuso molto più qui sulla terra ferma oggi che nell’oceano oltre 500 anni fa, che gli sembrava di aver abitato un tempo in questa zona e di aver riconosciuto l’antica Porta, senza però trovare la sua dimora.

– “Allora è vero che non lei non è genovese – lo provoco io – non vede la targa affissa su questa abitazione che certifica qui la sua permanenza?”

“Casa di Colombo in Vico dritto di Ponticello”. Foto di Leti Gagge.

Mi fulmina col suo sguardo severo e autoritario e risponde con un tono che non ammette repliche:

– “Non scherzare amico, io sono nato a Genova nel 1451 da mio padre Domenico originario di Terrarossa una frazione di Moconesi in Val Fontanabuona e da mia madre Susanna proveniente da Fontanarossa, odierno quartiere di Quezzi in Val Bisagno (anche se altri insistono sull’omonimo toponimo della Val Trebbia).

Da piccolo ho abitato, così mi ha raccontato mio padre, in una casa in Vico dell’Olivella accanto all’omonima Porta di cui egli era custode.

“Porta dell’Olivella nei pressi di S. Stefano”. Foto di Paola Bertino.

Con la caduta in disgrazia per motivi politici del babbo ci siamo trasferiti – così raccontava mia madre, io avevo 4 anni e ricordo poco – in Ponticello, dove ci troviamo adesso, anche se a parte Porta Soprana fatico a riconoscere questi luoghi un tempo a me familiari.

Qui papà esercitava la professione del lanaiuolo e, per arrotondare, smerciava anche vini e formaggi.

Negli anni’70 i miei si sono spostati a Savona per prendere in gestione un’osteria ed io, fra un viaggio e l’altro, ho abitato con loro.

Visto che il mio primo ingaggio marittimo è avvenuto quando avevo 14 anni, già da tempo la mia casa infatti era diventata il mare”.

– “D’accordo Sig. Colombo ma a parte questi sbiaditi ricordi della sua infanzia come può – lo incalzo scettico – dimostrare i suoi natali?”

– “Giovanotto, innanzitutto, quando si rivolge ad un ammiraglio della Repubblica di Genova, del Portogallo, della Castiglia e di Spagna, si metta sull’attenti e rammenti che, dopo il re, è la più alta carica e autorità militare. Chiuda dunque quella bocca impertinente e mi stia ben a sentire:

durante la preparazione del quarto e ultimo viaggio per il Nuovo Mondo ho inviato il 2 aprile del 1502, per mezzo di Francesco Rivarolo, fidato e illustre banchiere mio concittadino in Sicilia, a Nicolò Oderigo, già ambasciatore genovese in Spagna, un plico contenente una raccolta di copie di lettere, una copia del Libro dei Privilegi, una lettera indirizzata al Banco di san Giorgio, una lettera per due altri miei amici genovesi e alcune istruzioni da trasmettere a Santiesteban a cui ho affidato il compito di conservare il tutto in un luogo sicuro e di metterne a conoscenza mio figlio Diego.

“Riproduzione del Libro dei Privilegi, una raccolta di contratti, decreti reali, privilegi, concessioni, lettere, ordinanze e documenti vari indirizzati a Colombo dal momento in cui i reali spagnoli accolsero la sua propostadi Buscar el levante por el poniente, verso le Indie”.

Inoltre, per tutelarmi da spiacevoli sorprese, ho affidato gli originali a Gasparre Gorricio perché li custodisse nel monastero di Las Cuevas a Siviglia.

Ne ho prodotto poi quattro copie: la prima l’ho lasciata ad egli stesso, la seconda ad Alonso Sanchez de Carvajal perché la portasse alle Indie, la terza ho chiesto appunto al Rivarolo di inviarla a Nicolò, al quale due anni più tardi ho inviato per maggior sicurezza anche la quarta.

Delle due copie genovesi – mi dicono – una è finita una in Francia requisita da Napoleone, l’altra invece dopo varie peripezie rimasta al Comune, è ora visibile nella mia città natale presso il Museo Galata”.

– “Parole, Eccellenza, soltanto parole. Ma di concreto, che documenti e prove ha accampato a sostegno della sua tesi che possano essere ancora oggi attendibili e consultabili a Genova? Verba volant scripta manent!”

– “Se lei fosse un marinaio del mio equipaggio avrei già punito la sua sfacciata arroganza che – per altro – è pari solo alla sua incommensurabile ignoranza, mettendola ai ferri a marcire in sentina, o al sole a bruciare sul ponte.

Perciò stia zitto, non mi interrompa con queste inopportune osservazioni e, soprattutto, non abusi della mia limitata pazienza!

Nel 1504 ho inviato a Siviglia per mezzo di Francesco Cetanio un’altra copia del Libro dei Privilegi con la raccomandazione di metterla al sicuro insieme alla precedente.

In quell’occasione consegnai a Francisco de Ribarol altre due lettere indirizzate al Banco di San Giorgio.

“Lettera indirizzata al Banco di San Giorgio. Il documento è custodito presso il Museo Galata nell’apposita sala dedicata all’ammiraglio”.
Immagine tratta dal web.

Benché il corpo cammini qui, il cuore sta lì di continuo.

Questo mio incipit, già la diceva lunga e non lasciavo spazi ad equivoci o fraintendimenti.

Nella missiva proseguivo informando i rettori del Banco che lasciavo a mio figlio Diego il compito di versare annualmente a Genova la decima parte della rendita che avrebbe ricavato dai suoi redditi e privilegi, in sconto delle gabella sul grano, sul vino e su altre provviste che gravavano sul popolo. Raccomandavo inoltre ai Protettori del Banco di vegliare su di lui”.

– “Ciononostante nei secoli successivi, Quinto, Savona, Cogoleto, Albisola, Terrarossa, Chiusanico, Cuccaro Monferrato Bettola e Piacenza, per non parlare di Calvi in Francia, hanno millantato i suoi natali.

Che dire poi delle sue presunte origini ebraiche sefarditiche, catalane, galiziane o andaluse in Spagna, portoghesi e cubane?”

– ” Tutte fandonie!

Ci mancava solo dicessero che fossi il figlio di un re in Polonia, o nipote di un Papa in Vaticano e poi le avrebbero trovate tutte pur di fregiarsi della mia fama”.

– “Non vorrei contraddirla – illustrissimo Viceré delle Indie – ma hanno già insinuato anche a questo: secondo i polacchi lei sarebbe Segismundo Henriques, figlio di Ladislao III re di Polonia; a Sanluri in Sardegna sostengono invece che lei sia Cristoval De Sena Piccolomini imparentato con il futuro Papa Pio II”.

A sentire questa serie di fantasiose sciocchezze l’esploratore del Nuovo Mondo, scuotendo il capo piuttosto contrariato, sentenziava:

– “Eppure già nel mio testamento datato 22 febbraio 1498 avevo messo per iscritto la raccomandazione rivolta a mio figlio Diego di adoperarsi sempre per il bene, l’onore e l’accrescimento della città di Genova, donde – soggiungi -trassi origine e nacqui”.

Prima di salutarci l’ho accompagnato in Darsena al Museo Galata nella sala a lui dedicata dove riposano le sue ceneri (ritornate da Santo Domingo) e sui moli a vedere il mare, il suo mare.

“31 Maggio 1945 i soldati della 92^ divisione Usa Buffalo Soldier al comando del generale Ned Almond restituiscono, in una solenne cerimonia celebrata sotto sotto l’Arco dei Caduti in Piazza della Vittoria, le ceneri di Colombo. Tali reliquie custodite in una teca furono inizialmente conservate a Palazzo Tursi, oggi sono visibili nella sala dedicata all’illustre navigatore presso il Museo Galata”.
Proprietario delle foto Bruno Aloi Presidente del Comitato Nazionale Cristoforo Colombo.

– “Per me, ammiraglio, oltre che un onore, è stato un piacere conversare con lei. Spero abbia perdonato la mia goliardica insolenza e non mi voglia annoverare fra i suoi detrattori?”

Avvolgendosi nel suo grande mantello di velluto nero il comandante mi ha congedato con gesto austero e, mantenendo comunque le distanze, come si addice ad un nobile del suo rango, ha proclamato orgoglioso con voce stentorea:

“Sun zeneize e no ghe mòllo”.

Chissà se mi avrà perdonato?

In copertina ritratto di Cristoforo Colombo eseguito nel 1520 da Ridolfo del Ghirlandaio esposto presso il Museo Galata di Genova.

“Cacao Meravigliao…”

Proveniente dal nuovo mondo il cacao, per la prima volta, venne importato da Cristoforo Colombo, durante il suo quarto viaggio nel 1502. L’esploratore ne fece dono, insieme ad una piantagione del frutto, all’imperatore di Spagna Carlo V che però non seppe che farsene.

Rimase questo episodio isolato perché è solo con il Conquistador Hernan Cortès che, a partire dal 1519, la pianta venne importata con maggior frequenza nel vecchio continente divenendo prodotto di smercio quasi esclusivamente spagnolo.

“Le invitanti vetrine di Buffa in Via Fiasella”.

Il primo carico documentato di cioccolato verso l’Europa a scopo commerciale viaggiò infatti nel 1585 su una nave dal porto di  Veracruz, in Messico, a quello di Siviglia. Qui infatti aveva sede il Reale Consiglio delle Indie, l’organismo attraverso il quale la corona spagnola controllava tutti i traffici commerciali, l’amministrazione, gli aspetti militari e religiosi delle proprie colonie d’oltre oceano. Snodo logistico di tutte le movimentazioni merci divenne il porto di Cadice dove, come del resto a Siviglia, i Genovesi registravano una forte e ben radicata presenza.

Il cioccolato veniva sempre servito come bevanda, ma gli europei e in particolar modo gli ordini monastici spagnoli, depositari di una lunga tradizione di miscele e infusi, ci aggiunsero la vaniglia e lo zucchero per correggerne la naturale amarezza e tolsero il pepe e il peperoncino, aromi con cui invece gli indios erano soliti consumarlo.

A cavallo fra ‘500 e ‘600 il cacao fu probabilmente importato in Italia, e precisamente in Piemonte, da Caterina, figlia di Filippo II di Spagna, che sposò nel 1585 Carlo Emanuele I, duca di Savoia. Nel Seicento il cacao arrivò in Toscana e in Veneto. Per questo motivo le prime città a produrre il cioccolato furono nel 1606 Torino, Firenze e Venezia.

Nel 1615 Anna d’Austria, sposa di Luigi XIII, introdusse il cioccolato in Francia dove fra il 1659 e il 1688, l’unico cioccolataio presente a Parigi fu David Chaillou.

Nel 1650 il cioccolato venne commercializzato anche in Inghilterra. A Oxford si iniziò a servire il cioccolato negli stessi locali in cui si serviva il caffè.

In Italia risale al 1678 la prima autorizzazione concessa dalla Casa Reale Sabauda “a vendere pubblicamente la cioccolata in bevanda”.

“Quelle di Tagliafico in Via Galata”.

“La rinomata Pasticceria Svizzera in Via Albaro”.

Nel XVII secolo divenne un lusso diffuso tra i nobili d’Europa.  Gli olandesi, abili navigatori e mercanti, strappano agli spagnoli il controllo mondiale e il predominio commerciale del cacao.

Nacquero così, nel secolo successivo, presso la gaudente Venezia le prime botteghe di caffè, gestite da ebrei che, come quelle presenti a Oxford, offrivano anche la cioccolata.

Alla fine del XVIII secolo fu inventato a Torino dal maestro cioccolatiere Doret il primo cioccolatino da salotto. Nell’ottocento la tradizione del cioccolato era talmente radicata a Torino e in Piemonte che gran parte dei cioccolatai attivi in Italia come, ad esempio, Gay-Odin a Napoli e la Bottega del cioccolato a Roma, erano originari di questa regione.

Nel 1802 un genovese, tal Bozzelli mise a punto uno strumento idraulico per raffinare la pasta di cacao e miscelarla con zucchero e vaniglia. Nel 1819 sul lago di Ginevra Francois-Louis Cailler elaborò un composto morbido che gli permise di ottenere per primo un prodotto destinato a rivoluzionare la storia del cacao: la tavoletta di cioccolato.

In realtà furono gli inglesi, l’anno successivo, a perfezionare il procedimento dell’artigiano svizzero e a produrre per primi su larga scala l’innovativo prodotto.

“L’irresistibile assortimento della pasticceria D. Villa, oggi Profumo, in Via del Portello”.

Nel 1826, sempre a Torino, Pierre Paul Caffarel iniziò lo smercio di cioccolato in grandi quantità grazie a una nuova macchina capace di produrre oltre 300 kg di cioccolato al giorno. Nel 1828 l’olandese Conrad J. van Houten brevettò un metodo per estrarre il grasso dai semi di cacao trasformandoli in cacao in polvere e burro di cacao. In virtù di questo procedimento chimico, attraverso il quale moderavano il gusto amaro del cacao, gli olandesi acquistarono grandi  fama e prestigio.

“Ancora Profumo con una sua vetrina in allestimento dedicata al cacao”.

Nel 1852 a Torino Michele Prochet cominciò a miscelare cacao con nocciole tritate e tostate creando la pasta Gianduia che verrà poi prodotta sotto forma di gianduiotti incartati singolarmente.

Nel 1875 con l’aiuto di un giovane commerciante di cibi per l’infanzia di nome Henri Nestlè, gli svizzeri scoprirono come rimuovere l’acqua presente nel latte ed eccelsero nella produzione di cioccolato al latte.

Nel 1879 Rudolph Lindt infine inventò il processo chiamato “concaggio” che consisteva nel mantenere a lungo rimescolato il cioccolato fuso per assicurarsi che la miscelazione fosse omogenea e armonica. Nacque così, prodotto con questo metodo, “cioccolato fondente”.

“Viganotti in Vico dei Castagna”. Foto di Bruno Mangini.

Fu dopo la metà dell’Ottocento che si impiantarono le prime fabbriche italiane di cioccolato, le ancor oggi famose Caffarel, Majani, Pernigotti, Venchi e Talmone. La crescente diffusione del cioccolato fece sì che nel secolo scorso ne fosse introdotta la produzione a livello industriale grazie a grandi aziende come: Perugina, Novi, Peyrano, Streglio, Unica e Ferrero.

“Scorcio del retrobottega con gli arredi di una volta”.

E Genova?

Se un genovese Colombo importò per primo il cacao e un genovese, sempre per primo, inventò un macchinario per migliorarne la produzione, la nostra città non può mancare all’appello.

La presenza dell’arte pasticcera a Genova è documentata già dal 700. Ne sono golosa testimonianza i nomi dei caruggi di “ Vico del Cioccolatte”, “dello Zucchero”, della “Fragola” nella zona del Carmine.

“Uno dei negozi di Panarello. Qui quello di Corso Buenos Aires”.

E’ il tempo in cui nascono prestigiose botteghe come Romanengo nel 1780, Pasticceria Villa poi Profumo nel 1827, Klainguti nel 1828, Preti nel 1851, la settecentesca Liquoreria Marescotti rilevata dalla famiglia Cavo a fine ‘800, e Panarello nel 1895.

“L’ingresso del laboratorio di Zuccotti in Via di Santa Zita”.

Anche nell’arte del cioccolato i genovesi vantano una solida e radicata tradizione. Sul finire dell’ottocento la Superba annoverava infatti ben 45 imprese artigiane cioccolatiere. Per numero e qualità nulla avevano da invidiare ai celebrati maestri piemontesi.

Per nostro gaudio la favola continua, golosa più che mai, grazie a  Viganotti dal 1866 presente in Vico Castagna, a Tagliafico in Via Galata dal 1890, alla Pasticceria Svizzera dal 1910 in Via Albaro, a Buffa in Via Fiasella dal 1932 e a Zuccotti in Santa Zita dal 1933.

“I sacchetti appesi prima di essere consegnati sembrano fagotti in attesa della cicogna”.

“Antico macchinario del laboratorio Zuccotti”.

Artigiani, anzi artisti, che con la loro passione e perizia mantengono alto l’orgoglio e l’umore nelle nostre feste.

Due Statue dimenticate…

All’inizio dell’attuale Via Gramsci lato Piazza Caricamento, annerite dalla fuliggine e asfissiate dallo smog, si trovano due statue dimenticate e poco note perché difficilmente visibili se non alzando lo sguardo.

Sono le immagini di due dei personaggi più illustri della storia di Genova realizzate, in due nicchie ricavate dalle facciate dei rispettivi palazzi, dal celebre scultore genovese  G.B. Cevasco, a quel tempo appena diciottenne, ma già apprezzato maestro dell’arte dello scalpello:

Al 99r l’ammiraglio Andrea Doria, il signore del mare, colui che nel 1528 liberò la Superba dalla dominazione francese rispondendo a chi gli offriva in signoria la città: “Genova è nata libera e libera deve restare” (discorso in favore dell’Unione delle varie fazioni politiche pronunziato di fronte alla cittadinanza). Raffigurato qui nella sua cotta di rappresentanza pronto ad impugnare la spada a difesa della città.

Il cartiglio sottostante recita:

doria-via-gramsci
“La statua di Andrea Doria al 99r”

Io a libertà ti rendo

Da te, mia patria

Ad esser grande apprendo.

Al civico n. 9 ecco invece Cristoforo Colombo l’esploratore, colui che allargò i confini del mondo conosciuto e aprì nuovi sbocchi e frontiere commerciali e che, ovunque si trovasse, sempre un pensiero in cuor suo serbava per Genova: “Benché il corpo sia qui, il cuore è costantemente lì” (lettera ai concittadini indirizzata al Banco di S. Giorgio). Qui rappresentato in una veste elegante con, posato sopra ad una colonna, il globo a portata di mano.

La relativa epigrafe declama:

Dissi, volli, il creai

Ecco un secondo

Sorger nuovo dall’onde

Ignoto mondo.

Di fronte, parzialmente occultato dalla sopraelevata, l’orizzonte infinito del mare, il loro comune habitat naturale.

“La statua di Cristoforo Colombo al civ. 9”.

Infinito al quale sempre seppero andare oltre…