Vico degli Adorno

Vico degli Adorno si trova, collocato nei pressi di Via del Campo, nel cuore del ghetto medievale ebraico.

Il nome del vico trae origine dalla famiglia Adorno proveniente da Taggia che giunse a Genova intorno al 1186 e che, appartenente alla fazione ghibellina, diede alla Repubblica sette Dogi.

Fra i numerosi esponenti di questa illustre casata spicca l’illuminata figura di Anselmo, un cavaliere, mercante e uomo politico genovese trapiantato nei Paesi Bassi, che si rese protagonista di diverse avventurose missioni diplomatiche per conto del Duca (fra i vari titoli di Borgogna, Lussemburgo, Fiandre e Olanda) Carlo il Temerario.

In Copertina: Vico degli Adorno. Foto di Stefano Eloggi.

Edicola della Madonna Regina

Al civ. n. 3 di Via del Campo è possibile ammirare l’edicola della Madonna Regina.

La composizione, priva della statua rubata, è realizzata con scenografici stucchi policromi.

Ai lati gli ampi riccioli contengono il fastigio con tre teste di cherubini alati.

Nel cartiglio in alto è incisa l’epigrafe Regina, in quello in basso sulla base, Mater Misericordia.

La secentesca edicola è protetta da un tettuccio in ardesia.

“A l’è cheita ‘na bagascia in maa…”

sensa bagnase…

“Le prostitute non potevano entrare nel porto, o salire a bordo delle navi: avrebbero distratto i camalli o i marinai” (definizione tratta dal Dizionario Italiano Genovese).

 Per questo pratico motivo quando si ritiene che una cosa sia impossibile e che non possa mai accadere si dice: “Una prostituta è caduta nel mare (del porto) senza bagnarsi”. Eppure grazie ai proventi del loro operato Genova nel ‘600 come, oltre ai libri di storia, ci ricorda Faber in “A Dumenega”, si è costruita il molo nuovo:

“Quandu ä dumenega fan u gíu
cappellin neuvu neuvu u vestiu
cu ‘a madama a madama ‘n testa
o belin che festa o belin che festa
a tûtti apreuvu ä pruccessiún
d’a Teresin-a du Teresún
tûtti a miâ ë figge du diàu
che belin de lou che belin de lou

e a stu luciâ de cheusce e de tettín
ghe fan u sciätu anche i ciû piccin
mama mama damme ë palanche
veuggiu anâ a casín veuggiu anâ a casín
e ciû s’addentran inta cittæ
ciû euggi e vuxi ghe dan deré
ghe dixan quellu che nu peúan dî
de zeùggia sabbu e de lûnedì

“e u direttú du portu c’u ghe vedde l’ou
‘nte quelle scciappe a reposu da a lou
pe nu fâ vedde ch’u l’è cuntentu
ch’u meu-neuvu u gh’à u finansiamentu
u se cunfunde ‘nta confûsiún
cun l’euggiu pin de indignasiún
e u ghe cría u ghe cría deré
bagasce sëi e ghe restè”.

“Le signorine aspettano i clienti nei bassi della Maddalena”.

Le Bagasce che popolano la galleria di personaggi di De André non sono semplici comparse ma assurgono al ruolo di protagoniste assolute.

Il viaggio inizia con la bucolica fanciulla di “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers ” in cui…

“Veloce lo arpiona la pulzella
repente una parcella presenta al suo signor
“deh, proprio perché voi siete il sire
fan cinquemila lire, è un prezzo di favor”.
“E’ mai possibile, porco d’un cane,
che le avventure in codesto reame debban risolversi sempre con grandi puttane”.

Prosegue in “Via del Campo”, dove s’incontra…

“una graziosa
gli occhi grandi color di foglia
tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa.

Via del Campo c’è una bambina
con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina.

Via del Campo c’è una puttana
gli occhi grandi color di foglia
se di amarla ti vien la voglia
basta prenderla per la mano

e ti sembra di andar lontano
lei ti guarda con un sorriso
non credevi che il paradiso
fosse solo lì al primo piano”.

Continua poi con la pubblica moglie della” Città Vecchia” in cui

“una bimba canta la canzone antica
della donnaccia
quel che ancor non sai tu lo imparerai
solo qui fra le mie braccia

E se alla sua età le difetterà la campetenza
presto affinerà le capacità con l’esperienza
dove sono andati i tempi d’una volta, per Giunone
quando ci voleva per fare il mestiere
anche un po’ di vocazione?

Vecchio professore cosa vai cercando
in quel portone
forse quella che sola ti può dare
una lezione
quella che di giorno chiami con disprezzo
pubblica moglie
quella che di notte stabilisce il prezzo
alle tue voglie.

Tu la cercherai tu la invocherai
più d’una notte
ti alzerai disfatto rimandando tutto
al ventisette
quando incasserai delapiderai
mezza pensione
diecimila lire per sentirti dire
“micio bello e bamboccione”.

Abbandonati momentaneamente i caruggi si sale a S. Ilario per incontrare Maritza una bella istriana.

“La chiamavano bocca di rosa
Metteva l’amore, metteva l’amore
La chiamavano bocca di rosa
Metteva l’amore sopra ogni cosa.

C’è chi l’amore lo fa per noia
Chi se lo sceglie per professione
Bocca di rosa né l’uno né l’altro lei lo faceva per passione”.

Ma Fabrizio non si accontenta della cruda realtà e confeziona  un vestito per la sua “Marinella” del tessuto più prezioso, la dignità…

“Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella,

questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose.

“Fondi nei caruggi”.

Si vaga nella casbah di un qualunque porto mediterraneo il regno dell’esotica mulatta Jamina, la sultana delle bagasce…

“Lengua ‘nfeuga Jamin-a
Lua de pelle scûa
Cu’a bucca spalancà
Morsciu de carne dûa
Stella neigra ch’a lûxe
Me veuggiu demuâ
‘Nte l’ûmidu duçe
De l’amë dû teu arveà
Ma seu Jamin-a
Ti me perdunié
Se nu riûsciò a ésse porcu
Cumme i teu pensë

Destacchete Jamin-a
Lerfe de ûga spin-a
Fatt’ammiâ Jamin-a
Roggiu de mussa pin-a
E u muru ‘ntu sûù
Sûgu de sä de cheusce
Duve gh’è pei gh’è amù
Sultan-a de e bagasce
Dagghe cianìn Jamin-a
Nu navegâ de spunda
Primma ch’à cuæ ch’à munta e a chin-a
Nu me se desfe ‘nte l’unda

E l’ûrtimu respiu Jamin-a
Regin-a muaé de e sambe
Me u tegnu pe sciurtï vivu
Da u gruppu de e teu gambe”.

Un viaggio che termina con l’amaro in bocca sul lungomare di Bahia:

“E io davanti allo specchio grande
Mi paro gli occhi con le dita a immaginarmi
Tra le gambe una minuscola fica…

Nella cucina della pensione
Mescolo i sogni con gli ormoni
Ad albeggiare sarà magia
Saranno seni miracolosi

Perché Fernanda è proprio una figlia
Come una figlia vuol far l’amore.

E allora il bisturi per seni e fianchi
In una vertigine di anestesia
Finché il mio corpo mi rassomigli
Sul lungomare di Bahia…

Sul palcoscenico della mia vita

Dove tra ingorghi di desideri
Alle mie natiche un maschio s’appende
Nella mia carne tra le mie labbra
Un uomo scivola l’altro si arrende”.

Perché De Andrè in fondo, sapendo che le donne sono diamanti plasmate nel letame, riscatta e nobilita la figura della prostituta dipingendola con grande umanità…

“Mentre lui le insegnava a fare l’amore
lei gli insegnava ad amare”.

Storia degli Ebrei e del ghetto a Genova…

La prima comunità ebraica, il cui nucleo era composto da circa trecento sefarditi, si costituì nell’anno 1493 quando molti di loro furono espulsi dalla Spagna tornata nell’orbita cattolica.
Provenienti da Barcellona dove si erano imbarcati alla volta dell’Africa e dell’Oriente, approdarono nel nostro porto.
Gli fu concesso di sostare nella nostra città dove trovarono impiego come personale di servizio presso le grandi famiglie genovesi, per un periodo non superiore all’anno.
All’inizio del ‘500 il governatore francese impose loro, per poterli riconoscere, la coccarda gialla.
I più apprezzati furono medici, commercianti e prestatori di pegno che, presto, ottennero ampie proroghe al proprio soggiorno.
Nel 1656 Genova, colpita dalla peste, vide la propria popolazione dimezzarsi (da 180 a 90 mila abitanti).
Per incentivare la ripresa economica la Superba ne favorì l’insediamento destinando loro il ghetto che comprendeva la zona di Via del Campo, Untoria, Croce Bianca e Piazzetta Fregoso.
Il quartiere venne cintato da cancelli e decorato con numerose edicole votive e crocifissi per ricordare loro l’inferiorità e la necessità del pentimento.
Le chiavi del ghetto erano custodite dai Massari che vigilavano affinché fosse interdetto ogni rapporto, al di là di quello commerciale, con i locali.
Gli fu concesso diritto di sepoltura (presso la Cava) e il permesso di costruzione della Sinagoga.
Dovevano però, in occasione di particolari funzioni, al fine di espiare le proprie colpe, presenziare alle messe presso le Chiese delle Vigne o di S. Siro.
Il ghetto venne poi spostato in Vico Malatti presso il quartiere del Molo e nel 1674 trasferito definitivamente in Piazza dei tessitori (zona sopra Piazza delle Erbe).
Negli annali, a parte sfottò e lanci di ortaggi, non sono annotati fatti di particolare violenza o intolleranza a riguardo.
Il ghetto venne abolito, a seguito delle nuove idee illuministe nel 1752, ma i diritti civili vennero pienamente riconosciuti agli Ebrei solo nel 1848 sotto il regno Sabaudo di Carlo Alberto.
 
In copertina “Il cambiavalute” quadro di Rembrandt.