… Quando Corso Buenos Aires…

Quando, per allinearla con la nascente Via XX settembre, sul finire dell’800 Corso Buenos Aires venne letteralmente abbassata di circa tre metri. In realtà, ad inizio dello stesso secolo si chiamava “Strada Reale”, poi “Via Minerva” ed era stata rialzata di circa cinque metri, per non coinvolgerla nelle piene del Bisagno.

… Quando onda del mare e borgo…

quando onda del mare e borgo si carezzavano vicendevolmente… quando bagnanti e pescatori coesistevano a pochi metri di distanza… quando scogli e spiaggia si arrembavano al muraglione sotto la chiesa di S. Pietro. Quando anche nel nostalgico bianco e nero dell’immagine i colori sembrano irrompere per dipingere ed eternare panorami della Foce cancellati per sempre.

 

… Quando in Carignano c’erano gli orti…

Quando, davanti al capolavoro dell’Alessi, c’erano solo orti e una piccola creuza che conduceva al Ponte Vecchio. Non c’erano pensiline dei bus, né parcheggi sotterranei o spiazzi di cemento fittizi. Uno dei rari momenti in cui la basilica sembra esente da lavori di costruzione o manutenzione. Tali opere furono infatti iniziate nel 1552 e portate a termine oltre due secoli dopo, al principio dell’800. Da questo prolungarsi quasi illimitato dei lavori nacque l’espressione, ad indicare un’opera la cui realizzazione andava per le lunghe, “come per la fabbrica di Carignano”. 

… Quando a Boccadasse…

c’era davvero un borgo marinaro con barche, reti e vele fin dentro casa… quando i confini tra terra e mare non erano così ben delineati… quando i gozzi si arrampicavano lungo la creuza… quando Gino Paoli non aveva ancora composto “La Gatta”.

Non come oggi, per quanto affascinante, una cartolina per turisti, un ristoro per studenti che hanno bigiato le lezioni, o un luogo di passeggiate per innamorati.

… quando la curiosa immagine della cartolina ritraeva le case e la spiaggetta attigue a ponente del borgo, tra l’attuale chiesa di S. Antonio e il locale La Baia degli Angeli prima che  la zona fosse rivoluzionata con la costruzione di Corso Italia a cavallo del primo decennio del secolo scorso.

… Quando… sotto S. Pietro…

… Corso Marconi e Corso Italia non erano ancora nate… quando alla Foce, dalla chiesa di S. Pietro, la creuza degradava direttamente sulla spiaggia… quando c’erano pescatori e trattorie odoranti di pesce fritto sui terrazzi… quando al posto dei Baracconi i marinai ricoveravano i loro gozzi sulla rena e riparavano le reti… quando le loro mogli, in attesa di caricare i carretti di guizzante pesce azzurro, stendevano le lenzuola come vele delle feluche.

La taverna di Don Chisciotte…

“Finalmente, morti di sonno, fradici mezzi e con tanto di occhiale, arrivarono alla bellissima e splendida città di Genova; e una volta sbarcati nel suo ben riparato Mandracchio, dopo aver visitato una chiesa, il capitano insieme con tutti i suoi camerati andarono a finire in un osteria dove, con il “gaudeamus” presente, cancellarono dalla memoria tutte le burrasche passate. Lì conobbero la soavità del Trebbiano, la forza del Montefiascone, la robustezza dell’Asprino, la generosità di due vini greci di Somma e di Candia, il valore di quello delle Cinque Terre, la dolcezza e la placidità della signora Vernaccia, la rusticità della Cèntola, senza che in  mezzo a tutti questi signori osasse far capolino la volgarità del romanesco. E quando l’oste ebbe compiuto la rassegna di tanti e così diversi vini , si offerse di far comparire lì, senza ricorrere ad alcun trucco e non come se fossero dipinti su d’un foglio, ma reali e sinceri, il Madrigal, il Coca, l’Alaejos e il vino della imperiale più che imperiale città di Ciudadreal, ostello del Dio della risata. E offerse ancora l’Esquivias, l’Alanìs, il Cazalla, il Guadalcanal e il Membrilla, senza dimenticare il Ribadavìa e i Descargamarìa. Insomma l’oste nominò più vini e più ne mise in tavola, di quanti abbia mai potuto averne nelle sue cantine Bacco in persona. Stupirono il buon Tommaso anche i biondi capelli delle Genovesi, e il bell’aspetto e la cortesia degli uomini, la bellezza meravigliosa della città, che su per quelle rocce pare che sia fatta di case incastonate come i diamanti nell’oro”.

“Interno di taverna nel ‘600. Pittore fiammingo”.

Il brano inizialmente autobiografico è tratto da un racconto delle “Novelle Esemplari” di Cervantes “Il dottor Invetriata” in cui il protagonista Tommaso Rotella, un giovane intelligente ragazzo che, dopo aver conseguito la laurea in materie umanistiche nella facoltà di Salamanca, intraprende la carriera militare prendendo parte a diverse avventure cavalleresche un po’dappertutto in Europa. L’autore del “Don Chisciotte” infatti aveva partecipato a diverse spedizioni militari in un corpo di fanteria e combattuto nella celebre battaglia navale di Lepanto del 1571, in occasione della quale, causa una brutta ferita, perse l’uso della mano sinistra.

Dopo aver elencato l’incredibile varietà di vini presenti in città, testimonianza dell’ineguagliabile opulenza dei commerci della Superba, il poeta spagnolo prosegue lamentando l’attaccamento alle palanche dei genovesi giocando sull’equivoco della parola “conto” inteso sia come racconto di una storia (contà in genovese) e calcolo, ovvero conteggio di denaro.

“Statua di Miguel de Cervantes davanti alla Biblioteca Nazionale di Madrid. Opera in marmo di Carrara del 1892”.

“Sui marciapiedi di San Francesco s’era riunito un crocchio di Genovesi; e, mentre egli (Tommaso Rotella) passava di lì, uno di loro lo chiamò dicendo: “Venga qua, signor Invetriata, e ci conti qualche cosa”.

E rispose: “Niente affatto, se conto qualche cosa me lo portate a Genova”.

Cervantes ebbe a dire che Napoli, fra tutte le città, era “la migliore d’ Europa, anzi del mondo” ma se era rimasto incantato dalla bella Partenope alla stessa maniera il suo palato aveva apprezzato le fornite osterie della città di Giano.

 

… Quando c’era l’uovo di Colombo…

Quando nel 1892 per omaggiare il grande navigatore genovese fu allestito, in occasione dell’Expo a questi intitolato, un singolare ristorante dalla forma ovale: “Uovo di Colombo” così si chiamava la struttura, suddivisa su tre piani, alta 26 metri, che ospitava altrettanti lussuosi saloni sovrapposti dove pranzare in un contesto signorile. Specialità? Ovvio uova cucinate in tutte le maniere!

“Se piace al Padrino…”

La storia del salame di S. Olcese è sostanzialmente “cosa loro”, dei Cabella e dei Parodi  le due famiglie che, da oltre un secolo, se ne contendono la paternità.

Nei primi decenni dell’Ottocento la fama di questo salume varcò i bucolici confini della Val Polcevera per invadere sapidamente le tavole inurbate dei genovesi. 

L’abbinamento con le fave divenne binomio imprescindibile di qualsiasi scampagnata primaverile. Ancora oggi infatti, nel genovesato, non si contano le sagre che, da aprile in poi, celebrano il gustoso connubio. Dato l’aumento della domanda i due salumifici estesero la loro richiesta di forniture alle valli limitrofe, Valle Scrivia, Stura, Bisagno e basso Piemonte o, come dico io, alta Liguria, dalle quali approvvigionarsi delle materie prime, le carni.

“Il salame di S. Olcese. Immagine tratta dal sito del salumificio Parodi”.
“Per par condicio, immagine tratta dal sito del salumificio Cabella”.

Il gustoso insaccato è frutto dell’armonica fusione in parti variabili di carne suina (di Piemonte ed Emilia) e bovina del Piemonte (astigiano, alessandrino, cuneense). Il salame, nonostante la scontata evoluzione tecnologica, tuttora viene essiccato a legna, legato a mano e segue fedele l’antica ricetta che prevede l’aromatizzazione a base di aglio e vino bianco del Polcevera.

Entrambe le famiglie vantano documentati diritti di primogenitura. I Parodi hanno fondato l’impresa nel 1890, mentre i Cabella hanno iniziato nel 1911. Secondo i Cabella a fare fede però è la registrazione in Camera di Commercio e la loro risulta essere la prima. Se poi si discute sulla primitiva produzione casareccia tutto è opinabile e ciascuna delle due parti in causa rivendica la precedenza.

“Peter Clemenza, capo regime del clan di Corleone, è interpretato da Richard Castellano (da adulto) e Bruno Kirby (da giovane). Nella foto l’attore R. Castellano”.

L’ultima controversia tra le due famiglie che si rispettano ma non si frequentano, l’una i Parodi a nord del paese, l’altra i Cabella a sud  è proprio legata alla ricetta base. i Parodi e i Cabella hanno tesi diverse, i primi ci metterebbero più suino, i secondi più bovino. Discordi su questo punto focale non hanno trovato un punto d’incontro e quindi il salame di S. Olcese non ha ottenuto la benedizione europea che esigeva una codifica ufficiale della ricetta. Niente ricetta-base nero su bianco, niente benedizione, denominazione e tutela europea.

Pazienza, a S. Olcese ne fanno una questione d’onore .

D’altra parte, all’inizio del capitolo n. 6 del romanzo “Il Padrino”, Mario Puzo così scriveva:

“Il romanzo di Mario Puzo con il titolo originari The Goodfather fu pubblicato nel 1969 ispirando la saga dei vari Padrino (Parte prima 1972, seconda 1974 e terza 1990) di Francis Ford Coppola interpretati da Marlon Brando, Robert De Niro e Al Pacino. Fra gli altri attori non vanno dimenticati Robert Duvall , il Consigliori e Gastone Moschin, nei panni del cinico Don Fenucci”.

“Peter Clemenza quella notte dormì male. La mattina si alzò presto, si preparò da solo la colazione con un bicchiere di grappa, una spessa fetta di salame di Genova, e un grosso pezzo di pane italiano fresco che veniva ancora consegnato alla porta come nei vecchi tempi”.

Da S. Olcese a New York il salame è “cosa loro”, anzi, “cosa nostra”!

A scanso di equivoci l’associazione tra il Padrino e il salame di S. Olcese è una mia licenza poetica. Il salame di Genova citato da Puzo nulla ha a che fare con il nostro insaccato, trattasi infatti di altro tipo di salume.