S. Marco al Molo… non solo storia di un leone…

Con lo sviluppo delle attività marittime la famiglia Striggiaporco ottenne nel 1173 dal Vescovo Ugo Della Volta il permesso di erigere una nuova chiesa nel quartiere portuale del Molo. Curioso il fatto che il suo promotore volle intitolarla al santo protettore della rivale Venezia. All’ingresso della chiesa sulla sua tomba i suoi eredi, nel frattempo confluiti nell’albergo dei Salvago, nel ‘500 posero una lapide in ricordo del fondatore.

In origine l’accesso all’edificio di pietra in stile romanico era rivolto ad ovest e la chiesa si stagliava direttamente sui prolungamenti dei moli aggrappati alla scogliera. All’inizio del XIV sec. ne fu parroco il primo cartografo genovese di cui si abbia notizia, Giacomo da Carignano il quale, oltre ad essere uomo di chiesa e di scienza, fatto al tempo inconsueto, era anche personaggio attento agli affari: nel 1314 infatti venne diffidato dall’Arcivescovo Porchetto Spinola per aver affittato alcuni locali della chiesa ad uso marittimo a privati cosa che, con la successiva benedizione e copertura della Curia romana, continuò impunemente a fare.

“Il campanile di S. Marco spunta sulle mura della Marinetta”.

L’edificio fu oggetto a lavori  di manutenzione nel ‘400 ma fu nel ‘500 che operò le principali trasformazioni venendo inglobato nella più recente, a quel tempo, cinta muraria culminata con l’erezione della poderosa Porta Siberia.  Le mura della Marinetta costeggiandola lungo tutto il lato a nord la separarono dal contatto diretto con i moli ai quali rimase collegata, come per mezzo di un materno cordone ombelicale, attraverso la Porta della Marinetta. Fu in questa occasione che l’esposizione della chiesa venne ridisegnata e disposta al contrario. Quello che oggi è l’ingresso un tempo costituiva l’abside.  Sul finire del ‘500 e per tutto il ‘600 S. Marco al Molo subì continue modifiche e rifacimenti culminati con la settecentesca versione barocca.

“All’interno della chiesa”.

Fino ancora a gran parte dell’800, essendo il Molo la sede delle esecuzioni capitali, S. Marco costituiva l’ultima tappa del macabro corteo che partiva dal Palazzetto Criminale per snodarsi lungo le vie del centro e ricevere qui l’ultima benedizione. A testimonianza di questo spiacevole compito una lapide del 1654 rammenta come il parroco della chiesa si fosse assunto l’onere di celebrare messa in suffragio perpetuo per i condannati ogni sabato e il 2 novembre di ogni anno.

A seguito dei restauri  resisi necessari a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale sono stati riscoperti colonne ed archi romanici originali, le tracce dell’antica abside, a conferma di quanto sopra affermato, ovvero che la chiesa avesse un diverso orientamento rispetto a quello attuale e i resti della base ottagonale dell’antica torre demolita nel 1783 perché pericolante. Venne successivamente sostituita con l’attuale campanile a torre.

 

“Madonna fra i santi e le anime del Purgatorio sull’altare maggiore”.

Il campanile originario della chiesa romanica era in realtà una “torre nolare“, in quanto incorporata nella struttura dell’edificio principale, tipica del romanico primitivo; di forma ottagonale simile a quello della chiesa di S. Donato.

 

“Il bassorilievo del leone di Pola incastonato nella parete esterna della chiesa. Foto di Leti Gagge”.

Interessante il piccolo distacco di via del Molo, risalente al 1594, che accoglie il portico medioevale costruito nel 1346 a ridosso di quella che era allora l’abside della chiesa e che era utilizzato per le riunioni della “conestagia” (circoscrizione amministrativa popolare della Genova medioevale, sorta in contrapposizione di quella nobile degli “alberghi“). Ne costituiscono indelebile traccia le arcate, tamponate e le colonne in pietra accorpate nella muratura.

“Madonna tra i santi Nazario e Celso dello Schiaffino”.

Se l’esterno si presenta quindi anonimo e, ad eccezione di qualche lapide e del celebre leone di Pola, non merita menzione l’interno al contrario, diviso in colonne a lesene bianche e nere, ornate da capitelli cubici, è ricco di sorprese e custodisce opere d’arte di pregevole fattura:

 

“Particolare dell’Assunta del Maragliano”.
“Particolare della Madonna tra i santi Nazario e Celso dello Schiaffino”.

vicino alla parete d’ingresso, ”l’Assunta”, statua lignea, parte di una preziosa cassa processionale, di Anton Maria Maragliano (1736); presso il secondo altare della navata destra, “Madonna e i santi Nazario e Celso”, gruppo marmoreo di Francesco Maria Schiaffino (1735), commissionato dalla prestigiosa e potente corporazione, come indicato da un’iscrizione presso lo stesso altare, degli Stoppieri (maestri calafati).

“Le Anime purganti di Giulio Benso. Immagine tratta dal sito arteantica.eu”.
“Martirio di Santa Barbara del Fiasella”.

Tra i dipinti si notano: “Martirio di Santa Barbara”, opera giovanile di Domenico Fiasella (1622), commissionato corporazione detta dei Bombardieri (addetti alla costruzione e all’uso delle artiglierie), i “Santi Agostino e Chiara “di Antonio Giolfi, “Nozze mistiche di Santa Caterina” di Orazio De Ferrari (1630 circa) e “Anime purganti”, dipinto seicentesco attribuito a Giulio Benso.

“Nozze mistiche di Santa Caterina di Orazio De Ferrari. Immagine tratta dal sito arteantica.eu”.

Nella cappella alla destra del presbiterio infine, un altare in marmo di Daniello Solari (fine del XVII secolo), dedicato alla Madonna del Soccorso raffigurata, racchiusa in una scenografica cornice marmorea, in una tavola di Giovanni Carlone.

S. Marco al Molo non solo storia di un leone.

La chiesa dove splende sempre il sole…

Fuori dalle Mura del Barbarossa, costruite fra il 1155 e il 1163, si trovava la zona militare dove si esercitavano i balestrieri. Tale spazio era detto del “Vastato o Guastato” perché stava ad indicare i luoghi dei “guasti”, ovvero dei lavori di demolizioni e spianate attorno alle mura. Il Vastato e l’attiguo “burgus de praedis” (borgo di Prè) divennero così i siti prescelti per allestire campi di simulazione e allenamento funzionali alle attività belliche. Qui nel tratto compreso fra i due rivi, oggi sotterranei, di Carbonara e Vallechiara, esisteva dal 1228 una piccola chiesa denominata S. Marta del Prato, sulle cui fondamenta verrà successivamente eretta la maestosa Basilica dell’Annunziata. Nel 1508 i frati conventuali di S. Francesco, gli stessi del Castelletto e di Albaro vi si insediarono ed iniziarono i lavori di costruzione ed ampliamento del nuovo edificio intitolandolo al loro patrono, Francesco d’Assisi. Nel 1537 i francescani traslocarono e si ritirarono nella casa madre in S. Francesco del Castelletto. Furono sostituiti dagli Osservanti del convento della Santissima Annunziata di Portoria che ne mutarono il nome in Santissima Annunziata del Vastato. Sul finire del ‘500 i Frati, per ottemperare alle nuove disposizioni emanate dal Concilio di Trento, furono costretti a rinnovare la struttura. Le spese previste erano però di gran lunga superiori alle loro possibilità economiche così cedettero il giuspatronato della cappella maggiore alla potentissima e munifica famiglia dei Lomellini. La nobile e antica casata, padrona della colonia tunisina di Tabarca in cui esercitava la pesca del corallo, aveva accumulato immense ricchezze e non ebbe difficoltà a finanziare i lavori. Costoro ingaggiarono i maggiori artisti del ‘600 genovese; a Taddeo Carlone, Giacomo Porta e Domenico Casella (il cui soprannome “Scorticone” descrive bene il carattere rissaiolo dell’artista) furono affidate le principali opere strutturali e la direzione dei lavori. A questi si aggiunse il fior fiore, il gotha, delle maestranze genovesi del ‘6oo, la cui rinomata scuola aveva da tempo varcato i confini repubblicani: Giovanni e Giovanni Battista Carlone, Gioacchino Assereto, Domenico Piola, Luca Cambiaso, Giovanni Battista Paggi, Gregorio De Ferrari, Andrea Semino, Aurelio Lomi, Giovanni Andrea De Ferrari, Il Guercino, Luciano Borzone, i marmisti il marsigliese Pellè e il già citato Giacomo Porta, Procaccini, Bernardo Strozzi, lo scultore Tommaso Orsolino.

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“La principale delle tre navate della Basilica”. Foto di Leti Gagge.

La decorazione della cupola venne affidata ad Andrea Ansaldo che vi si dedicò nei tre anni antecedenti la morte, avvenuta a soli 54 anni, dipingendola con la magnifica scena dell’Assunzione. Per tutto il ‘700  le vicende della chiesa ruotarono attorno alle fortune della schiatta dei Lomellini che, estinguendosi nel 1794, non assistettero all’umiliazione della confisca della struttura, infelice conseguenza dell’effimera e neonata Repubblica Ligure del 1797.

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“Nella cupola sopra l’altare l’Annunciazione di Andrea Ansaldo”. Foto di Leti Gagge.

I frati, in base alle disposizioni napoleoniche, abbandonarono il convento nel 1810 e vi fecero ritorno  solo nel 1815 quando ospitarono Papa Pio VII, di passaggio in città e in viaggio verso Roma, dopo la prigionia francese. Il Pontefice vi celebrò con solenni e memorabili funzioni l’Ascensione il 4 e la Pentecoste il 14 maggio.

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“Il Pronao della facciata neoclassica disegnato dal Barabino e completato dal Resasco”. Foto di Leti Gagge.

La scenografica facciata neoclassica con l’ormai familiare pronao caratterizzata da sei colonne in stile ionico, costituisce l’intervento strutturale più recente, essendo stato portato a termine nel 1867 sulla base dei progetti dell’architetto Carlo Barabino e del suo successore Giovanni Battista Resasco (i due colleghi e amici avevano anche realizzato il Cimitero Monumentale di Staglieno).

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“Particolari dei cicli pittorici della volta”. Foto di Leti Gagge.

La Basilica dell’Annunziata rappresenta la summa, il capolavoro del Barocco genovese; l’effetto d’insieme è abbagliante, un tripudio di marmi, stucchi, affreschi, ornamenti in oro zecchino, ogni singolo centimetro è decorato come si conviene. Sembra sempre che vi splenda il sole, un’irruzione dirompente e artificiale dai riflessi abbacinanti. Il celebre filosofo francese Montesquieu visitandola, ne rimase talmente affascinato, da definirla “la più bella chiesa di Genova”.  Molti furono le personalità attratte dalla bellezza della Basilica ma la descrizione, a mio parere più appropriata, rimane quella  che ne tracciò il letterato parigino Adolphe Karr.

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“La volta dorata e affrescata”. Foto di Leti Gagge.

«…l’ Annunziata ha l’interno tutto dorato, tutto letteralmente, e i giorni di festa le colonne di marmo sono rivestite di damasco o velluto crimisi a frangie d’oro». Lo scrittore osserva la sostanziale differenza che contraddistingue le chiese genovesi da quelle francesi. In Francia la luce penetra misteriosamente e crea una «…dolce musica di colori che si armonizza con la musica dell’organo…», grazie alla forma ogivale delle finestre ed alla presenza di grandi vetrate. In Italia, invece, le volte basse e quadrate e la presenza di grandi finestre permettono al sole di entrare bruscamente, senza creare quella dolce armonia tanto cara al transalpino che, a proposito dello stile di vita genovese, prosegue «…non si mangia e non si dà da mangiare, non ci si veste e si va a una chiesa o un palazzo. La chiesa d’oro e il palazzo di marmo».

Non la pensava diversamente lo scrittore americano Mark Twain che nei suoi appunti annotava:

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“Gli interni”. Foto di Leti Gagge.

 potrei dire che la chiesa dell’ Annunziata è una foresta di bellissime colonne, di statue, di dorature, di dipinti quasi senza numero, ma non darei un’idea esatta della cosa, e a che servirebbe? Fu costruita interamente da un’antica famiglia, che vi esaurì il suo denaro. Ecco dov’è il mistero. Avevamo idea che solo una zecca sarebbe sopravvissuta alla spesa…».

Durante la Seconda Guerra Mondiale l’Annunziata subì diversi bombardamenti, il più grave dei quali, quello del 29 ottobre 1943, causò danni irreparabili e la perdita degli importanti cicli pittorici di Domenico Fiasella.

I lavori di ripristino condotti nel dopoguerra hanno riconsegnato la Basilica al suo antico splendore  e restituito, ai suoi ammiratori, legittimo orgoglio e giustificato stupore.

Se, come disse Carlo V a proposito del suo impero, a sottolinearne la vastità, “nel mio regno non tramonta mai il sole”, lo stesso si può dire della Nunziata di Genova, la chiesa “dove risplende sempre il sole”.