Il pesce alla ligure

La preparazione del pesce alla ligure sia che sia fatta in umido o al forno implica una profonda relazione con il territorio.

Qualunque sia il pesce cucinato, dall’anciôa (acciuga), al loasso (branzino), la simbiosi con i prodotti dell’orto è inscindibile: aromi e odori come aggio (aglio), timo, porsemmo (prezzemolo), persa (maggiorana), offèuggio (alloro), cornabüggia (origano), romanin (rosmarino), colàndro (coriandolo), sàrvia (salvia), baxaicò (basilico), ortiga (ortica); verdure come patàtte (patate), ciòule, (cipolle), suchinn-e (zucchine), tomatìnn-e (pomodorini ) oltre alle immancabili oîve, (olive) della riviera (fra cui le taggiasche), all’êuio d’oîva (olio extra vergine) nostrano e ai pigneu (pinoli).

Il legame di questi profumi rapportato al pesce non può prescindere dai vini bianchi con cui accompagnare la pietanza, autentici capolavori, estorti con sudore e sacrificio alla natura con inestimabile passione e perizia dai viticoltori: da ponente a levante – solo per citare i più noti – Valpolcevera nostrano, Coronata, Vermentino di entrambe le riviere, Pigato di Albenga, Cinque Terre, Sciacchetrà e bianco Colli di Luni.

Uscendo dal classico binomio pesce vino bianco non vanno tuttavia dimenticati i rosati fra i quali spiccano l’Ormeasco e lo Sciac – trà di Pornassio (ma possono essere anche rosso o passito) e i rossi, più adatti forse alle zuppe e alle buridde, come Ciliegiolo del Tigullio e Rossese di Dolceacqua.

Scriveva in proposito con mirabile sintesi poetica e amore per la propria terra Vittorio G. Rossi nel suo “Vino e cibi di Liguria”:

“Mangiavamo quelle cose con un godimento segreto, ma pensando che gli altri mangiavano il pane degli angeli e noi quelle robette fatte dalle nostre nonne, madri, zie e sorelle dalla faccia come un’ascia d’arrembaggio. Ora si sono accorti che quella era una grande cucina, si sono accorti dei nostri vini fatti dalla pietra, dal sole, dal respiro del mare e hanno il profumo dell’alba nelle calme di luglio”.

In copertina pesce castagna alla ligure (con libera aggiunta di zucchine dell’orto) pronto per essere infornato.

Foto e preparazione dell’autore.

I Pesci saê

Non è un caso che un vecchio detto popolare reciti: “chi sala le acciughe ad aprile perde il sale, le acciughe ed anche il barile”.
A me piace consumarli subito insieme al pane per gustarne tutta la marina sapidità. Altri preferiscono “ingentilirli”, per mitigarne la salmastra intensità, con un ricciolo di burro.

Ad inizio estate nelle case dei genovesi e dei liguri è tradizione procedere alla salagione delle acciughe, i pesci saê. Si inizia  già a maggio e a giugno ma il momento migliore è durante la luna piena di luglio perché le acciughe raggiungono in quel periodo la loro massima dimensione.

Non è un caso che un vecchio detto popolare reciti: “chi sala le acciughe ad aprile perde il sale, le acciughe ed anche il barile”.

Fondamentale per una corretta preparazione è la freschezza del pesce che deve essere, e non solo per questioni di gusto, ma soprattutto di salubrità, della nostra riviera: preferibilmente di Camogli o Monterosso.

Alle acciughe vanno tolte le teste, spezzando il pesce e tirando con le mani a livello delle branchie. Per essere sicuri che le interiora siano completamente pulite bisogna passare l’indice all’interno della pancia del pesce, aprendola e togliendo eventuali residui.

Ogni arbanella contiene circa un chilo e mezzo di prodotto e due chili di pesce necessitano di un chilo di sale grosso.

Si cosparge il fondo del vaso di vetro con un pugnetto di sale grosso, due cucchiai da cucina e poi si adagiano i pesci, in una fila da 12-14 pesci disposti testa-coda, con due o quattro pesci ai lati per riempire lo spazio rotondo che avanza ai lati della fila.

Si aggiunge poi un’altra presa di di sale per riempire i buchi fra i pesci e formare un leggero strato sovrastante. Per evitare pericolose bolle d’aria ogni tanto scuotere l’arbanella e aggiustare di sale laddove necessita.

In croce si fa un altro strato, ossia se hai fatto una fila dall’avanti verso di te, lo strato successivo lo fai da destra a sinistra. E lo strato successivo lo fai di nuovo dall’avanti verso di te. Si va avanti così, per 5-6-7 strati finché non si riempie l’arbanella fino a 2 cm dal bordo.

Giunti a questo punto si riempie di due centimetri di sale fino all’orlo, si mette una pietra piatta o un peso cilindrico di almeno 1 kg al fine di schiacciare il più possibile il contenuto.

Il pesce così salato, schiacciandosi al massimo, perde i propri liquidi interni e diminuisce di volume. Deve essere lasciato così schiacciato, al buio e aperto all’aria, per almeno un mese, meglio due.

L’arbanella può ora essere chiusa per limitare l’evaporazione del liquido ma il pesce deve rimanere comunque sempre schiacciato.

E’ sufficiente anche una comune pietra di mare piatta e rotonda da mezzo chilo. Quando il liquido evapora il pesce va coperto con una salamoia preparata al momento di acqua e sale.

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“Pesci saê conditi con olio, aglio e origano”.

Per la salamoia si fanno sciogliere a caldo due cucchiai di sale grosso in un bicchiere d’acqua che si lascia raffreddare e poi si aggiunge al bisogno. Per due mesi bisogna accertarsi che non si asciughi.

Trascorso il necessario periodo di “salagione” finalmente è possibile, secondo gli esperti per Ognissanti, procedere alla preparazione del pesce: si apre, pulisce e si toglie la lisca.

Io, dopo aver sciacquato i pesci saê con abbondante acqua corrente, li asciugo con cura sopra un tagliere di legno o carta assorbente e poi li dispongo a strati in un contenitore di vetro, ricoperti di olio extra vergine di oliva, aglio a scaglie e un po’ di origano.

Così sono già pronti come base per altre preparazioni, sughi o salse.

A me piace consumarli subito insieme al pane per gustarne tutta la marina sapidità. Altri preferiscono “ingentilirli”, per mitigarne la salmastra intensità, con un ricciolo di burro.

“Una piccola acciuga nel piatto vale più che un tonno in mare”. (Proverbio francese).

In copertina le mie acciughe con i tetti di Genova di sfondo.

L’Asinello l’aperitivo corochinato.

Per me che da studente nei primi anni ’90 bazzicavo nella zona soprattutto nelle serate del fine settimana era una tappa fissa. La “Movida” iniziava immancabilmente con uno o più giri di “asinello”, l’aperitivo corochinato genovese.

L’Asinello, distribuito da Vini Allara di Pra’ e prodotto dalla Toso Vini S.p.A. di Cossano Belbo (Cn), si ottiene con vino di qualità, zucchero, alcool e sapiente infusione di selezionate erbe, fiori, semi, bacche e cortecce aromatiche, in proporzioni gelosamente custodite.

Riporto pari pari quanto decretato dagli enologi:

“Al naso ha sentori floreali, al palato è dolce con finale amarognolo. È duttile nell’utilizzo: a fine pasto, come base cocktail e come aperitivo”.

Negli anni ’60 l’Asinello ebbe il suo periodo di maggior splendore ma fu agli inizi degli anni ’70 che iniziò a diffondersi su larga scala. Gli attempati ragazzi di allora ricordano ancora la città tappezzata di inconfondibili manifesti arancioni con la bottiglia del liquore protagonista in primo piano accanto al volto sfocato di una ragazza con slogan, un po’ in stile “Milano da bere”, del tipo:

«Il vero Corochinato» e «oggi beviamo un vino aperitivo».

Ma l’aperitivo «di gran lusso l’asinello», come recita l’inimitabile etichetta retrò verde chiaro (etichetta originale che si porta sulle spalle più di un secolo!) per fortuna non è milanese ma genovese e vanta una genesi antica in linea con quella della nostra città.

“L’Asenetto” nasce infatti nel remoto 1886 – spiegano gli esperti in materia – ancora da un vino bianco «neutro» aromatizzato tipo Vermouth, che passa attraverso l’infusione a freddo per un mese di circa 18 selezionate erbe, bacche, fiori, semi e cortecce aromatiche (tra essi china, salvia sclarea, cardo santo, bacche di ginepro, assenzio pontico, condurango, legno di quassio, radice di genziana) ed arriva dopo circa 6 mesi di invecchiamento in vasca a 16% alcolici.

Veniva normalmente servito liscio, con seltz o con l’aggiunta di un’oliva o, in alternativa, di una fetta di limone magari accompagnato a qualche tocchetto di focaccia.

Con abile intuizione il Corochinato» si chiama così perché unisce il nome del borgo di Coronata (il primo vino usato era infatti un bianco di Coronata) a quello della China (nota corteccia di piante arboree usata anche per le virtù digestive), che ne è ingrediente fondamentale. 
Testimone di uno stile di vita e di uno “scorrere del tempo” meno vorticoso tutta la filiera della sua produzione era artigianale.

Addirittura fino a pochi anni fa persino il codice a barre veniva applicato a parte ed a mano su ogni singola bottiglia.

Ma se volete gustarlo ancora oggi – niente paura – in Via Canneto il Lungo 77 esiste l’antica bottiglieria Marchesa che dal 1982 ne è divenuta l’indiscussa depositaria e regina.

A tal punto che, per tutti nei caruggi, il suo è il Bar degli Asinelli!

I Corzetti…

I corsetti o corzetti, detti curzetti o cruxetti in lingua genovese, sono una pasta tipica della cucina ligure la cui origine risale al Medioevo. Il nome deriva dall’immagine stilizzata di una piccola croce, una crocetta (“cruxetta“) appunto con la quale veniva originariamente decorato un lato di questi medaglioni (l’altro con lo stemma del casato), da qui il nome “cruxettu“. Nel levante ligure, con la parola “corzetto“ s’intende sia lo stampo di legno che la pasta così incisa.

“I Corzetti”.

Fra i corzetti se ne possono distinguere due tipologie: la prima detta alla polceverasca, che ha una tipica forma a piccolo otto la seconda, quella preparata invece nel Levante, che ha il formato di piccolo medaglione di pasta decorato in modo particolare, e per questo si definisce anche corsetto stampato. La pratica di decorare la pasta  con lo stemma della propria famiglia era in voga presso i nobili rivieraschi fin dal Rinascimento. era diffusa presso i nobili rivieraschi.

Allo scopo utilizzavano  uno stampino in legno. Il motivo di tale singolare consuetudine era da collegarsi  alla necessità del signore di turno di affermare il proprio potere sul territorio e prestigio sulla comunità.

Gli stampi di legno, sono composti da due parti: una che ha la funzione di “timbro” e l’altra di forma cilindrica con una parte incisa e concava, che serve per tagliare la pasta. I tipi di legno generalmente usati sono: pero, melo, faggio o acero.

Sia nei caruggi genovesi  che nella zona di Chiavari si trova ancora qualche artigiano in grado di fabbricare e personalizzare questi originali stampi.

I corzetti invece si  possono ancora trovare confezionati a mano in alcune botteghe artigianali del centro storico genovese e dell’entroterra ligure, zone della Valpolcevera e del chiavarese in particolare o,  più facilmente, sugli scaffali dei principali supermercati, prodotti industrialmente con tradizionali macchine raviolatrici.

Si sposano bene con il sugo di carne e selvaggina o funghi, con il pesto, con la salsa di noci o con una salsina composta da burro, pinoli tritati, maggiorana o salvia.

 

I Biscotti del Lagaccio…

Dagli archivi della Repubblica si evince che I biscotti del Lagaccio nacquero nel 1593 in un antico forno nelle vicinanze del bacino artificiale omonimo creato qualche decennio prima per volere di Andrea Doria. L’ammiraglio infatti necessitava di molto acqua per irrigare i giardini, i frutteti e le fontane della sua principesca dimora.

Nel secolo successivo in zona la Repubblica vi impiantò una polveriera per la fabbricazione, appunto, di polvere da sparo. Processo che necessitava anch’esso di copioso approvvigionamento idrico.

Sia il popoloso futuro quartiere che il gustoso biscotto nel ‘600 presero il nome dal toponimo dispregiativo che assunse, per via delle sue torbide e pericolose acque nelle quali affogarono diverse persone, il lago, definito appunto “U Lagasso”, il Lagaccio.

I bescheutti do Lagasso in origine erano delle semplici fette di pane, molto simili alle gallette del marinaio, biscottate bis- cotte, appunto cotte due volte, per facilitarne il processo di deumidificazione, caratteristica fondamentale richiesta dai marinai per meglio conservarle durante i viaggi in mare.

Con l’aggiunta di aromi o liquore all’anice (da qui anche gli anicini), burro e zucchero questi biscotti hanno trovato nel secolo scorso adeguata collocazione nell’ambito della tradizionale pasticceria secca mentre nel basso Piemonte si sono diffusi nella variante più leggera di biscotti della salute, più adatti alla prima colazione.

Ancora oggi i biscotti del Lagaccio costituiscono un prodotto tipico confezionato da diverse aziende alimentari locali molto apprezzato dai consumatori.

In copertina: foto di Cinzia Morasso.

“Mangi la sbira… e poi muori”…

La sbira è un piatto povero della cucina genovese dalla tradizione plurisecolare che risale addirittura al lontano 1479 al tempo in cui, presso l’Oratorio di Sant’Antonio detto dei “Biri”, esisteva la scuola di formazione per quelli che avrebbero ricoperto il ruolo di guardie carcerarie, gli sbirri.

“Palazzetto Criminale”. Foto di Leti Gagge.

“La Torre del Popolo o Grimaldina”. Foto di Leti Gagge.

I carcerati e i sorveglianti, da qui il loro nome di sbirri, erano nutriti appunto a “sbira” una scodella a base di trippa e relativo brodo, pane abbrustolito e formaggio grana grattugiato. Questo era dunque il pasto delle guardie sia dell’Oratorio che del Palazzetto Criminale e Torre Grimaldina nonché dei condannati a morte.

“Le caratteristiche imbarcazioni coperte da tendine dei cadrai”.

Nei secoli successivi la sbira divenne la colazione dei camalli, dei portuali i quali, magari dopo ore di intenso e duro lavoro, amavano intingere nel brodo ancora fumante una gustosa slerfa di focaccia accompagnata da un rinfrescante gotto di bianco. Spesso qualora ai marittimi non fosse permesso, o non ne avessero il tempo, di sbarcare in porto, la sbira veniva somministrata, insieme al famoso minestrone alla genovese e ad altri piatti caldi, direttamente a bordo dagli onnipresenti ed efficienti cadrai. Costoro conducevano le loro piccole ed agili imbarcazioni fin sotto le chiglie delle navi e rifocillavano, per pochi spiccioli, gli equipaggi. I Cadrai, o catrai, con i loro piatti pronti furono gli antesignani e i precursori dello “street food” anzi, in questo caso, visto che è il mare ad essere protagonista, dello sea food.

La sbira è ancora oggi prodotta nelle poche tripperie rimaste la più celebre delle quali “L’antica tripperia di Vico Casana, già Cavagnaro” resiste imperterrita nell’omonimo caruggio dal 1890.

Mandilli de saea…

Le storie ufficiali fanno risalire al XIV sec, in piena età comunale, la nascita delle corporazioni dei pastai. La più antica di queste, quella dei “lasagnari”, venne registrata a Firenze nel 1337 con lo scopo di accorpare pastai e panettieri.

Ma fu dopo la metà del ‘500 che i maestri di pasta secca, trapiantati ormai in tutta Italia, cominciarono diffusamente a riunirsi in sodalizi di mestiere.
L’arte dei “Vermicellari” nacque a Napoli nel 1571; nel 1574 i produttori genovesi di “fidei” (pasta lunga e filiforme) costituirono insieme ai formaggiai la corporazione dei “Fidelari” specializzati nella produzione dei maccheroni.

In realtà a Genova, da molto tempo in contatto con l’oriente e il mondo arabo, la pasta era già patrimonio comune.

Non è un caso che Trenetta e Fidelino siano termini di origine araba come, del resto, Scucusu sia una derivazione di cous cous.

I Genovesi infatti, giunti in Asia ben prima di Marco Polo, avevano appreso l’arte della conservazione dai Mongoli di Gengis Khan ed avevano costruito un monopolio del frumento, intuendone per primi le potenzialità, in virtù dei commerci con l’Italia meridionale, l’Oriente e il Nord Africa.

Se ne ha traccia scritta già in un documento del 17 agosto 1188 “L’Ordo Cocariae episcopi Ianuensis” in cui viene descritta tutta la trafila necessaria per i sontuosi banchetti indetti dal Vescovo. Qui, per la prima volta, vengono citati i “pistores”, i pastai che devono occuparsi di preparare e servire la pasta.

“Preparazione della pasta, Tacuinum sanitatis Casanatense (XIV secolo)”.

Addirittura nel 1244 alla presenza del notaio de Predono, in cambio di sette lire genovine, il medico bergamasco Ruggero di Bruca s’impegna a guarire il lanaiolo Bosso da una fastidiosa malattia del cavo orale. Oltre alle medicine prescritte dal medico, il paziente si deve impegnare, di fronte a testimoni, a non consumare carne, frutta, cavoli e pasta. (cit. tratta da “La Cucina dei genovesi: Storia e Ricette di Paolo Lingua).

Fra i vari formati forse quello delle lasagne, condite in tutte le maniere, era il più apprezzato.

Una quartina del poeta Jacopone da Todi recita:

“Chi guarda a maggioranza spesse 
volte si inganna. 
Granel di pepe vince per virtù 
la lasagna”. 

Anche Cecco Angiolieri cita questa pasta nei suoi scritti:

“chi de l’altrui farina fa lasagne,
il su’ castello non ha ne muro ne fosso”

e ancora in una citazione di fra’ Salimbene da Parma che raccontando di un monaco scrive nella sua “Cronaca”:

“Non vidi mai nessuno che come lui
si abbuffasse tanto volentieri
di lasagne con formaggio

A Genova in particolare, venivano servite con un battuto (pesto in genovese) antenato dell’attuale salsa, ma privo di basilico.

Già nel 1316 se ne certifica la presenza grazie alla citazione di una certa Maria Borgogno “quae faciebat lasagnas”.

Venivano chiamate mandilli de saea, fazzoletti di seta perché, probabilmente, richiamavano con il loro gusto vellutato la morbidezza della seta, tessuto commerciato dai genovesi e assai in voga in quel periodo.

Ed io me la sono immaginata così la nascita del mandillo:

Un giorno capitò in città un commerciante di tessuti proveniente da una terra molto lontana. Parlava una lingua mediterranea contorta ma familiare sui moli della Darsena e subito si mise ad intonare la sua nenia per proporre i suoi manufatti.

Stoffe sgargianti di ogni colore, taglio e foggia. Ma su tutte a colpire l’interesse delle massaie che si erano radunate intorno al suo bazar itinerante, furono dei graziosissimi fazzoletti di seta, “mandilli de saea” decorati con deliziosi macramè.

In particolare piacquero ad una giovane “lasagnara” che, non potendosi permettere di comprarli dal mercante, si mise a tirare la sfoglia delle sue lasagne così sottile da farli diventare simili ai suoi agognati fazzoletti di seta.

All’ora di pranzo la donna presentò una porzione delle appetitose lasagne condite con il pesto allo straniero che, entusiasta, proclamò: ”questo piatto è ben più prezioso dei miei mandilli de saea”. Quindi offrendo in cambio i fazzoletti desiderati dalla massaia, diede origine anche al nome.

Il mio nome è Magro… Cappon Magro…

Si tratta di uno dei piatti più importanti e complessi della nostra cucina. Una vera e propria, soprattutto per quanto concerne decorazione e presentazione, opera d’arte.

Il Cappon magro nasce come piatto povero nelle cambuse dei marinai e di recupero in quelle delle cucine dei nobili, fino a giungere impreziosito e rielaborato sulle tavole dei ricchi.

Intrigante è già la genesi del nome che, a differenza della sua bontà, può trarre in inganno.

“Cappone” deriva infatti non dall’omonimo pesce, né dal pollastro al quale vuole sostituirsi, bensì dal termine francese “chapon” un grosso crostino di pane secco o galletta, tostato e strofinato con aglio, ideale per le zuppe.

Il nome richiama inoltre la caponata siciliana, e in effetti nella cucina ligure è presente una versione locale di caponata.

Un’insalata estiva di pomodori, cetrioli, peperoni, lattuga, uova sode, bottarga e tonno essiccato, condita con olio d’oliva..

 

Il termine “magro” indica invece  il suo essere un piatto di magro, riservato cioè ai giorni di penitenza e quaresimali antecedenti la Pasqua.

Il pesce e la verdura di cui è composto vengono elaborati a strati su una base di galletta.

Il piatto prende spunto da una semplice insalata di magro, costituita da galletta ammollata in acqua e aceto, pesce salato, tonno e alici, e, se possibile, olive, origano e sempre un po’ d’olio come condimento: in pratica l’equivalente della capponadda – parente povera del cappon magro – in passato assai popolare come preparazione tipicamente marinara.

Il passaggio dalle galee alle tavole nobili portò ad arricchire la ricetta, spesso definita con altri termini come biscotto magro o biscotto condito. Gli ingredienti si fecero sempre più raffinati e al pescato si unirono le verdure lessate, il tutto amalgamato da una particolare salsa verde capace di armonizzare i sapori rendendo l’insieme impareggiabile. Nei libri contabili di alcune famiglie nobili genovesi si trovano riferimenti inequivocabili al cappon magro, sia come piatto dei giorni di magro – magari in versione più sobria – sia come portata fastosa da ostentare durante i banchetti ufficiali tenuti in giorni di astinenza dalle carni.

“Archivio di libri contabili di una nobile famiglia del ‘700”.

Come raccontato dal “cucinosofo” Sergio Rossi nei primi due ricettari delle Cuciniere ottocentesche, vi si ritrova sia la ricetta per il cappon magro, sia l’alternativa definita economica per la minor varietà di ingredienti e la più sobria composizione del piatto. Una singolare costante di questa ricetta è costituita dal biscotto o dalla galletta. Nell’impiego si tratta di due prodotti analoghi, ma nella sostanza assai differenti fra loro. Il cosiddetto biscotto è preparato in lunghi filoni che dopo la cottura sono tagliati a fette per essere sottoposti a un secondo passaggio in forno: da qui il nome bis-cotti.

La galletta, invece, è preparata con un impasto differente e confezionata in forma di piccola focaccina. Una sola cottura la rende asciutta e conservabile, tanto che, in passato, chi ne controllava la consistenza prima di accettare i carichi da stivare nelle cambuse delle navi, pretendeva che le gallette fossero “vetrose”, perfettamente asciutte e quindi conservabili a lungo.

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Cappon Magro. Foto e preparazione dellla Trattoria delle Grazie.

Spesso il miglior biscotto era preparato con farina di grano duro e grazie a una particolare lavorazione dell’impasto e alla differente resa della farina, il risultato finale era straordinario sia nella consistenza, sia nel sapore.

A proposito della scelta dei pesci si può decidere di utilizzare la polpa di un solo tipo di pesce e quindi orientarsi su una palamita o una ricciola, la gallinella o la leccia, oppure utilizzare le varie qualità di pesci insieme, anche di scoglio, seguendo le diverse cotture.

Non possono poi mancare: seppie, mitili, calamari e gamberi.

Le verdure da impiegare sono: cavolfiore, zucchine, rapa rossa, carote, carciofi (o asparagi secondo stagione).

 

La prima cosa da preparare, possibilmente il giorno prima è la salsa verde che se riposa una notte è decisamente più armoniosa!

 

Si prepara frullando insieme (o nel mortaio per i puristi) una grande manciata di prezzemolo ben lavato, con uno spicchio d’aglio, un pizzico di sale grosso, cinque acciughe sotto sale, due tuorli d’uova sode, olio extra vergine d’oliva, possibilmente taggiasco, una manciata di olive e capperi, una presa di mollica di pane bagnata nell’aceto.

 

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Gallette del marinaio di Camogli.

Occorre inoltre della buona Galletta del marinaio come quella tipica di San Rocco di Camogli.

 Si inizia con la pulizia del pesce che si bolle in acqua bollente salata aromatizzata con un mazzetto di carota e di sedano.

Il pesce, una volta cotto, va pulito, diliscato e spolpato. Operazioni che vanno effettuate con molta cura poiché Il pesce nostrano è spesso ricco di lische.

Si procede poi con la cottura dei crostacei e delle verdure.

E’ fondamentale cuocere ogni qualità di pesce e di verdura separatamente l’una dall’altra e una volta pronta condirla con un pochino d’olio e metterlo in contenitori diversi per non mischiare i sapori ed i colori.

 

Una volta che tutti i pesci e tutte le verdure sono state cotte e condite con la salsa verde si può procedere con la composizione del Cappon Magro.

Si inizia con la galletta del marinaio, imbevuta in acqua e aceto che si pone in fondo a un piatto da portata, la sequenza prevede uno strato di pesce seguito da uno strato per ogni tipo di  verdura un po’ di salsa verde e un altro strato di pesce e così fino a completare il piatto che si ricopre di salsa verde e si decora con le verdure a striscioline sui lati e i gamberi sulla cima.

Necessita di riposare almeno una notte prima di essere servito e gustato.

Tutti i sensi vengono coinvolti e adulati in un trionfo di colori, gusti e profumi in una sensuale tentazione per il palato.