Il Dito Medio

L’usanza del dito medio alzato come insulto risalirebbe alla Guerra dei Cent’anni tra inglesi e francesi: i figli di Albione stavano vincendo la guerra grazie a continue scorribande nel territorio francese.

I francesi si avevano una ben organizzata cavalleria, ma gli inglesi vantavano un altrettanto efficiente contingente di arcieri.

Ad esempio nel 1346 a Crecy l’esercito francese subì pesanti perdite di cavalieri sotto una copiosa grandinata di frecce inglesi. In quell’occasione i Balestrieri genovesi al soldo di Giovanni II re di Francia furono presi di sorpresa e, causa la velocità dell’azione nemica nello scagliare dardi con inimmaginabile frequenza, non riuscirono a proteggere la tanto temuta cavalleria transalpina.

Migliaia di Balestrieri genovesi al diretto comando dei generali Doria e Grimaldi furono sconfitti – ad onor del vero – non solo dalla nefasta parabola delle frecce nemiche ma soprattutto dall’utilizzo, per la prima volta, delle rumorose e defragranti bombarde britanniche. Ripiegando in ritirata i Balestrieri furono travolti dalla cavalleria stessa mentre fuggiva spaventata per quegli spaventosi e sconosciuti boati.

E’ nella battaglia di Agincourt nel 1415 che apparve il saluto a “due dita”.
I francesi, con la loro superiorità numerica, prevedevano una facile vittoria.

Il consiglio di guerra emanò una direttiva in base alla quale ad ogni arciere inglese fatto prigioniero sarebbe stato tagliato il dito indice e medio poiché queste erano le dita necessarie per tirare indietro la corda.

Purtroppo per i Francesi ad Agincourt gli eventi non si svolsero come sperato ma ci fu invece una decisiva vittoria inglese.

Da qui deriva il gesto denigratorio, non a caso tipico dei paesi anglosassoni, del dito medio e indice alzati con il dorso della mano rivolto all’offeso. Era questo infatti il gesto (con due dita e non con una) che gli arcieri inglesi non catturati dai francesi, mostravano agli avversari prima di ogni battaglia, la classica “V” usata ancora oggi dagli inglesi a mo’ di offesa, da non confondersi con la “V” di “vittoria”, resa celebre da Winston Churchill, in cui a essere rivolto verso l’esterno è il palmo della mano e non il dorso.

Dopo la battaglia, e in quelle successive, gli arcieri inglesi con le loro dita intatte salutavano in questo modo i francesi.
Il gesto era sia un insulto che un monito. Si voleva così ricordare ai francesi che le due dita dell’arciere erano rimaste intatte e che era ancora un avversario da non sottovalutare.

In Copertina: Immagine tratta dal sito A.S.D Compagnia Arcieri Elimi.

Storia del Blue Jeans…

L’origine del tessuto più commercializzato sul pianeta è qui a Genova.
Infatti già in pieno medioevo la saia di color indaco proteggeva, sotto l’armatura, i nostri Balestrieri.
Il commercio su larga scala iniziò a cavallo tra medioevo ed età moderna quando Genova era snodo di importazione di cotone e esportazione di fustagni e tele.
Il colore utilizzato era l’indaco proveniente dal Bengala e da Giava, meglio noto come Blu de Genes in francese e, tradotto in inglese, appunto Blue Jeans.
La Repubblica affidò la lavorazione di questo tessuto che, inizialmente aveva utilizzi prettamente navali, ai piemontesi di Chieri e ai provenzali di Nîmes.
Per questo motivo il Jeans è anche noto come Denim (De Nîmes… per contrazione “Denim”).
Nel nuovo mondo il Jeans divenne l’indumento principe di cercatori d’oro, di minatori e di vaccari, insomma dei cow boys.
Nell’800 continuò ad essere indossato dai portuali e persino da Garibaldi ed i suoi Mille.

"I pantaloni in jeans di Garibaldi con la famosa toppa sulla gamba sinistra".
“I pantaloni in jeans di Garibaldi con la famosa toppa sulla gamba sinistra”.

 


A metà del secolo scorso raggiunse l’apice della popolarità grazie a James Dean, Kerouac e alla Beat Generation.
A testimonianza del legame popolare con la nostra città, un collezionista privato ha raccolto un presepe settecentesco le cui statuine sono vestite con abiti di jeans.
Esistono poi quattordici paramenti sacri cinquecenteschi
dipinti su tela blu, provenienti dall’antica Abbazia di San Nicolò del Boschetto ora conservati presso il Museo Diocesano.

"Particolare della Deposizione di Cristo".
“Particolare della Deposizione di Cristo”.

 

"Seconda sala blu del Museo Diocesano".
“Seconda sala blu del Museo Diocesano”.

Storia di Crociati… di Balestrieri…

tornei… di dita tagliate e occhi strappati.

I Balestrieri genovesi, protagonisti della conquista di Gerusalemme, costituirono il corpo scelto più temuto del Medio Evo.

I Crociati nostrani, insieme a quelli fiamminghi e provenzali, rimasti a guardia del Tempio, diedero origine al secolare ordine dei Templari.

"Balestrieri genovesi all'assalto delle mura".
“Balestrieri genovesi all’assalto delle mura”.

 

Si esercitavano nella zona del Vastato (o “Guastato”), dove oggi sorge la chiesa dell’Annunziata, partecipavano a veri e propri tornei di selezione banditi in tutta la Repubblica.

Dovevano avere una certa prestanza e soprattutto una notevole mira per utilizzare la “manesca” (nome della balestra genovese) e scagliare i loro dardi fino a quattrocento metri di distanza con precisione assoluta.

"Balestrieri genovesi impegnati nella battaglia di Crécy".
“Balestrieri genovesi impegnati nella battaglia di Crecy del 1346”.

 

La paga era cospicua ma i contratti rinnovati annualmente. Per poter issare lo stendardo di S. Giorgio dovevano salpare almeno cinque galee in assetto da guerra con almeno una “Bandiera” per legno, a bordo.

La “Bandiera” era una formazione di venti balestrieri comandata da un “Conestabile”. I francesi in particolare, ma anche quasi tutti gli altri eserciti europei, li noleggiavano pagando lauti compensi alla Repubblica.

I contingenti potevano raggiungere anche qualche migliaio di individui e, fino all’avvento della polvere da sparo, erano considerati un po’ i “marines” del loro tempo.

Addirittura Federico II, catturatone una formazione nel 1247, fece loro mozzare le dita e orbare gli occhi perché non potessero più nuocere in battaglia.

Il loro utilizzo toccò l’apice durante la Guerra dei Cent’anni a fianco dei francesi e perdurò ancora per gran parte del Cinquecento.

Oggi la Compagnia dei “Balestrieri del Mandraccio” con sede nella Casa del Boia si occupa di mantenerne viva la storia attraverso accurate rievocazioni in costume.

Storia di una Croce, di una Bandiera…

di un re, di un viaggio… di un Vessillo, il VESSILLO.

Già nel 700 d. C. era presente in città una guarnigione di soldati bizantini che aveva il compito di mantenere le coste libere da scorrerie piratesco musulmane.
Erano così ben integrati e accetti nel tessuto sociale cittadino che, quando portavano in processione lo stendardo del loro Santo (S. Giorgio) nell’omonima chiesa, a loro si univa spontaneamente la popolazione.
Venerati quindi, da tempi remoti, S. Giorgio e la sua croce, il cui utilizzo è già attestato dal 1096 divennero, dopo le imprese dell’Embriaco nel 1099 simbolo ufficiale della nascente Repubblica.

 

"Il Gonfalone di San Giorgio".
“Il Gonfalone di San Giorgio”.

Nel 1190 Riccardo Cuor di Leone, sovrano d’Inghilterra, chiese ai genovesi navi, marinai, ammiragli e scorte per trasportare il suo esercito a Gerusalemme.
Durante la traversata si accorse che musulmani, turchi, spagnoli, francesi e catalani se ne stavano ben alla larga.
Incuriosito ne chiese il motivo all’ammiraglio Lercari comandante della spedizione, il quale probabilmente dette una risposta simile a questa: “Vede Vostra Maestà, indicando la Croce di S. Giorgio, tutti sanno che chi osa attaccar battaglia contro un legno difeso da questa insegna, incorrerà in morte certa” (il corpo dei Balestrieri, di cui erano dotate le galee genovesi, incuteva infatti rispetto e terrore in tutti i mari).
Il re chiese allora, versando un canone annuale, di poter battere nel Mediterraneo e nel Mar Nero la bandiera genovese, in modo che nessuno osasse attaccar briga.
Dopo un paio di secoli, a seguito dei buoni rapporti instauratisi, i genovesi regalarono agli inglesi l’uso della bandiera che, ancora oggi è simbolo dell’Inghilterra, di Londra e della Marina Militare britannica.
Questa è la versione tramandata dalla successiva storiografia cinquecentesca (Annali del 1537 del Giustiniani) a scopi propagandistici alla quale si affianca un’altra curiosa aneddotica storiella.

Tale leggenda narra che agli inglesi, i genovesi abbiano venduto anche le spoglie del Santo (un Moro imbalsamato vestito da crociato) e addirittura il drago (un gigantesco coccodrillo del Nilo, animale che in Europa pochi conoscevano, anch’esso imbalsamato).

Storie suggestive e affascinanti ma purtroppo non dimostrabili.

Spesso il confine tra storia e leggenda è labile ma, in questo caso, è facilmente tracciabile. Ad oggi infatti, non esiste alcuna prova che attesti  l’esistenza di questo -è il caso di dirlo- sbandierato canone.

Non solo: è inoltre appurato che gli inglesi, come testimoniato dal celebre arazzo di Bayeux (1070/1080) che rappresenta la battaglia di Hastings del 1066 e dalla cronaca della spedizione di conquista di Guglielmo di Poitiers (“Gesta Guillelmi”), usassero ben prima del 1090 la bandiera con croce rossa in campo bianco denominata a quel tempo di San Pietro e solo successivamente di San Giorgio.

È importante infatti precisare che fino al 1242 coesistevano sia la bandiera del Comune (Croce rossa in campo bianco) di San Giorgio, primitivo vessillo di San Pietro, che il vessillo, citato per la prima volta nel 1198, (gonfalone del santo a cavallo che uccide il drago).

Anzi, fino a tale data, il vessillo di San Giorgio era identificato esclusivamente con il gonfalone mentre lo stendardo rosso crociato era associato solo al Comune.

L’associazione del Vessillo di San Giorgio alla rappresentazione della bandiera è quindi posteriore al 1242.

Come detto in altre occasioni, il Vessillo di S. Giorgio inteso come  gonfalone veniva dunque consegnato, dopo solenne processione e cerimonia al capitano della Galea ammiraglia (per poter issare la bandiera dovevano salpare minimo cinque navi in assetto da guerra con a bordo almeno venti balestrieri) al grido di battaglia: “PE ZENA E PE SAN ZORZO”(del quale non vi sono tracce scritte ma che viene tramandato oralmente da secoli), con l’impegno di onorarlo in battaglia e di riportarlo a casa, a qualunque costo.

Nonostante le sconfitte, a volte subite in 500 anni di guerre, il VESSILLO è sempre tornato sano e salvo.
 
“Brano dell’arazzo di Bayeux in cui le navi normanne di Guglielmo il Conquistatore issano il vessillo di San Pietro con la croce rossa in campo bianco”.

In Copertina: il Gonfalone di San Giorgio.

Nei quartieri…

dove il sole del buon Dio non da i suoi raggi… Storia di un famigerato quartiere…
Da tempi remoti fino al 1350, quando venne inglobato nella cinta muraria, il Borgo di Prè era solo un piccolo agglomerato di casupole e chiese di pellegrini lungo la via verso il ponente.
Secondo alcuni l’origine del nome deriverebbe proprio dal fatto che fosse fuori le Mura e quindi noto come contrada dei prati.
Per altri invece l’etimo risalirebbe alla spartizione del bottino da parte dei Capitani di Galea, detti Predoni, al rientro nell’antistante Darsena:
“Burgus de praedis” così veniva infatti identificato negli antichi atti notarili (i cartolari genovesi costituiscono i più antichi testi d’Europa).
Per altri ancora invece, il nome si assocerebbe all’uso militare di tutta l’area adiacente al Vastato (attuale Nunziata, dove un tempo si esercitavano i Balestrieri) detta appunto “Prae castra” (davanti ai campi).
Il Borgo si inerpicava attraverso ripide creuze, costellate di case di legno, fino al Montegalletto e a Pietraminuta (attuali castello D’Albertis e Corso Dogali).
Nel 1606 con il tracciato della grandiosa Via Balbi i campi vennero espropriati, le creuze interrotte, le chiese demolite e l’intero assetto rivoluzionato.
Le costruzioni di Piazza Caricamento prima e Via Gramsci poi, daranno il definitivo carattere
di Via stretta fra la ferrovia portuale e il quartiere universitario.
Territorio conteso nei decenni dalla malavita organizzata per i propri loschi traffici e luogo di piacere per i marinai di mezzo mondo.
Via Prè presenta numerose meraviglie quali, fra le tante, la celebre e omonima Commenda, il Palazzo Reale e i truogoli di Santa Brigida.
I truogoli di Santa Brigida. Foto di Leti Gagge.
 

Storia di Grifoni, Aquile e Volpi…

… di fiero orgoglio genovese… e della sconfitta alemanna.
Federico II, nipote del celebre Federico Barbarossa, riprende il progetto del nonno, ovvero sottomettere Genova con l’aiuto di Pisa e, con le flotte delle due città marinare unite, conquistare il Regno di Sicilia per riportarlo sotto il dominio del Sacro Romano Impero di cui la casata tedesca è legittima erede.
Le armate nordiche, quelle di tutti gli alleati ghibellini confinanti (interessati a sconfiggere la Dominante) da terra, e la flotta pisana dal mare, cingono d’assedio Genova.
La situazione sembra disperata ma i contadini e le plebi dell’entroterra insorgono arginando gli Alemanni e i loro alleati oltre Giogo, i nostri avi forzano il blocco navale pisano e li respingono in mare aperto.
Nel 1248 il re tedesco accampato con il grosso dell’armata nei pressi di Parma verrà sconfitto e ricacciato in Germania anche grazie al decisivo contributo dei seicento Balestrieri genovesi accorsi in aiuto della città amica.
A eterno ricordo della gloriosa impresa le aquile imperiali degli Hohenstaufen sono state poste, a capo chino, a sorreggere la Porta della città (di Santa Fede o dei Vacca che dir si voglia), sorvegliate dai Grifoni.

"Le aquile degli Hohenstaufen poste a capo chino sui capitelli delle colonne "
“Le aquile degli Hohenstaufen poste a capo chino sui capitelli delle colonne per reggere la Porta”., “

Da allora il motto “Griphus ut has angit, sic hostes Janua frangit” (come il Grifone artiglia queste, riferito all’aquila tedesca e alla Volpe pisana, Genova distrugge i suoi nemici) già in voga dal 1193, sarà portato fieramente in battaglia con rinnovato orgoglio sopra lo stendardo, a fianco di San  Giorgio.
Sul finire dell’800 Genova ha voluto ricordare la sua Gloria riproponendolo sotto i portici di Via XX Settembre, la stessa via, dove qualche decennio più tardi, altri tedeschi avrebbero sfilato sconfitti.

Ecco cosa simboleggia per la Signora del Mare che di lì, nell’arco di un secolo sarebbe stata battezzata Superba dal Petrarca, il Grifone: orgoglio, coraggio, libertà!

In Copertina: il motto inciso sotto i portici do via XX settembre.