Storia di una Porta…


montata, smontata e rimontata proprio come i templi egizi di Abu Simbel…

Porta Pila, eretta fra il 1626 e il 1639, rappresentava, insieme alla scomparsa Porta Romana di Via San Vincenzo, l’accesso a levante delle Mura Nuove (quello a occidente era costituito dalla Porta della Lanterna).

Porta Pila
“La massiccia Porta Pila, dal nome greco, per suggellare i rapporti con Costantinopoli. I genovesi ebbero Pera e Galata i greci, in cambio il sobborgo di San Vincenzo a Genova. Non a caso nel commerciale quartiere di San Vincenzo una delle Vie principali è intitolata al quartiere genovese di Istanbul.”

Si trovava all’incrocio fra le attuali Via XX e Via Fiume.
Per accedere alla città provenendo dalle campagne si varcava l’omonimo ponte posto sulle Fronti basse e poi, dinnanzi, si parava l’imponente spettacolo dei bastioni, della Porta e delle sue severe mura. In origine la costruzione era destinata a difendere le dimore di Porto S. Maurizio ma i Padri del Comune ne ottennero lo spostamento a Genova.

Sorretta con colonne in pietra di Finale, disegnata dall’arch. Bartolomeo Bianco (lo stesso della fontana di Giano) è adornata con un’edicola disegnata da Domenico Fiasella e realizzata da Domenico Casella (detto lo Scorticone) raffigurante la Madonna Regina alla quale è consacrata.
Sopra reca il laconico motto “Posuerunt me custodem”.
Sul finire dell’800 in seguito ai lavori di soppressione delle Fronti Basse la Porta fu demolita e ricostruita presso il bastione di Montesano.
Il selvaggio inurbamento fece si che anche da lì, nel 1950, dovette essere nuovamente smantellata e riassemblata in Via Imperia, zona Brignole, dove ancora oggi riposa dimenticata.
Un progetto del 2011, rimasto per ora inascoltato, ne prevede il recupero, ponendola nella zona antistante la Stazione Brignole, valorizzandone l’aspetto scenografico.

Storia di leoni minacciosi e…

di leoni… domati…
La rivalità fra Genova e Pisa è a tutti nota ed ebbe il suo epilogo con la celebre battaglia della Meloria del 1284 che permise alla nostra Città di dominare il Tirreno.
Non da meno fu quella con Venezia che perdurò molto più a lungo sia sui mari che nelle sale del potere delle più importanti Corti europee, al fine di assicurarsi il monopolio dei commerci con la Terra santa e soprattutto con l’Oriente.

“Prima testa leonina affissa sul portale lato Sottoripa proveniente dal Palazzo del Pantocratore di Costantinopoli, presa ai veneziani nel 1262.”


A ricordarci questa acrimonia la Superba è disseminata di minacciosi e fieri leoni di S. Marco, prezioso bottino di epiche battaglie navali:
Ben tre leoni dal 1262 sono posti sulla facciata, lato Sottoripa, provenienti dal Palazzo del Pantocratore, sede del Doge veneziano a Costantinopoli.

"Seconda testa leonina"
“Seconda testa leonina, posta all’angolo destro della facciata”.
“Terza testa leonina, posta all’angolo sinistro del prospetto”.

Un altro, datato 1380 proveniente da Pola, è incastonato all’esterno della Parrocchia di S. Marco al Molo, a pochi passi da Porta Siberia.

“Leone di S. Marco incastonato all’esterno della Parrocchia di S. Marco al Molo, bottino di guerra proveniente dalla battaglia di Pola 1380”. Foto di Leti Gagge.

L’ultimo, anch’esso del 1380, trofeo originario di Trieste, occupata durante la guerra di Chioggia, adorna il prospetto del Palazzo Giustiniani sito nell’omonima Piazza.
Infine, datati 1830, opera dello scultore Carlo Rubatto, una coppia di maestosi leoni protegge l’accesso alla Cattedrale. Hanno l’aspetto docile e remissivo, gli occhi tristi, probabilmente così voluti dall’artista per sottolineare la mai tollerata sottomissione ai Savoia.

palazzo giustiniani
“Leone di S Marco incastonato sul prospetto principale di Palazzo Giustiniani, bottino preso a Trieste durante la guerra di Chioggia del 1380.”

Non hanno nulla a che vedere con le vicende inerenti Venezia ma, a me piace immaginare, che siano stati sottomessi e domati dalla Superba….

 

 

 

 

 

Storia di rivalità familiari…

e di una maestosa Basilica… i cui lavori non finiscono mai…
Una delle più importanti famiglie genovesi, quella dei Fieschi, aveva in Carignano, in S. Maria in Via Lata, vicino al famoso palazzo (ritenuto il più sfarzoso della città), la propria chiesa gentilizia.
Le funzioni che vi si celebravano erano frequentate da tutte le famiglie del quartiere.
Anche da quella dei Sauli, mercanti originari di Sori che, da tempo, vi si erano stabiliti e che avevano fatto fortuna, in particolare, con il commercio del sale.

"La chiesa sconsacrata di Santa Maria in Via Lata".
“La chiesa sconsacrata di Santa Maria in Via Lata”.

A causa di un ritardo ad una cerimonia solenne, questi vennero invitati a costruirsi una chiesa, per fare “il comodo loro”.
Bandinello Sauli decise allora, nel 1481, di stanziare un apposito fondo presso il Banco di S. Giorgio per finanziare l’impresa.
I lavori iniziarono però solo molti anni dopo, nel 1522, e gli eredi commissionarono il progetto ad un giovane emergente architetto perugino, Galeazzo Alessi.
Costui prese a modello le imponenti forme del Bramante e di Michelangelo, adottate per S. Pietro, in Roma.
Quando il perugino abbandonò Genova, mantenne la direzione dei lavori, appoggiandosi ad un gruppo di architetti locali, capitanati da Bernardo Cantone.
La cupola venne terminata solo nel 1603 quando l’Alessi era morto già da trent’anni.
I principali lavori si dipanarono nell’arco di oltre un secolo.
Nacque da ciò il modo di dire, per indicare qualcosa di interminabile, “E’ come la fabbrica di Carignano”.

"La Basilica dell'Alessi".
“La Basilica dell’Alessi”.

Fra il 1718 e il 1724 Domenico Sauli fece costruire, per facilitare l’affluenza da Sarzano e migliorarne l’impatto scenografico, il monumentale Ponte di Carignano.
Nel ‘800 fu poi Carlo Barabino a completare gli esterni nelle forme attuali.
La Basilica intitolata ai Santi Fabiano, Sebastiano e all’Assunta è tuttora chiesa gentilizia dei Marchesi Negrotto, Cambiaso, Giustiniani.
Al suo interno sono conservate sculture di pregio di Filippo Parodi e di Pierre Puget, oltre ad importanti tele di Domenico Piola, Luca Cambiaso, Guercino e Procaccini.
Ancora oggi, se passate in zona, noterete, per non venire meno al detto, lavori sempre in corso.

In Copertina: uno scorcio della Basilica dell’Assunta vista da via Santa Maria in Via Lata.

Storia di una leggenda… di un affronto…

 di una vendetta lavata con il sangue… e di valorosi genovesi.
Prima ancora della Prima Crociata, decisa nel 1095 e attuata l’anno successivo, Caffaro prezioso politico e cronista del tempo, ci racconta di un curioso antefatto:
I nobili Roberto di Fiandra e Goffredo di Buglione si imbarcarono sulla nave genovese “Pomella” diretti in pellegrinaggio a Gerusalemme.

tavarone-embriaco
“Guglielmo Embriaco espugna Gerusalemme” affresco di Lazzaro Tavarone presso il Palazzo Cattaneo Adorno di Via Garibaldi 10.
Questi, giunti sulla soglia del Santo Sepolcro, vennero provocati da un guardiano infedele.
Da qui, secondo la leggenda, la decisione di riportare la Città Santa sotto l’influenza occidentale.
In realtà fu la Chiesa orientale a sollevare il problema musulmano e a sollecitare l’intervento del mondo occidentale.
Roma, al fine di riaffermare la propria supremazia, riunì sotto la sua ala tutti i principali nobili cristiani che, sia per spirito religioso, che per interessi commerciali, aderirono con entusiasmo.
I due condottieri giurarono vendetta e, sotto il loro comando, si costituì l’esercito che, per due anni, senza successo, avrebbe tentato l’impresa.
Ci vollero però Guglielmo Embriaco e suo fratello Primo, alla testa di due galee genovesi, per compiere in meno di due mesi e con duecento uomini, quello che gli altri non erano riusciti a portare a termine in due anni con diecimila soldati.
Conquistata Gerusalemme dall’Embriaco, suo fratello Primo fu nominato Governatore, Balduino di Fiandra, fratello di Buglione, eletto re.
Per sua disposizione, a perenne ricordo del determinante apporto genovese, venne inciso a lettere d’oro sulla trave superiore del Santo Sepolcro il monito “Praepotens Januensium presidium” (Presidio della potenza genovese).
In copertina:

Statua di Goffredo di Buglione sul posto Royale o Koningsplein (quadrato reale) a Bruxelles, Belgio.

Storia dell’altra lapide…

Sempre sotto la Porta, dal torrione opposto, una seconda lapide ricorda una leggendaria impresa… naturale continuazione della prima, raccontata come se fosse la città a narrare:
“Finora l’Africa è stata devastata dalle armi della mia gente,
poi parte dell’Asia e tutta la Spagna.
Conquistai Almeria e Tortosa pure sottomisi,
la prima sette anni, la seconda cinque anni fa.
Io, Genova, ho terminato ieri questa cinta di Mura
nell’undicesimo centenario e nel quindicesimo anno dopo l’almo parto della Venerabile Vergine.”
Omaggio alla gloriosa conquista di Almeria e Tortosa, allora in mano ai Mori e, dai genovesi consegnata ai Conti di Barcellona… ma questa è un’altra storia…
"L'altra lapide, sul torrione opposto".
“L’altra lapide, posta sul torrione opposto”.

Storia del matrimonio medievale genovese…

Questa la regola che, nell’alto Medioevo, sanciva le unioni nella Dominante:
“Se una donna prende marito, lo prende secondo l’uso e la consuetudine di questa terra, cioè secondo l’antifatto e la tercia.”
L’antifatto è un istituto giuridico per cui, a fronte della dote portata dalla moglie, il marito costituisce sui propri beni un fondo a garanzia della stessa e commisurato alla sua entità.
La tercia deriva invece dall’usanza germanica del “morghincap”, un donativo maritale alla sposa, considerato come un compenso per le attività svolte dalla moglie.
Al tempo dei Longobardi questo emolumento ammontava ad un quarto dei beni del marito, poi aumentato ad un terzo, presso i Franchi. Di qui il nome tercia.
La tercia inoltre concedeva alla donna un diritto, per l’epoca, rivoluzionario, per cui il marito non poteva disporre della moglie, senza consenso della stessa.
Nel 1143 i Consoli abolirono questo diritto,
scontentando non poco le mogli, che ne ottennero la sostituzione, con un compenso comunque non superiore alle 100 lire genovesi.
Per ovviare a questa novità le Grandi Casate nobiliari stipularono, con appositi atti notarili, dei veri e propri contratti prematrimoniali e matrimoniali.

Storia di Magistrature portuali…

… di quella di “Credenza”… e dello Stendardo.
Nel 1281, per la prima volta, negli Annali, si fa menzione dei “Salvatores portus et moduli”.
Genova si dota di un’apposita magistratura destinata ad occuparsi delle faccende portuali, a proposito delle quali, ha pieni poteri.
Per quanto concerne invece la navigazione e le navi, la competenza spetta all’Ufficio di Oltremare e, più tardi, a quello di Gazaria (Colonie).
Dal 1340, per volere del primo Doge Simone Boccanegra, la magistratura del Porto viene gestita dai Padri del Comune, dieci membri di provato prestigio, eletti ogni due anni dai Serenissimi Collegi e dal Minor Consiglio.
Costoro si dividono in due gruppi speculari:
Conservatori del Mare, il primo, esperti di navigazione e Conservatori del Patrimonio, il secondo, preposti a tutte le attività inerenti la manutenzione e il decoro della città (strade, acquedotto, fognature, arredi urbani).
Nonostante le specifiche aree di pertinenza, nelle cerimonie pubbliche, formano un corpo unico. Nel 1282, in vista degli scontri contro Pisa, la Dominante crea un’altra Magistratura, quella detta di “Credenza”, un vero e proprio Consiglio di Guerra.
Tra i vari provvedimenti presi, si delibera che, per issare il Vessillo di S. Giorgio, debba costituirsi una flotta di almeno dieci galee, armate in assetto da guerra, dotate di Balestrieri e comandate da un ammiraglio.
In assenza di tali requisiti, il comando spetta al capitano che però, per nessuna ragione, è autorizzato a portare lo stendardo a bordo.
In copertina: dettaglio della “Veduta di Genova” nel 1482 realizzata da Cristoforo Grassi nel 1597.

La tela appresenta l’imponente spiegamento navale in occasione del rientro l’anno successivo della spedizione di Otranto del 1481(occupata dai turchi) voluta da papa Sisto IV  e condotta dal cardinale genovese Paolo Fregoso. Museo Galata Genova.

Storia di coraggio e orgoglio…

Tratto dal libro “La Repubblica di Torriglia” di G.B Canepa, nome di battaglia Marzo, riporto questo passo da brividi.
È la cronaca del primo incontro in Liguria, fra un rappresentante dell’Alto Comando tedesco e quello di un Commissario Partigiano, Amino Pizzorno, Attilio sul fronte:
“L’incontro ebbe luogo nei pressi delle gole del Pertusio, a un tiro di schioppo dal posto di blocco di Cantalupo; e fu lì che all’ora fissata si presentò un maggiore delle SS accompagnato da un ufficiale dell’esercito italiano che fungeva da interprete.
“Il Signor maggiore”, cominciò a tradurre l’ufficiale, “vi fa sapere che proponendo questo incontro ha inteso riconoscere in voi dei veri soldati, coraggiosi e leali ma lealtà e coraggio non bastano per sostenere una lotta che è assai dura e col prossimo inverno diverrà ancora più dura… Vi rendete conto?
Scarseggeranno i viveri… mancheranno i medicinali… non potranno rifornirvi di munizioni: troppo impari è la vostra lotta…”
Il maggiore aveva parlato intercalando lunghe pause, con un tono di voce che voleva sembrare paterno, come se fosse preoccupato della nostra situazione; e ora, per riprendere il discorso, attendeva che Attilio dicesse qualcosa ma Attilio non levava lo sguardo severo dall’interprete; si stabilì così un lungo silenzio, finché il maggiore finì per impazientirsi e con un tono più deciso, senza interrompersi riprese:

“L’Alto Comando mi ha incaricato di dirvi che se consegnerete le armi garantirà la vita per voi tutti, ufficiali e soldati: una garanzia scritta, con la firma dell’Alto Comando tedesco, in questo modo potrete rivedere le vostre famiglie, ritornarvene a casa.
Nessuno oserebbe più molestarvi con tale garanzia…”
Ma Attilio, scandendo ogni parola, l’interruppe e rivolgendosi all’ufficiale disse:
“Riferisca che le armi noi le abbiamo tolte a voi altri, fascisti e tedeschi e le abbiamo tolte per servircene: se le rivolete abbiate il coraggio di venirvele a prendere.”
Il maggiore allora rosso in volto, con rabbia si rivolse al traduttore, e quegli subito si accinse a tradurre:
“L’Alto Comando farà arrivare in Trebbia dei Mongoli, un’intera divisione di mongoli proveniente dall’Ossola.
In quelle valli non hanno risparmiato nessuno, neppure le donne, neppure i bambini, sono delle bestie, lo sapevate questo?
E dunque anche qui non risparmieranno nessuno, e la responsabilità di questi orrori….”
Ma Attilio già gli aveva voltato le spalle, e mentre quei due, interdetti, lo guardavano allontanarsi, senza affrettarsi, raggiunse il posto di blocco.
Mi disse poi che a interrompere così bruscamente il colloquio l’aveva spinto soprattutto il fatto che un italiano, senza vergognarsi, si prestasse a tradurre le ignobili minacce del tedesco.
Questo racconto, a mio parere, è di una potenza disarmante, come pochi altri, esprime l’orgoglio di quei ragazzi.
Inoltre, in questo frangente, per la prima volta l’Alto Comando riconosce ai Partigiani lo “status” di esercito regolare.


Circa un anno dopo sarà l’Alto Comando tedesco, nella persona del Generale Meinhold, a firmare, presso Villa Migone quella stessa resa che avrebbe voluto imporre ai genovesi in quella circostanza.
I Mongoli scateneranno si l’inferno e si macchieranno dei crimini promessi ma verranno sconfitti.
Infine quel “… abbiate il coraggio di venirvele a prendere”, volente o nolente rievoca in tutta la sua fierezza il ” Molon labe’” (venite a prenderle), di Leonida ai Persiani presso le Termopili.

“In località Fascia in provincia di Genova al confine tra la Val Trebbia e la Val Borbera si trova il monumento in foto dedicato ad Aldo Gastaldi (Bisagno) e Aurelio Ferrandi (Scrivia) e alle loro rispettive brigate”.

 

Storia di un cardinale… prima parte…

… molto… molto speciale…
Nel maggio 1938 Benito Mussolini, pochi giorni dopo aver ospitato in Italia Adolf Hitler transitato in treno anche da Genova, ritorna per la seconda volta (durante la prima nel 1926 aveva decretato la nascita della Grande Genova) in veste di Capo di Governo la nostra città.
Nello stesso periodo Papa Pio XI, al fine di rafforzare il presidio ecclesiastico cittadino, designa in qualità di arcivescovo di Genova, il cardinale Pietro Boetto, prelato gesuita apertamente antifascista.
Boetto mette piede, per la prima volta a Genova, scendendo alla stazione di Piazza Principe completamente imbandierata di svastiche e fasci littori.
Il cardinale non si intimorisce e, per tutto il corso della seconda guerra mondiale, si attiva a salvare migliaia di ebrei, aderendo all’associazione clandestina Delasem e finanziandola con rendite personali e della curia.
A capo di questa attività pone il suo segretario, il fido don Repetto.
Costui si occupa di dare asilo ai profughi nei conventi e nelle chiese cittadine e procura loro documenti falsi al fine di poter raggiungere o il Sudamerica via nave o, soprattutto, via treno, Svizzera e Nord Europa, Svezia in particolare.
A chi, all’interno della curia manifesta perplessità e paure per la pericolosa iniziativa risponde:”Non sono forse esseri umani come noi?… e Gesù non era forse un ebreo?
Questo è il primo motivo per cui l’umanità gli è debitrice e, per cui la Comunità ebraica, lo ha insignito, post mortem, del titolo “Giusto fra i Giusti”…. poi ce n’è un secondo, per cui, a essergli debitori, siamo noi genovesi, tutti ….ma questa è un’altra storia…

Fine prima parte… continua…

Storia dei Liguri…

… e della loro reputazione nell’antichità…

Da Tacito a Svetonio, da Posidonio a Diodoro Siculo, da Livio a Sallustio, fino a Plutarco, sono tutti concordi nel descrivere i Liguri come una selvaggia e combattiva popolazione montana:
Racconta, ad esempio, Diodoro: “I Liguri che abitano questa regione coltivano una terra sassosa e del tutto sterile che, in cambio delle cure e degli sforzi sofferti dai nativi, offre pochi frutti utili alla sopravvivenza.
Perciò gli abitanti sono resistentissimi alle fatiche e, per il continuo esercizio fisico, vigorosi; giacché, ben lontani dall’indolenza generata dalle dissolutezze, sono sciolti nei movimenti ed eccellenti per vigore negli scontri di guerra”.
Anche il celebre tragico greco Eschilo, nel suo “Prometeo Liberato”, ne racconta le caratterische quando il protagonista, per ricompensare Ercole, il quale ha ucciso L’Aquila che lo tormentava, gli preannuncia il cammino che dovrà percorrere e le insidie che incontrerà nel sostenere le ultime fatiche:
“Incontrerai l’intrepido esercito dei Liguri, contro i quali, sappilo, per quanto tu sia forte, la lotta non ti sarà facile.
È destino che nel combattimento ti vengano a mancare i dardi, né sul terreno potrai trovare alcuna pietra con cui difenderti, poiché colà il suolo è tutto acquitrinoso.
Ma, vedendoti in difficoltà, Zeus avrà pietà di te: adunerà sotto il cielo cupi e pesanti nembi e coprirà il terreno con una grandine di pietre arrotondate con cui potrai respingere e inseguire l’esercito dei Liguri.”
Posidonio, invece, si sofferma sui Liguri marittimi, i genovesi, che: “… sono coraggiosi e nobili non solo in guerra ma anche in quelle circostanze della vita non scevre di pericolo.
Come mercanti solcano il mare di Sardegna e quello Libico, slanciandosi coraggiosamente in pericoli senza soccorso… sopportano le più paurose condizioni atmosferiche che l’inverno crea tremendamente”.
Per i Greci, i Liguri, degni di Ercole, per i Romani, signori del mare

Virgilio nelle “Georgiche” definisce il ligure “adsueto malo ligurem”, avvezzo alle difficoltà.
Non a caso, Asterix e Obelix, quelli veri, erano Liguri, ed hanno respinto Roma per oltre un secolo, risultando, fra tutte, la più ostica fra le conquiste imperiali…
Ma questa è un’altra storia…