Storia di due grandi ammiragli…

… dell’eterno dilemma tra il senso del dovere e la patria… tra l’etica gerarchica e quella individuale….
Nell’anno del signore 1435 Genova è sotto l’influenza della famiglia milanese dei Visconti.
Così i genovesi, per conto di Filippo Maria, combattono in mare con i propri valorosi ammiragli i temibili aragonesi.
Mentre Francesco Spinola è impegnato nella difesa di Gaeta, Biagio Assereto, partito in suo soccorso, incrocia di fronte a Ponza la flotta catalana superiore per numero, quindi baldanzosa e sprovveduta perché certa della vittoria.
Invece il genovese infligge loro una sconfitta umiliante e clamorosa utilizzando la consolidata tattica di inserire una parte delle forze nella mischia in ritardo.
Vengono fatti prigionieri il Re, due suoi fratelli e numerosi principi e baroni, il gotha della nobiltà catalana.
Il faraonico bottino viene spartito per ordine dell’ammiraglio, che nulla tiene per se, fra i suoi ufficiali e marinai.
Genova, orgogliosa, festeggia per tre giorni e tre notti l’incredibile vittoria e attende impaziente il rientro dei suoi coraggiosi marinai.
La notizia ha insolita risonanza in tutte le corti d’Europa ma, a sorpresa, il Visconti da ordine che i prigionieri non vengano sbarcati a Genova, bensì a Savona per poi condurli direttamente a Milano.
Le vie della politica sono assai contorte, poco inclini alla gloria e più sensibili agli aspetti concreti; senza alcun consulto con Genova, i nobili aragonesi, Re Alfonso compreso, vengono liberati in cambio di un congruo riscatto.
L’orgoglio genovese è ferito ma non basta perché a loro, ironia della sorte, viene ordinato di allestire una flotta per ricondurre gli aragonesi in patria.
Il vaso è colmo, Francesco Spinola, i nobili e il popolo insorgono, uccidono Opizzino d’Alzate, commissario milanese in città, costringono il suo successore Trivulzio, a rifugiarsi dentro al Castelletto e, dopo averlo assediato, radono al suolo la fortezza.
Agli occhi dei genovesi l’Assereto, ottemperando agli ordini dei milanesi, si sarebbe macchiato di tradimento (quando invece era corretto, in quanto militare, obbedire).
Vero è che in cambio ottenne l’investitura del feudo di Serravalle, il titolo di governatore di Milano e, soprattutto, l’inclusione nella famiglia stessa dei Visconti.
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“Monumento funebre di Francesco Spinola posto all’ingresso del Palazzo Spinola in Pellicceria, oggi Galleria Nazionale”.


I Capitani della Libertà, fra cui lo stesso Spinola, dispongono l’arresto dei suoi parenti e la confisca dei beni.
Le vicende dell’Assereto seguiranno il destino dei milanesi ai quali si legherà sempre più saldamente prestando il proprio operato anche presso gli Sforza, ma non per questo va dimenticata la sua perizia militare marittima.
Di contro lo Spinola continuerà la sua attività di uomo di mare senza però mai ottenere i successi e raggiungere la fama del rivale.
La figura di Biagio Assereto compare sul prospetto di San Giorgio fra i sei grandi della Patria.
Sulla tomba presso la chiesa di Serravalle in cui è sepolto l’eroe di Ponza, è inciso un laconico: ” Biagio Assereto, generale delle galee della Serenissima Repubblica di Genova, fece prigionieri due Re, un infante e trecento cavalieri.
Morì l’anno 1456″.
Allo Spinola invece, già da quattordici anni passato a miglior vita, non bastò il suo amor patrio per ottenere cotanto onore.
Il fiero condottiero osserva sospettoso, dall’alto della sua rappresentazione equestre nell’atrio della Galleria di Pellicceria, gli ignari visitatori che varcano la sua dimora.

 

Storia di una contesa…

d’onore e di una Chiesa… ormai dimenticata…
Non è la Cattedrale, né S. Agostino, né San Matteo e nemmeno Santo Stefano, bensì Santa Maria in Via Lata, la chiesa gentilizia dei Fieschi.
Costruita nel 1340 a bande bianco nere, marmo di Carrara e ardesia, come nella miglior tradizione del gotico genovese ospitò, come l’attiguo Palazzo, illustri personaggi quali Re Luigi dodicesimo e Papa Paolo terzo.
Il Palazzo dei Fieschi, ritenuto il più sfarzoso della città, venne abbattuto per decreto del Senato, in seguito alla fallita congiura contro i Doria del 1547.
Demolito il palazzo, esiliati i membri della casata, la chiesa, ripulita da stemmi, lapidi ed epigrafi che ne ricordassero le gesta, venne preservata.
A causa di un diverbio dovuto al ritardo dell’inizio di una funzione religiosa a loro imputato, i Sauli vennero invitati dai Fieschi a non presentarsi più nella loro chiesa.
Bandinello Sauli, offeso da tale allontanamento, promise che avrebbe costruito, per tutta risposta, la più grande Basilica che Genova avesse mai visto, la vicina Basilica di Santa Maria Assunta di Carignano.
Nel 1858 cessò la carica dell’ultimo abate dei Conti di Lavagna, il campanile venne abbattuto e, da allora, l’edificio ha subito innumerevoli danni, passaggi di mano e peripezie.

Oggi, sconsacrato, ospita un laboratorio di restauro a pochi passi da Salita San Leonardo che, nel ‘600 fu la sede della Bottega dei Piola, dinastia di artigiani e pittori, insuperati maestri del Barocchetto genovese.

Storia di un Generale… di un Poeta…

e di… un Camallo…

Nel 1915 lo scultore Eugenio Baroni concepisce il famoso Monumento di Quarto dedicato all’impresa dei Mille e all’Unità d’Italia.

"I nomi dei mille scolpiti per l'eternità".
“I nomi dei mille scolpiti per l’eternità”.

Il discorso di inaugurazione è tenuto da G. D’Annunzio che strumentalizza il coraggio dei Liguri e le virtù delle camicie rosse per promuovere l’ingresso in guerra dell’Italia.

"L'inaugurazione del 1915 alla presenza di Gabriele D'Annunzio".
“L’inaugurazione del 1915 alla presenza di Gabriele D’Annunzio”.

La scultura rappresenta un muscoloso Garibaldi nell’atto di scrutare, all’orizzonte, la Libertà.
Vicino a lui i suoi soldati, nudi, pronti alla morte perché protetti dall’angelo della Gloria.
Per meglio rendere il concetto della forza d’insieme della scena, viene scelto come modello per il Generale, il camallo Bartolomeo Pagano, l’imponente futuro Maciste cinematografico.
Nel 2010 sullo scoglio di Quarto, per celebrare i 150 anni dell’impresa e della futura Unità d’Italia, viene issato il Tricolore e ricordata la data del 5 maggio 1860 composta con tutti i nomi dei Mille partecipanti alla spedizione.

 

Nei quartieri…

dove il sole del buon Dio non da i suoi raggi… Storia di un famigerato quartiere…
Da tempi remoti fino al 1350, quando venne inglobato nella cinta muraria, il Borgo di Prè era solo un piccolo agglomerato di casupole e chiese di pellegrini lungo la via verso il ponente.
Secondo alcuni l’origine del nome deriverebbe proprio dal fatto che fosse fuori le Mura e quindi noto come contrada dei prati.
Per altri invece l’etimo risalirebbe alla spartizione del bottino da parte dei Capitani di Galea, detti Predoni, al rientro nell’antistante Darsena:
“Burgus de praedis” così veniva infatti identificato negli antichi atti notarili (i cartolari genovesi costituiscono i più antichi testi d’Europa).
Per altri ancora invece, il nome si assocerebbe all’uso militare di tutta l’area adiacente al Vastato (attuale Nunziata, dove un tempo si esercitavano i Balestrieri) detta appunto “Prae castra” (davanti ai campi).
Il Borgo si inerpicava attraverso ripide creuze, costellate di case di legno, fino al Montegalletto e a Pietraminuta (attuali castello D’Albertis e Corso Dogali).
Nel 1606 con il tracciato della grandiosa Via Balbi i campi vennero espropriati, le creuze interrotte, le chiese demolite e l’intero assetto rivoluzionato.
Le costruzioni di Piazza Caricamento prima e Via Gramsci poi, daranno il definitivo carattere
di Via stretta fra la ferrovia portuale e il quartiere universitario.
Territorio conteso nei decenni dalla malavita organizzata per i propri loschi traffici e luogo di piacere per i marinai di mezzo mondo.
Via Prè presenta numerose meraviglie quali, fra le tante, la celebre e omonima Commenda, il Palazzo Reale e i truogoli di Santa Brigida.
I truogoli di Santa Brigida. Foto di Leti Gagge.
 

Storia di un monumento…

… voluto contro tutto e tutti…
Nel 1919 il quartiere di S. Vincenzo volle erigere un monumento alla memoria dei suoi figli eroicamente caduti durante la Prima Guerra Mondiale.
Il concorso indetto venne vinto da un giovane sconosciuto, tal Francesco Messina, che sarebbe poi diventato il più importante scultore italiano del secolo.La città intera si mobilitò per raccogliere i fondi necessari e molti dei principali artisti genovesi, Govi compreso, aderirono devolvendo una parte degli introiti dei loro spettacoli.
Le autorità che avevano in mente l’arco di Piazza della Vittoria come unico sacrario cittadino, si opposero fermamente all’installazione.
Il comitato dei cittadini lo fece lo stesso collocare, benedetto dai frati della vicina S. Anna.
Il Prefetto fece allora rimuovere il gruppo bronzeo trasportandolo nel cortile di Palazzo Rosso.
La reazione popolare fu talmente indignata che il monumento venne rimontato in Piazza Villa con tanto di onori militari e presenza delle Autorità.
La Piazza prende il nome dal partigiano Goffredo Villa, membro dei Gap, torturato e fucilato dai fascisti, presso il Forte di San Giuliano, nel 1944.
Proprio dove un tempo sorgeva il Castelletto, simbolo dell’oppressione straniera, nella Piazza intitolata ad un Partigiano, campeggia il Monumento della Libertà…
Per NON dimenticare MAI!
 

Storia di un Ammiraglio…

… di un Boia… di Balestrieri…
In epoca medievale le esecuzioni capitali venivano eseguite sulla scogliera del Molo dove le Guardie approntavano il palco per l’impiccagione.
I condannati partivano dal Palazzetto Criminale (attuale Via Reggio), attraversavano la città diretti alla chiesa di S. Marco al Molo, dove assistevano alla messa.
Prima però transitavano, per un’ ultima sosta presso quella che, ai genovesi, è nota come la Casa del Boia, datata XI secolo.

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“La Casa del Boia”
“I resti della dimora di Vipsanio Agrippa”.

In realtà l’edificio era molto più grande di quello visibile oggi, aveva un paio di piani ed arrivava ad inglobare l’attuale Caserma della Finanza di Piazza Cavour.
Ad inizio del secolo scorso scavi della Sovrintendenza in zona, portarono alla luce resti romani e una targa intitolata a Vipsanio Agrippa, genero e Ammiraglio dell’imperatore Augusto.
Di qui l’equivoco che la Casa del Boia fosse la dimora del condottiero romano, mentre in realtà, questi avrebbe abitato all’attiguo odierno Civ. 13 di Piazza Cavour, dove nei fondi furono rinvenute pavimentazioni di epoca imperiale.
Da Vipsanio a Pisano, per storpiatura, si sarebbe anche fatta risalire l’origine del Campo sovrastante.

Quest’ipotesi venne smentita quando, durante i lavori di ripristino del risseu, in occasione delle Colombiadi, vennero trovati migliaia di resti umani a conferma che quello invece, come tramandato nei secoli, era il Cimitero dei prigionieri pisani catturati nel 1284, dopo la Meloria.
La Casa del Boia ospita oggi un’esposizione di armi medioevali ed è la Sede della Corporazione dei Balestrieri, protagonista di diverse iniziative e manifestazioni in costume.
 

Storia di un mercato…

“Piazza delle Erbe, all’imbrunire, si prepara alla movida genovese”.

… di un barchile… e di un poeta…

 Piazza Nuova da Basso, così chiamata per non confonderla con Piazza Nuova Alta (odierna Piazza Matteotti davanti al Ducale), dal 1629 al 1694 divenne il mercato degli ortaggi e, dal 1649, anche di capretti e ovini.
Da qui il toponimo delle Erbe con cui ancor oggi è identificata.
Al fine di soddisfare il copioso bisogno d’acqua necessario per questa attività, al centro della Piazza venne posto un barchile.
La fontana, opera dei fratelli Orsolino, rappresenta un putto che cavalca un pesce.
Ai giorni nostri la Piazza è divenuta uno dei poli principali della movida notturna genovese.
Fra i molti locali che vi si possono frequentare uno dei più celebri è senz’altro il Bar, fondato nel 1904 da un ex galeotto, Berto.
Arredato in stile deco’ con piastrelle decorate di Albisola e cristallerie d’epoca era uno dei locali prediletti da Dino Campana.
Il poeta, assiduo frequentatore anche del poco distante Caffè degli Specchi in Salita Pollaiuoli, qui compose alcune delle sue liriche.

Storia di un cardinale… seconda parte…

molto… molto speciale…
Continua… seconda Parte…
Il giovane assistente del cardinale e suo futuro successore Giuseppe Siri, incaricato di mantenere i contatti con l’Alto Comando tedesco, informa Boetto dell’intenzione da parte dei tedeschi, di minare il porto e di cannoneggiare da monte Moro la città, se non vengono concessi loro quattro giorni per la ritirata armata.
Il futuro Magnifico Rettore dell’Università di Genova, Carmine Romanzi, nome di battaglia Stefano, viene incaricato dal CLN e dal cardinale di consegnare a Savignone, sede del Comando teutonico, due lettere in cui il primo chiede la resa immediata e incondizionata, il secondo, di farsi intermediario della complicata trattativa.
“Lo Stato Maggiore tedesco sfila alla testa dei propri uomini in Via XX Settembre, scortato da due ali di Partigiani”.
“Il tavola della sala di Villa Migone su cui è stato firmato l’atto di resa”. Foto di Leti Gagge.
“Il Generale Meinhold comandante della Piazza di Genova”.
“Un’altra preziosa immagine di quella storica mattinata del 28 aprile”.

A bordo di un’ambulanza della Croce Rossa, nel pomeriggio del 25 aprile, Romanzi preleva, scortato dai partigiani, il Generale Gunther Meinhold, comandante della piazza di Genova.
Questi, venuto a conoscenza che la Pinan Cichero, controllando la viabilità, gli impedisce il ricongiungimento con il Gen. Kesselring lungo la linea Gotica, accetta di seguirlo, in compagnia del colonnello Pohl, a Villa Migone sede dell’incontro e residenza privata del cardinale.
A garanzia, fatto inaudito, consegna, durante il viaggio, la sua pistola a Romanzi.
Giunto nel primo pomeriggio, ad attenderlo nel quartiere di San Fruttuoso per conto della rappresentanza tedesca ci sono:
Il Console Von Hertzdorf.
Il Capitano Asmus, capo di Stato Maggiore.
Per quella italiana:
Remo Scappini Presidente CLN Liguria.
L’Avvocato Errico Martino e il Dottor Giuseppe Savoretti, membri del direttivo del CLN ligure.
Il Maggiore Mauro Aloni Comandante dell’esercito di liberazione della piazza di Genova.
La discussione si protrae per quasi tre ore… gli italiani pretendono la ritirata immediata, i tedeschi rifiutano e rinnovano la minaccia di far saltare il porto e di bombardare la città con l’artiglieria pesante di stanza a monte Moro.
La trattativa si fa tesa; il generale
interrompe la discussione alzandosi bruscamente dal tavolo quando, il Cardinal Boetto, fino a quel momento rimasto in religioso silenzio e quasi in disparte, lo afferra con fermezza per un braccio e proclama:” Eccellenza, Genova è, di fatto, già libera….. forse non vi è chiaro che, se voi farete quello che avete minacciato, sarà un bagno di sangue, ma una cosa è certa… da questa città non uscirà un solo tedesco vivo”.
Non ci fu bisogno di traduzione… alle 19:30 il generale Meinhold siglava il documento della resa.
Alle 4:30 del mattino successivo il generale annunciava via radio a tutte le forze poste sotto il suo comando la resa incondizionata e di consegnare se stesse e le armi ai partigiani.
Il colonnello Pohl non regge l’umiliazione e, nella notte stessa, si suicida.
Il capitano di vascello Max Berninghaus, comandante delle truppe di stanza nel porto e sul monte Moro dichiara, nel nome del Führer, la condanna a morte di Meinhold, colpevole di alto tradimento, senza riuscire però a trovarlo.
Dopo due giorni di battaglia, il 27 aprile, anche il suo contingente sarà costretto alla resa.
La mattina del 28 aprile, 6000 tedeschi disarmati, sfileranno lungo Via XX settembre, scortati fra due ali di partigiani, fra il giubilo popolare, fuori dalla città.
Non era mai successo che un esercito ufficiale e ben armato si arrendesse a un Popolo… quello genovese!
Il 31 gennaio del 1946 il cardinal Boetto, in seguito ad una crisi cardiaca, muore.
Viene sepolto nella cattedrale di S.Lorenzo.
Gli succede quel giovane prelato che tanto si era prodigato per salvare il porto, Giuseppe Siri, per oltre 40 anni indiscusso monarca della chiesa genovese e non solo.
Intervistato qualche anno dopo il generale Meinhold, a cui va riconosciuto il buon senso di non aver sparso sangue inutile, attribuirà grande merito al valore dei partigiani genovesi e al ruolo del cardinale.
Genova verrà insignita il 1 agosto 1947 della Medaglia d’Oro al Valor Militare per la guerra di Liberazione.

In Copertina: La lapide davanti alla villa che attesta gli eventi e il ruolo decisivo del Cardinal Boetto.

Storia di un Ammiraglio implacabile…

… di una battaglia cruenta… di onore e rispetto.
Nell’anno del signore 1334 uno stuolo di navi catalane con a bordo 1800 fanti e 180 cavalieri, viene segnalato al largo della Sardegna, pronto ad attaccare le postazioni dei Doria nell’isola.
La Repubblica di Genova arma una flotta affidata al comando dell’ammiraglio Salvago Di Negro.
Questi, dopo dieci giorni di inseguimenti e schermaglie, s’impadronisce di un legno nemico e lo incendia.


Ai suoi marinai che chiedono ristoro, affamati e stremati per lo sforzo delle voghe, risponde che, sulle rimanenti navi ancora da conquistare, troveranno tutte le vettovaglie di cui necessitano.
In breve tempo anche le rimanenti imbarcazioni vengono catturate.
A bordo, oltre al cibo, con sorpresa, al seguito del contingente di occupazione, trovano le loro mogli e i loro figli.
Di Negro ordina ai suoi equipaggi che vengano rispettate le donne e che non venga torto nemmeno un capello agli infanti.
Venuto a sapere che un cavaliere catalano ha ucciso la sua bella moglie per paura che venisse dai genovesi oltraggiata, ne ordina la decapitazione immediata e lascia libere tutte le donne spagnole.
“I Genovesi sono i signori del mare… non barbari e bestie…”

 

Storia di un Santuario…

… di un presidio secolare di Libertà… di una battaglia impari… di uomini coraggiosi e… di un intervento ultraterreno…
Genova, come a suo tempo indicato da Andrea Doria, era ancora sotto l’influenza della Spagna quando, siamo nel 1622, i Piemontesi strinsero alleanza con i Francesi per, finalmente, portare a termine il loro progetto di conquista genovese.
Il 10 maggio del 1625 alla guida di 8000 soldati il Duca Carlo Emanuele I di Savoia si presentò, dopo aver occupato la Riviera di ponente e le località al confine fra i due Stati (attuale basso Piemonte), alle porte di Genova.
La Repubblica era allo stremo e non poté far altro che inviare sul passo del Pertuso, presso Mignanego, dove erano giunti gli occupanti, uno sparuto drappello di soldati comandati dal Commissario d’armi Stefano Spinola.
A questi si unirono numerosi volontari della Valpolcevera guidati dal parroco di Montanesi Giovanni Maria Lucchesi e alcuni banditi, a cui era stata promessa la grazia, comandati dal brigante Giambattista Marigliano.
Al parroco apparve in sogno la Madonna che lo avrebbe rassicurato in merito all’esito della battaglia.
Ottomila invasori vennero così respinti da poche centinaia di patrioti.
“La lapide che racconta le gesta di quel 10 maggio 1625”.


Sul luogo dell’epico scontro i Genovesi vollero erigere immediatamente un Santuario a ringraziamento che ricordasse l’impresa e onorasse la Madonna protettrice nel frattempo, nel 1637, eletta Regina.
Nel 1654 il complesso venne ampliato e la Repubblica donò al Santuario la Pala, commissionata a Tommaso Orsolino, raffigurante la Madonna in mezzo ai Santi protettori della Superba, con nella mano sinistra la palma della Vittoria, in quella destra il Bambinello con il Vessillo di Genova.

“La lapide sopra l’ingresso del Santuario che racconta delle due ricostruzioni del tempio”.


In realtà i Genovesi trionfarono ovviamente non per intervento divino ma perché, alla notizia che le navi spagnole erano arrivate in porto anticipando quelle francesi e che 20000 iberici guidati dal Duca Feria stavano marciando verso il Passo, erano sorti dissidi fra il Duca piemontese e il Generale transalpino alleato il Lesdiguieres.
In seguito a questo scampato pericolo i nostri avi deliberarono la costruzione delle Mura Nuove del 1639 che avrebbero garantito maggiore e adeguata protezione alla città.
Un secolo più tardi, quando tutta la valle venne occupata dagli austriaci il Santuario subì gravi danni e i valligiani stessi, per non lasciarlo in mano nemica, contribuirono alla sua demolizione.
Si salvarono solo la sacrestia, l’altare con la Pala, il campanile e gli arredi sacri portati al sicuro a Serra Riccò dal parroco.
Una volta ricostruito, a partire dal 1751, divenne il simbolo della Libertà dall’occupazione straniera e meta di pellegrinaggi di reduci della Prima Guerra Mondiale.
Il Generale Armando Diaz in persona, Capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano nel 1919 donò, esposto tuttora sul sagrato, un obice austriaco e sul muro del campanile fece incastonare il suo bollettino della Vittoria del novembre 1918.

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“Cartolina raffigurante l’obice austriaco”
“L’obice austriaco con sopra il bollettino della Vittoria di A. Diaz”
“La lapide che racconta la cattura del cannone tedesco catturato dall Brigata Partigiana Santo Poggi di Serra Riccò”.

Piemontesi, francesi, spagnoli, austriaci e poi ancora austriaci, in un intreccio lungo quasi trecento anni non poteva mancare anche il ricordo dell’apporto all’ultima guerra di Liberazione, quello della Brigata partigiana di Serra Riccò che, al pezzo di artiglieria austriaca, ha affiancato un cannone anticarro strappato ai tedeschi.

“Il Cannone tedesco esposto accanto al sagrato della chiesa”.


… “Fino alla Vittoria… sempre”.