Il carciofo di Napoleone

Perinaldo è un grazioso borgo medievale in provincia di Imperia, famoso per aver dato i natali a Gian Domenico Cassini, illustre scienziato (matematico e astronomo), membro dal 1668 dell’Accademia delle Scienze di Francia e Direttore del primo Osservatorio Scientifico di Parigi.

Perinaldo gli ha intitolato il locale Osservatorio scientifico e Genova, dove ha studiato presso il collegio dei Gesuiti, il più prestigioso liceo scientifico cittadino.

Ritratto di Cassini con gli strumenti della sua disciplina

Ma Perinaldo si distingue anche per la coltivazione di un particolare tipo di ortaggio assai apprezzato e rinomato per le sue proprietà e caratteristiche:

un carciofo, tenero, senza spine e dal peculiare colore violetto.

Si prepara in insalata, abbinato a carni o selvaggina, protagonista di frittatine, al forno con parmigiano e funghi o in semplici frittelle con aglio e prezzemolo.

Ma a mio modesto parere il modo in cui le sue qualità vengono valorizzate al meglio è gustato crudo in pinzimonio o in carpaccio.

Si narra che che ad importare questo carciofo sia stato un generale francese dell’esercito napoleonico, secondo alcuni addirittura Napoleone stesso in persona.

Costui durante la campagna d’Italia nel 1796 scoprì, ospite di una nobile famiglia di Perinaldo, che i carciofi “violet” della vicina Provenza erano sconosciuti e decise quindi di donarne alcune piantine agli abitanti del borgo in modo che potessero coltivarlo.

Così complice il clima favorevole il carciofo provenzale ha trovato a Perinaldo il suo ambiente ideale.

Non è un caso quindi che in lingua genovese, dal francese artichaut, il carciofo venga chiamato articiòcca.

In Copertina: il carciofo di Perinaldo. Foto degli Allevatori e Aziende agricole di Perinaldo.

Veduta al tempo di Napoleone

Il golfo è come sempre solcato dalle navi, i monti attorno sono brulli e disabitati, la Lanterna è al suo posto ma nel 1810 Genova faceva parte a tutti gli effetti dell’Impero napoleonico che durò fino al 1814.

In quell’anno Napoleone soppresse tutti gli ordini monastici e le congregazioni religiose nel dipartimento di Genova, degli Appennini, di Montenotte e delle Alpi Marittime.

L’architetto Andrea Tagliafico fu incaricato di progettare la costruzione, nel luogo dove sorgeva un tempo il convento di San Domenico (odierna piazza De Ferrari) di un nuovo teatro cittadino e riedificò il lazzaretto della Foce.

Nel frattempo in piazza dell’Acquaverde, in ossequio al nuovo regime, venne innalzata un’imponente statua dell’imperatore corso.

Sul promontorio di San Benigno Bonaparte aveva appena fatto erigere un palo del rudimentale telegrafo, strumento che utilizzava per essere informato in anticipo rispetto ai suoi nemici.

Leggenda narra che Napoleone appena giunto a Genova avesse chiesto se i genovesi rubassero?

Arguta e spiritosa fu la risposta: “buona parte si, ma tutti no”.

Ambroise Louis Garneray vista di parte Genova, 1810.

Le Statue dei due Condottieri…

Nel giugno 1797 il  fallace vento libertario della Rivoluzione francese era giunto anche a Genova ponendo fine alla gloriosa Repubblica marinara per far posto all’effimera Repubblica “Popolare”.

Fu così che il popolo, in preda alla furia distruttrice, rinnegò i simboli della secolare oligarchia  nobiliare, cancellando ogni traccia dell’odiata aristocrazia.

“Statua di Andrea Doria opera di Angelo Montorsoli”.

Vennero soppressi tutti i titoli regali, feudali e nobiliari con conseguente abolizione di stemmi, insegne e di tutta la simbologia araldica. A causa di questa scellerata disposizione vennero deturpati palazzi e chiese in tutta la Liguria cancellando numerose tracce d’arte e di storia della nostra cultura.

I facinorosi distrussero il libro d’oro della nobiltà, il prezioso registro dei patrizi genovesi, bruciandolo in Piazza Acquaverde sotto uno dei tanti alberi della libertà issati per celebrare la presunta ritrovata autonomia e, soprattutto, la tanto agognata emancipazione. Persino il leggendario Vessillo di San Giorgio subì in quei sciagurati giorni il medesimo nefasto destino. Quello che non erano riusciti a fare nemici d’ogni sorta nel corso dei secoli, fecero i genovesi in pochi giorni.

Come racconta un testimone del tempo non vennero risparmiate nemmeno le statue di Andrea e Giovanni Andrea Doria a poste a protezione dell’ingresso di Palazzo Ducale, da poco per l’occasione, ribattezzato Palazzo Nazionale.

“Al dopo pranzo… in Palazzo si volevano atterrare le statue dei due Doria. Non bastò ad evitarlo né l’intervento del colonnello Menici, né quello del comandante Siri. A forza di funi furono gettate a terra, e rotte, e cancellate le iscrizioni…”

Le teste mozzate dai busti e parti delle gambe furono trascinate e poste a basamento dell’albero della libertà predisposto davanti al novello (nel nome) Palazzo Nazionale.

La folla non contenta pretese anche gli abbigliamenti da cerimonia del Doge, abiti, gioielli e oggetti dall’incommensurabile valore storico: la portantina, l’urna del seminario (il marchingegno utilizzato per l’estrazione semestrale dei magistrati), troni, arredi e simboli saccheggiati dalla sala del Minor Consiglio.

La sera stessa dei tumultuosi avvenimenti Napoleone venne informato dell’accaduto dal Faipoult, suo rappresentante in città e, nonostante la comprensibile soddisfazione per l’ardore rivoluzionario dimostrato ai suoi futuri sudditi, rimase sinceramente dispiaciuto e scrisse una lettera di biasimo al governo provvisorio:

“Citoyens, j’apprende avec le plus grand  déplaisir que dans un moment de chaleur l’on a renversé l statue d’André Doria. André Doria fut grnd marin, et homme d’état; l’aristocratie était la liberté de son temps. L’Europe entière envie à votre ville le précieux avantage d’avoir donné le jour à cet homme célèbre. Vous vous empresserez, je n’en doute pas, à relever sa statue. Je vous prie de vouloir m’enscrire pour supporter une partie des Frais que cela occasionnerà, et que je désire partager avec les citoyens les plus zelés pour la gloire et pour le bonheur de votre patrie. Je vous prie de me croire avec les sentiments de consideration avec lesqueis, je suis, Bonaparte”.

“Statua di Giovanni Andrea Doria opera di Taddeo Carlone”.

Il Faipoult stesso e Luigi Crovetto, membro di spicco del nuovo governo, riuscirono a dissuadere con pragmatiche motivazioni politiche (troppo difficile dissociare i Doria dal regime aristocratico nella mente ormai invasata dei genovesi) Napoleone dal suo nobile proposito e l’argomento delle statue finì nel dimenticatoio.

La statua di Andrea era stata scolpita da Angelo Montorsoli, quella di Giovanni Andrea da Taddeo Carlone due straordinari artisti a cui i Doria avevano commissionato opere nella chiesa di San Matteo e nella Villa del Principe.

“L’inaugurazione avvenuta il 22 luglio del 2010 alla presenza dell’allora Sindaco di Genova Marta Vincenzi”. L’immagine rende bene le colossali dimensioni delle sculture”. Foto tratta da Palazzo Ducale.it

Per fortuna alcune parti superstiti sono state salvate, recuperate e alloggiate presso il Museo di S. Agostino. Dal 2010, dopo accurato restauro, sono tornate nella loro casa di Palazzo Ducale dove, collocate sul ballatoio al termine della prima rampa di scale che conduce ai piani superiori, hanno ripreso il loro compito di custodi della nostra storia.

“La Tenaglia… pardon Le Tenaglie”…

“Non si deve muovere la Bastia di Promontorio per far Tenaglia fino che non sia finito il cinto in detta parte”. Così, in fase di progettazione delle Nuove Mura, annotava Padre Fiorenzuola l’architetto incaricato dello studio per la costruzione del nuovo forte. La vecchia bastia cinquecentesca (eretta in realtà intorno al 1478) di promontorio che “tenerebbe netto Cornigliano e il principio della Polcevera, essendo che fino a Coronata può tirare, difenderebbe la Lanterna, L’Oliva e San Pier d’Arena, perché tutti questi lochi lo domina benissimo”, nel 1633 con il completamento delle Mura, venne atterrata. Sul relativo piano si edificò, come struttura complementare alla cinta, la fortificazione avanzata a “Tenaglia”; costruita su due mezzi bastioni laterali, con un piccolo cortile intermedio a due lunghi lati paralleli delimitanti, nell’insieme, un recinto fortificato a 217 metri s.l.m.

Circa un secolo dopo, nel 1747 dopo la cacciata austriaca del Balilla, vennero rinforzati i parapetti del forte perché fossero in grado di opporre maggiore resistenza alle artiglierie nemiche.

Nel 1797 durante la rivolta antifrancese vi si asserragliarono i ribelli genovesi che, dopo dura lotta e numerosi caduti, furono sconfitti dagli invasori.

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“In basso a sinistra il muro del Forte lato monte, in alto a destra quello delle mura. Le due strutture erano collegate mediante un ponte levatoio i cui meccanismi sono ancora visibili proprio nel punto in cui, all’ingresso, è stata rinvenuta la lapide con la dicitura Tenaglie”.

La storia del forte mutò dopo l’annessione ai Savoia del 1816 che provvidero ad elevare la cortina settentrionale e della fronte a ponente con il contemporaneo innalzamento di cortine in parallelo a chiusura del perimetro. Si ottenne così un corpo continuo a “L” con al suo interno una caserma ma indipendente e in posizione più avanzata rispetto alle mura secentesche. Per questo venne collegato alla cinta mediante un ponte levatoio.

In occasione dei moti insurrezionali del 1849 contro i Savoia Il Tenaglia venne occupato dagli insorti e fu riconquistato dai piemontesi solo grazie al tradimento di un personaggio ambiguo proveniente da Torino.

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“L’interno del Forte su tre livelli interrati nei quali erano ricavati gli alloggi e le latrine delle truppe e degli ufficiali”. In tempi più recenti, come testimoniato dall’argano sovrastante e dalle stazioni di carico, era utilizzato come deposito e magazzino”.

Costui a conferma del detto “piemontesi falsi e cortesi”  seppe ingraziarsi  i ribelli a tal punto da strappare loro il comando del Forte e riconsegnarlo alle truppe regie che, sotto la guida del Capitano Govone dei Bersaglieri, avevano già ripreso possesso anche del Crocetta e del Belvedere.

Durante la Seconda Guerra Mondiale la fortezza, utilizzata come postazione per una batteria antiaerea, causa i bombardamenti patiti, subì gravi danni alla cortina meridionale e il crollo totale della caserma nella zona centrale.

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“La lapide posta sulla colonna di sinistra del portone d’ingresso recante la dicitura Tenaglie”.

Curiosa è poi la storia legata al nome, visto che nella toponomastica ufficiale, il forte è sempre stato identificato con il nome “Tenaglia” al singolare mentre recentemente i volontari dell’associazione che ne hanno ottenuto dal Demanio la concessione, hanno rinvenuto una targa coperta dai rovi e nel più completo abbandono. La lapide posta all’ingresso, vicino a dove un tempo c’era il ponte levatoio, reca scolpito il titolo al plurale, “Tenaglie”. Incuriositi da questo particolare costoro hanno effettuato delle ricerche secondo le quali tale variante risalirebbe a documenti sia cinque che settecenteschi. Probabilmente si è passati dal plurale al singolare poiché tenaglia in francese si traduce “Tenaille” e, quindi di conseguenza, così è rimasto per tradizione e storpiatura popolare.

 

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“Una delle postazioni a cui erano ancorati i cannoni dei Tedeschi preposti alla difesa aerea”.

Come in ogni forte o castello che si rispetti non poteva infine mancare  la caccia al tesoro: due interessanti vicende sono infatti legate a presunti gruzzoli lasciati dai militari nei secoli; il primo risalirebbe al tempo di Napoleone, il secondo all’epoca della Seconda Guerra Mondiale. A proposito  di quest’ultimo leggenda narra che, molti anni dopo il termine del conflitto, un soldato tedesco armato di pala si sia presentato al picchetto di guardia con la bizzarra e, per altro non esaudita, richiesta di accedere al forte per recuperare il suo ingente patrimonio che aveva sepolto lì al tempo in cui l’artiglieria tedesca sparava contro l’aviazione alleata.

Posto in posizione strategica dalla sua sommità si gode di un panorama invidiabile che domina sulle Valli Polcevera e Bisagno e che spazia dalla Madonna della Guardia, al Gazzo, a Capo Mele fino al Promontorio di Portofino.

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“Il Muro su cui sono ancora visibili i segni dei proiettili sparati, durante le esercitazioni di tiro, al tempo della Seconda Guerra Mondiale”.

Da alcuni anni Il Tenaglie o Tenaglia che dir si voglia è stato recuperato e restituito alla cittadinanza grazie all’operato di un gruppo di volontari della “Piuma Onlus” che, in occasione di determinati eventi apre, con meraviglia dei visitatori, la storica struttura.

Storia di un Re… di un Generale… di un inganno…

poco regale e di un vergognoso monumento.

Nel 1815 in seguito al Congresso di Vienna finalmente i piemontesi riescono a mettere le mani sulla nostra città, di fatto comprata dagli inglesi, i quali a loro volta, l’avevano tolta a Napoleone.

I sabaudi si dimostrano presuntuosi e ostili ma, soprattutto secondo i genovesi, completamente inetti alla gestione del porto, dei commerci e delle questioni marittime.

Così che, quando nel 1849 i Savoia sono costretti all’armistizio con gli austriaci, stufi dei soprusi subiti, i Genovesi insorgono e restituiscono la libertà alla Repubblica.

"Quadro allegorico del Guascone, conservato all'Istituto mazziniano che rappresenta in modo sarcastico la compravendita stabilita nel Congresso di Vienna ". Sotto lo sguardo di una preoccupata Lanterna, Lord Bendinck il liberatore inglese, presenta al re sabaudo Vittorio Emanuele I, il nuovo possedimento nella persona d'una bella giovane, scortata da gendarmi inglesi.Sul tavolo le monete d'oro, prezzo d'acquisto, Per il trattato di Vienna la Repubblica entra a far parte dei domini sardi dal primo gennaio 1815.
“Quadro allegorico del Guascone, conservato all’Istituto mazziniano che rappresenta in modo sarcastico la compravendita stabilita nel Congresso di Vienna “.
Sotto lo sguardo di una preoccupata Lanterna, Lord Bendinck il liberatore inglese, presenta al re sabaudo Vittorio Emanuele I il nuovo possedimento nella persona d’una bella giovane, scortata da gendarmi inglesi. Sul tavolo le monete d’oro, prezzo d’acquisto.
Per il trattato di Vienna la Repubblica entra a far parte dei domini sardi dal primo gennaio 1815.

Il re Vittorio Emanuele II ordina al generale Alfonso La Marmora di sedare la rivolta: mentre una nave britannica inizia a cannoneggiare la Darsena il generale, fingendo di trattare con i ribelli, scaglia loro contro circa venticinquemila fra soldati e bersaglieri.

L’assedio dura sei giorni e, nonostante la coraggiosa resistenza della Guardia Civica, forte di circa diecimila effettivi comandati dal Pareto e dal De Stefanis, Genova è riconquistata, violentate le sue donne, uccisi i suoi figli, violate le sue dimore e chiese.

Nemmeno gli infermi e gli anziani ricoverati in ospedale vengono risparmiati, in tutto si contano centinaia di morti (secondo alcuni almeno un migliaio), la maggior parte fra la popolazione inerme.

Nel testo in francese di congratulazioni inviato all’alto ufficiale per l’esito della repressione il re non esita a definire la classe dirigente mazziniana, rea di aver istigato la rivolta, “gente vile, razza infetta di canaglie” e ancora più in generale “i Genovesi son tutti Balilla, non meritano compassione, dobbiamo ucciderli tutti”.

Al generale dei Bersaglieri, per questa mirabile impresa, viene conferita da un re raggiante la Medaglia d’oro al valor militare.

Per queste ragioni fino al 1994, anno della riconciliazione con il Corpo con la tesa rotonda e le piume di gallo, ospite a Genova in occasione del proprio raduno nazionale, la Superba si è poi sempre rifiutata di arruolarvi i propri figli.

I Genovesi, “obtorto collo” furono costretti ad erigere la scultura bronzea in onore del primo re d’Italia incaricando nel 1886 l’artista milanese F. Barzaghi proprio, ironia della sorte, in Piazza Corvetto poco distante dal suo acerrimo nemico politico di sempre, Giuseppe Mazzini.

"La statua di Mazzini".
“La statua di Mazzini”.

In realtà la statua del grande genovese, ritratto in un atteggiamento pensieroso, era già presente dal 1882 vicina a quella di Maria Drago, l’intrepida madre sostenitrice.

"Busto di Maria Drago, madre di Mazzini".
“Busto di Maria Drago, madre di Mazzini”.

Il re, rappresentato a cavallo, è immortalato nell’atto di togliersi il cappello in segno di saluto.

Per alcuni il significato che la scena sottintende è un bonario segno di scuse, un gesto di riconciliazione.

Per altri, ed io condivido, invece i genovesi in una sorta di rivincita morale, lo hanno voluto raffigurare in un gesto di ossequio rivolto al vero padre della patria e alla sua genitrice, nonché alla Torre Grimaldina, simbolo del potere repubblicano cittadino (in effetti il sovrano si leva il cappello in quella direzione).

Bisognerebbe chiedere l’opinione delle centinaia di vittime sacrificate all’altare delle ambizioni sabaude.

Dal 2008 per volontà della comunità e del Movimento Indipendentista Ligure sul basamento è stata posta una targa che rammenta il “vergognoso sacco di Genova”.

La Liguria non ha mai partecipato ad alcun plebiscito di annessione né al Regno di Sardegna né di quello d’Italia quindi, formalmente la gloriosa e mai doma Repubblica, nonostante proprio a Genova siano nati sia il concetto d’Italia che l’unità del Paese, non si è mai sciolta.

"la Targa commemorativa".
“la Targa commemorativa”.