Quando in via Fiodor

Quando la strada che collegava la circonvallazione a mare con il colle di Carignano ancora non era stata intitolata a Fiodor.

Un’elegante signora passeggia con la carrozzina mentre una coppia di giovani rampolli è alla guida di un calesse.

Di lì a poco persino nel signorile e borghese quartiere di Carignano si sarebbe infatti reso omaggio, intitolandogli la via, al partigiano eroe della Resistenza.

Poletaev Fiodor era un soldato russo che, aggregato alla brigata Pinàn Cichero, trovò la morte il 2 febbraio del 1945 presso Cantalupo.

Costui, al comando di 40 partigiani, affrontò circa un centinaio di tedeschi che stavano tentando di raggiungere Carrega dove si era insediato il comando della Pinàn Cichero. I nazisti decimati dalla strenua difesa della formazione partigiana, si arroccarono all’interno di un casolare.

Fu allora che Fiodor, ormai a corto di munizioni, si lanciò impavido contro il nemico intimandogli la resa.

Colpito a morte stramazzò sulla neve ma, prima di spirare, ebbe ancora la forza di spronare i suoi: “Coraggio, compagni, non pensate a me, fatevi avanti che dovranno arrendersi!”.

Così fu: i tedeschi si arresero e la battaglia fu vinta. Il gigante russo caduto per la libertà fu il primo partigiano straniero ad essere decorato con la medaglia d’oro al valore militare italiano.

Fiodor Poletaev riposa nel cimitero monumentale di Staglieno.

In copertina: cartolina del 1910.

Da Castello di Malvaro al Casun du Stecca

“.. intanto la nostra formazione, che con l’arrivo da Chiavari di numerosi volontari s’era fatta più consistente, s’era spostata a Cichero, nel Casone dello Stecca, una grossa baita sulle pendici del Ramaceto ma a ridosso di Lorsica…”

Cit. da “La Repubblica di Torriglia” di G. B. Canepa il partigiano “Marzo”. F.lli Frilli editore.

Il casun du Stecca, dal nome del contadino che lo aveva generosamente offerto ai partigiani, è il luogo dove si tennero i primi incontri del primitivo nucleo di ribelli della “banda di Cichero”.

Nell’ottobre del ’43 infatti vi si rifugiarono, provenienti da Castello di Malvaro dove non si sentivano più al sicuro, i partigiani che organizzarono la Resistenza nel levante ligure.

“… c’era una baita appollaiata su un costone folto di castagni, in località Rocca di Merlo, dov’erano rifugiati una dozzina di renitenti alla chiamata alle armi e qualche inglese scampato dal vicino campo di prigionieri a Calvari.

I contadini dei dintorni gli portavano patate e farina di castagne: quel poco che potevano dare, che altro non avevano, povera gente; i quattro giovani si sistemano lassù con loro, mentre per tutta la valle e fin giù nelle cittadine rivieraschi, con la presenza a Rocca di Merlo di quel pugno di uomini decisi a far qualcosa, non importa cosa, pur di fare, già si stava acquistando fiducia nel domani e si guardava con commiserazione quei pochi fascisti che, dopo l’8 settembre, avevano ripreso a circolare.

Poi ai primi di ottobre sul monte Antola vi fu in convegno di dirigenti del Movimento di Liberazione, e si cominciò con l’assegnare le zone e a dare le direttive: la più importante era di attaccare e far fuori il maggior numero di fascisti e di tedeschi.

Attaccare con che cosa?

Ebbene, il fatto della mancanza di armi in realtà rappresentava un inconveniente trascurabile, poiché era ovvio che, attaccando nemico, le armi sarebbero conquistate…”.

Cit. da “La Repubblica di Torriglia” di G. B. Canepa il partigiano “Marzo”. F.lli Frilli editore.

A sinistra Stecca, a destra Bisagno alla guida della motocicletta. Foto tratte dal volume “Una città nella resistenza” di Carlo Brizzolari, Valenti editore.

“Così nella prima quindicina di novembre, gli uomini della banda di Cichero salirono in due gruppi da Lavagna (guidati da Bini) e da Rapallo (guidati da Bisagno) sino al casone messo a disposizione da Stecca, un contadino-ciabattino che abitava in località Gnorecco di Cichero.

Qui, si incontrarono Aldo Gastaldi (Bisagno), Giovanni Serbandini (Bini), G.B. Canepa (Marzo) e vennero poste le basi della Resistenza nel Levante.

A questi si unirono una decina di uomini di Lavagna e tre soldati siciliani, sbandatisi dopo l’armistizio del 8 settembre 1943. Bisagno ebbe il comando della banda e Bini ne fu il primo commissario. Otello Pascolini (Moro), che era rimasto a Lavagna per dirigere l’organizzazione clandestina, raggiunse gli altri alla fine di novembre, sfuggendo alla cattura.

Nei giorni che seguirono, sino alla fine di dicembre, la banda si temprò attraverso dure esperienze, mantenendo sempre un saldo nucleo, che non si disgregò neppure quando le peggiori privazioni ed i più gravi pericoli ne assottigliarono il numero”.

Cit. da “Una città nella resistenza” di Carlo Brizzolari, Valenti editore”.

E’ in questo ostico contesto che fu elaborato e composto, fortemente voluto dal comandante Bisagno stesso, quello straordinario documento dall’incomparabile significato morale, di disciplina e norme comportamentali dei partigiani noto con il nome di Codice di Cichero:

  • in attività e nelle operazioni si eseguono gli ordini dei comandanti, ci sarà poi sempre un’assemblea per discuterne la condotta;
  • il capo viene eletto dai compagni, è il primo nelle azioni più pericolose, l’ultimo nel ricevere il cibo e il vestiario, gli spetta il turno di guardia più faticoso;
  • alla popolazione contadina si chiede, non si prende, e possibilmente si paga o si ricambia quel che si riceve;
  • non si importunano le donne;
  • non si bestemmia

Notizia di pochi giorni fa il comune di San Colombano Certenoli ha deciso di finanziare il recupero ed il restauro di questo sito dall’alto valore simbolico.

Un luogo da preservare a futura memoria.

Genova 28 Gennaio 2021.

L’eccidio al forte San Martino

“Questa notte ho riunito il Tribunale Militare Straordinario, presieduto dal più alto ufficiale in grado presente nel Presidio, il quale ha emanato sentenza di morte, mediante fucilazione, di otto rei confessi di congiura contro lo Stato in zona di operazioni e di condanna a 20 anni di carcere militare di altri due sovversivi.

“La sentenza è stata eseguita all’alba”

Con queste asciutte e tragiche parole il prefetto Carlo Emanuele Basile annunciava di aver dato seguito al suo precedente comunicato.

I due antifascisti condannati a vent’anni di carcere erano Guido Pinna e Guido Carpi. I condannati alla pena capitale si chiamavano:

Dino Bellucci, professore, di anni 32;

Giovanni Bertora, tipografo, di anni 31;

Giovanni Giacalone, straccovendolo, di anni 53;

Romeo Guglielmetti, tranviere, di anni 34;

Amedeo Lattanzi, giornalaio, di anni 35;

Luigi Marsano, saldatore elettrico, di anni 33;

Guido Mirolli, oste, di anni 49;

Giovanni Veronello, operaio, di anni 57.

“Nelle prime ore del 14 gennaio 1944 il comandante della Legione dei Carabinieri di Genova mi ordinava, per telefono, di recarmi con un plotone di venti carabinieri al forte di San Martino, per eseguire un urgente servizio di ordine pubblico”

Parole del tenente Giuseppe Avezzano Comes, ufficiale incaricato di espletare il compito richiesto, che prosegue:

“Giunto sul posto, trovai la località deserta; senonché, dopo aver atteso per circa un’ora, e mentre mi accingeva a rientrare in caserma, vidi arrivare, con alcune macchine, un folto gruppo di ufficiali tedeschi e fascisti che accompagnavano otto persone in ceppi.

Nel frattempo venivo chiamato da un colonnello della milizia fascista in divisa, il quale qualificandosi per il Console Grimaldi, mi ordinava di procedere all’esecuzione immediata mediante fucilazione di otto “traditori” che il tribunale fascista aveva condannato a morte per vendicare un attentato in Genova del giorno innanzi, in cui era stato ucciso un un ufficiale tedesco.

A tale ordine opponeva un secco rifiuto, insistendo sulla illegittimità sia di chi me lo impartiva, sia del Tribunale che lo aveva emesso. Nonostante l’intervento di altri ufficiali fascisti e tedeschi che mi minacciavano di processo sommario e di fucilazione sul posto insieme agli altri condannati, mantenni fermo il mio atteggiamento di rifiuto; tanto che il Grimaldi dopo avermi accusato di codardia, per mezzo di due tedeschi delle SS mi fece allontanare dai miei uomini e sospingere in una casamatta.

Dalle feritoie della stessa, potrei osservare quello che avvenne dopo: il Grimaldi fece schierare di spalle al muro del cortile del forte gli otto condannati e ordinò lui stesso ai carabinieri di fare fuoco.

Ma tutti i militari rivolsero palesemente le armi in alto, tanto che uno dei giustiziati, il Prof. Bellucci, ebbe a dire ad alta voce: “ragazzi fate presto, mirate dritto al cuore. Se non mi uccidere voi mi uccideranno gli altri”.

“Cerimonia della commemorazione”.

A questo punto il Grimadi radunò gli altri militari tedeschi e fascisti presenti e procedette lui stesso all’esecuzione. Fece disporre i condannati di fronte, a due alla volta, costringendoli a salire sui corpi dei compagni caduti mentre ancora si sbattevano per terra in agonia.

Il massacro veniva completato con il colpo di grazia, pietosamente esploso per ognuno dei moribondi da un ufficiale medico presente. Ad esecuzione avvenuta, tedeschi e fascisti lasciavano immediatamente la località, allontanandosi con gli stessi mezzi con i quali erano venuti.

Uscivo allora dalla casamatta, disponevo il piantonamento dei patrioti caduti e con il resto dei carabinieri rientravo in caserma”.

Qui il tenente riuscì a distruggere la nota di servizio con i nomi dei Carabinieri insieme a lui al Forte, così da evitare rappresaglie nei loro confronti da parte delle SS.

“Per intervento del Prefetto Basile venni messo agli arresti e allontanato da Genova.

“Intitolazione dell’officina deposito della Metropolitana di Genova”.

Successivamente fui sottoposto ad inchiesta formale ed infine arrestato dal comando della Feld Gendarmeria tedesca di Albenga, dal quale fui trattenuto in prigione fino alla liberazione, subendo a mia volta torture e sevizie”.

Liberamente tratto dal volume “Una città nella Resistenza!” di Carlo Brizzolari, Valenti editore.

Nel 1984 il sindaco Fulvio Cerofolini gli concesse la cittadinanza onoraria e dal gennaio 2019 gli è stata intitolata l’Officina Deposito della Metropolitana di Genova:

al Tenente dei Carabinieri Giuseppe Avezzano Comes, “Combattente
della Libertà”, come recita la frase riportata sulla targa commemorativa collocata all’interno dell’ampio spazio dedicato alle lavorazioni dei treni.

Hanno preso parte alla cerimonia il vice sindaco Stefano Balleari, l’amministratore unico di AMT Marco Beltrami, il comandante provinciale dei Carabinieri Col. Riccardo Sciuto e Massimo Bisca, presidente Anpi Genova.

In copertina: reparto dei Carabinieri che si rifiutò di sparare sugli ostaggi condannati dal tribunale fascista. Foto presa dal volume sopra citato.

In memoria del sacrificio di Lorenzo

In Carignano presso le Mura delle Cappuccine sul civ. n. 6 è affissa una lapide a ricordo di un dimenticato eroe della Resistenza.

L’ormai sbiadita lastra rammenta infatti la storia di Lorenzo De Negri giovane partigiano nato a Crocefieschi nel 1926 che, membro della brigata SAP “Bellocci”, morì qui in combattimento durante le concitate fasi della liberazione della città.

Come purtroppo tanti suoi coetanei, anche Lorenzo non ebbe dunque la possibilità di vedere Genova libera e a lui – come agli altri caduti – va il nostro pensiero e ringraziamento.

Recita l’epigrafe:

CON IL SACRIFICIO
DELLA SUA FIORENTE GIOVINEZZA
QUI
LORENZO DE NEGRI
UNO DEI TANTI
SUGGELLÒ CON IL SUO SANGUE
L’IDEALE SUPREMO
DI LIBERTÀ E GIUSTIZIA
21-8-1926   —   24-4-1945
“.

In copertina: La lapide al civ. n. 6 delle Mura delle Cappuccine.

… Quando davanti a Porta Sottana…

Quando in Via Gramsci davanti a Porta dei Vacca o Sottana (così chiamata per distinguerla dalla coeva Porta Soprana) in darsena c’era la sede della C.U.L.M.V., la Compagnia Unica fra i lavoratori delle Merci Varie che raggruppa tutte le varie Compagnie e i gruppi organizzati che svolgevano attività nell’ambito operativo delle merci varie raccogliendo la secolare eredità dei camalli e dei caravana. Questi ultimi affondavano le loro radici nel giugno 1340 quando ottennero l’esclusiva per il facchinaggio delle merci soggette a dogana.

La Compagnia dei Caravana resistette sostanzialmente immutata durante i secoli, mantenendo un forte potere contrattuale che le consentì di sopravvivere anche quando, nel 1800, il governo centrale del Regno d’Italia sciolse per decreto tutte le corporazioni d’arti e mestieri presenti nei porti. Unica in Italia mantenne il suo status privilegiato fra tutte le corporazioni e venne esplicitamente esclusa dalla legge di soppressione del 29 maggio 1864.

Con l’avvento del Fascismo, le associazioni operaie furono sciolte. I lavoratori portuali fornirono un enorme apporto alla lotta antifascista a Genova e, contribuendo in modo determinante allo sminamento e al salvataggio del porto, scrissero una pagina gloriosa della Resistenza nella nostra città.

“La targa posta dai Portuali nei pressi della Lanterna in ricordo della Resistenza”.

Quando l’antica sede non aveva ancora dovuto, causa abbattimento per far spazio nel 1964 alla sopraelevata, trasferirsi in Piazzale San Benigno proprio in faccia alla Lanterna.

Quando in Via XX Settembre la Wehrmacht…

Quando il 28 aprile 1945 le truppe della Wehrmacht sfilarono disarmate, scortate fra due ali di Partigiani… quando la forza e il coraggio di un popolo avevano piegato le aquile del Terzo Reich.

Un’immagine storica di quelle che per la nostra città ha segnato un’epoca. Certamente il momento più alto della storia del secolo scorso.

Osservando questa foto i brividi corrono lungo la schiena. Il bianco e il nero dell’immagine non devono sbiadire ma rimanere bene impressi nella mente come, nei ricordi dei nostri nonni, le gesta di quegli eroi.

In fondo a Via XX Settembre, lato Brignole, lo stato maggiore tedesco  marcia in ritirata.

28 Aprile. L’esercito nemico passa sotto il Ponte Monumentale scortati dai Fanti del 473° Reggimento Us.

Genova era libera e i genovesi dovevano andarne ben fieri, perché dopo una dura lotta costata 300 morti e più di 3000 feriti “per la prima volta nella storia di questa guerra – come proclamò alla radio Paolo Emilio Taviani la mattina del 26 aprile – un corpo d’esercito agguerrito e ancora ben armato si è arreso dinanzi a un popolo”.

In Copertina:

“Lo stato Maggiore tedesco  sfila alla testa delle truppe in Via XX Settembre”

“Napule è” e “Creuza de Ma”… sorelle diverse…

in ricordo di due artisti inimitabili…
Se fossi stato un cantautore la mia più grande soddisfazione sarebbe stata quella di comporre un pezzo per la mia città, un omaggio che mi proiettasse nell’eternità proprio come “Grazie Roma”, “Creuza de Ma” e, appunto, “Napule è”.
Poesie che in pochi versi dipingono con le note e scolpiscono con le parole emozioni inesprimibili.
Pino Daniele, co

"Scorcio di mare, una creuza di Sori, olio su tela di Mario Poggi, il decano dei pittori genovesi".
“Scorcio di Sori una creuza di mare, olio su tela di Mario Poggi, il decano dei pittori genovesi”.

n questa canzone ci è riuscito alla grande raccontando l’essenza di una città meravigliosa, per me, fra le più affascinanti e dimostrando la sua cifra d’artista.
Sarà perché Napoli e Genova sono simili come due sorelle dal carattere diverso ma dallo stesso dna… ogni volta che l’ascolto non posso fare altro che commuovermi… il porto, il mare, i vicoli, l’opulenza delle chiese, il gusto per la buona e semplice cucina, la passione viscerale per la propria squadra e l’orgoglio per la propria storia, storia che le unisce, uniche a essersi liberate dai Tedeschi, prima dell’arrivo degli Alleati… Genova e Napoli, Medaglie d’oro al Valore, Balilla e Masaniello.
Fabrizio e Pino due modi di cantare in genovese o napoletano un unico grande Amore…

“La Motivazione…”

"Il Generale Meinhold, scortato fra due ali di Partigiani, abbandona disarmato Genova". La Superba è libera!
“Il Generale Meinhold, scortato fra due ali di Partigiani, abbandona disarmato Genova”.
La Superba è libera!

“Amor di Patria, dolore di popolo oppresso, fiero spirito di ribellione animarono la sua gente nei venti mesi di dura lotta il cui martirologio è nuova fulgida gemma all’aureo serto di gloria della “Suprema” repubblica marinara.
I caduti il cui sangue non è sparso invano, i deportati il cui martirio brucia ancora nelle carni dei superstiti, costituiscono il vessillo che alita sulla città martoriata e che infervorò i partigiani del massiccio suo Apennino e delle impervie valli, tenute dalla VI zona operativa, a proseguire nella epica gesta sino al giorno in cui il suo popolo suonò la diana della insurrezione generale.
Piegata la tracotanza nemica, otteneva la resa del forte presidio tedesco, salvando così il porto, le industrie e l’onore. Il valore, il sacrificio e la volontà dei suoi figli ridettero alla madre sanguinante la concussa libertà e dalle sue fumanti rovine è sorta nuova vita santificata dall’eroismo e dall’olocausto dei suoi martiri. – 9 settembre 1943 – Aprile 1945 “.

"Gli alleati angloamericani entrano in una Città già libera".
“Gli alleati angloamericani entrano in una città, il 26 aprile, già libera”.

Storia di un monumento…

… voluto contro tutto e tutti…
Nel 1919 il quartiere di S. Vincenzo volle erigere un monumento alla memoria dei suoi figli eroicamente caduti durante la Prima Guerra Mondiale.
Il concorso indetto venne vinto da un giovane sconosciuto, tal Francesco Messina, che sarebbe poi diventato il più importante scultore italiano del secolo.La città intera si mobilitò per raccogliere i fondi necessari e molti dei principali artisti genovesi, Govi compreso, aderirono devolvendo una parte degli introiti dei loro spettacoli.
Le autorità che avevano in mente l’arco di Piazza della Vittoria come unico sacrario cittadino, si opposero fermamente all’installazione.
Il comitato dei cittadini lo fece lo stesso collocare, benedetto dai frati della vicina S. Anna.
Il Prefetto fece allora rimuovere il gruppo bronzeo trasportandolo nel cortile di Palazzo Rosso.
La reazione popolare fu talmente indignata che il monumento venne rimontato in Piazza Villa con tanto di onori militari e presenza delle Autorità.
La Piazza prende il nome dal partigiano Goffredo Villa, membro dei Gap, torturato e fucilato dai fascisti, presso il Forte di San Giuliano, nel 1944.
Proprio dove un tempo sorgeva il Castelletto, simbolo dell’oppressione straniera, nella Piazza intitolata ad un Partigiano, campeggia il Monumento della Libertà…
Per NON dimenticare MAI!
 

Storia di un cardinale… prima parte…

… molto… molto speciale…
Nel maggio 1938 Benito Mussolini, pochi giorni dopo aver ospitato in Italia Adolf Hitler transitato in treno anche da Genova, ritorna per la seconda volta (durante la prima nel 1926 aveva decretato la nascita della Grande Genova) in veste di Capo di Governo la nostra città.
Nello stesso periodo Papa Pio XI, al fine di rafforzare il presidio ecclesiastico cittadino, designa in qualità di arcivescovo di Genova, il cardinale Pietro Boetto, prelato gesuita apertamente antifascista.
Boetto mette piede, per la prima volta a Genova, scendendo alla stazione di Piazza Principe completamente imbandierata di svastiche e fasci littori.
Il cardinale non si intimorisce e, per tutto il corso della seconda guerra mondiale, si attiva a salvare migliaia di ebrei, aderendo all’associazione clandestina Delasem e finanziandola con rendite personali e della curia.
A capo di questa attività pone il suo segretario, il fido don Repetto.
Costui si occupa di dare asilo ai profughi nei conventi e nelle chiese cittadine e procura loro documenti falsi al fine di poter raggiungere o il Sudamerica via nave o, soprattutto, via treno, Svizzera e Nord Europa, Svezia in particolare.
A chi, all’interno della curia manifesta perplessità e paure per la pericolosa iniziativa risponde:”Non sono forse esseri umani come noi?… e Gesù non era forse un ebreo?
Questo è il primo motivo per cui l’umanità gli è debitrice e, per cui la Comunità ebraica, lo ha insignito, post mortem, del titolo “Giusto fra i Giusti”…. poi ce n’è un secondo, per cui, a essergli debitori, siamo noi genovesi, tutti ….ma questa è un’altra storia…

Fine prima parte… continua…