Vico Foglie Nuove

Vico Foglie Nuove collega via Gramsci con via Prè. Il caruggio è noto ai giorni nostri per la presenza in loco di una famosa trattoria di cucina genovese.

A catturare il mio interesse però, più che l’aspetto gastronomico, è stata l’intestazione del caruggio.

Dapprima, vista in epoca medievale la vocazione agreste della contrada (Prè secondo alcuni storici significherebbe contrada dei prati), ho pensato che l’origine del toponimo avesse in qualche modo a che fare con la presenza di vigne o piante nella zona.

Ad una più attenta disamina ho invece appreso come l’intitolazione fosse legata alla storia del possedimento di Focea, concessa in signoria dal Basileus di Bisanzio a Benedetto Zaccaria.

Leggendo i testi del Pescio, si evince che le colonie genovesi tra il XIII sec. e il 1455 di Focea la Nuova e Focea la Vecchia, (città turche di origine greca) dette le due Foceee, erano anche denominate Foglie Vecchie e Foglie Nuove.

In lingua genovese infatti il plurale di Focea, Focee si pronunciava Fogie e da qui dunque latinizzato la trasposizione in Foglie Vecchie e Foglie Nuove.

In Copertina: Vico delle Foglie Nuove. Foto di Stefano Eloggi.

Vico della Tartaruga

Nei pressi di Piazza di Pellicceria si incontra il vico della Tartaruga.

Il caruggio fa parte di quella seria di vicoli senza intestazione che, con la riforma toponomastica del 1868, si decise di intitolare a nomi di animali.
Fatto questo che mi ha sempre lasciato perplesso.

Con tanti personaggi infatti che hanno nobilitato nel corso dei secoli la storia, in particolare marittima, cittadina (penso ad esempio Benedetto Zaccaria e Lanzarotto di Malocello che sono ricordati solo a Pegli e i Pessagno a Sestri Ponente) non mi capacito come i funzionari preposti abbiano invece partorito, in ossequio alla moda del momento, una scelta così banale.


In Copertina: Vico della Tartaruga. Foto di Giovanni Cogorno.

Benedetto l’eroe della Meloria… (seconda parte)…

Nel 1282 era scoppiata la guerra che si trascinò per due anni con esito incerto; la vittoria arrideva ora ai genovesi, ora ai pisani. Questi ultimi sembravano in vantaggio, ormai padroni della Sardegna e, a differenza dei liguri lacerati da lotte intestine, uniti e per questo vicini al successo.

Il 5 aprile del 1284 Benedetto Zaccaria issa lo stendardo di S. Giorgio e salpa al comando di 30 galee in assetto da guerra. Il 9 aprile si presenta davanti a Porto pisano provocando i nemici. Inizia a presidiare tutti i collegamenti con Corsica e Sardegna; nel giro di due mesi i convogli mercantili genovesi riprendono a navigare sicuri, mentre quelli pisani non osano uscire dal porto. Il genovese impone ai toscani il blocco commerciale con le isole e con le colonie del Levante e taglia loro i rifornimenti marittimi. I pisani allora tentano di far circolare le proprie merci su imbarcazioni appartenenti a nazioni neutrali come Amalfi, Barcellona e Venezia. Benedetto non chiede di meglio, esperto com’è nella guerra di corsa, in due mesi cattura numerosi vascelli, si impossessa di merci ed equipaggi, rendendo vano anche questo tentativo dei rivali.

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“Alcuni pezzi delle catene di Porto Pisano, restituite dai genovesi nel 1860, oggi custodite nel cimitero monumentale di Pisa”.

Costoro, esasperati, proclamano podestà il veneziano Morosini, nella speranza che ciò serva a guadagnarsi il supporto dei veneti. Venezia invece, fedele ai patti, rimane neutrale e le due repubbliche tirreniche devono sbrigarsela da sole. I toscani giocano il tutto per tutto allestendo una poderosa armata di 65 galee e 11 galeoni, stabiliscono di uscire dal porto di sorpresa e di sterminare la flotta di Benedetto che, nel frattempo, dalla Corsica si preparava ad assediare Sassari in Sardegna. Avvertito del pericolo fa vela verso Genova mentre il Morosini contando di tagliargli la via per il ponente, lo attende vanamente al largo di Albenga. Zaccaria rientra invece per la riviera di levante.

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“La battaglia della Meloria”.

Il 31 luglio i pisani si schierano davanti alla Superba dove ad aspettarli, pronte allo scontro, ci sono 58 galee al comando del capitano del popolo Oberto D’Oria. La sera stessa da Portofino giungono anche le navi dello Zaccaria, sfuggite all’imboscata dei nemici.

Ai pisani,  presi in mezzo dalle due flotte, non resta altra scelta che la ritirata verso i propri lidi. La sera del 5 agosto le due flotte genovesi raggiungono i pisani nella loro baia ma Benedetto ha una geniale intuizione, ammaina le vele, nasconde  gli stendardi e si mantiene a debita distanza, sparpagliando la flotta qua e là confondendola fra le imbarcazioni di supporto.

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“La consegna del pallio d’oro alla chiesa di S. Sisto”.

La mattina del 6 agosto, giorno di S. Sisto, i pisani credendosi più numerosi e incoraggiati della stanchezza dei rivali provati per l’inseguimento, attaccano battaglia. Quando lo scontro sembrava volgere a favore dei pisani, Benedetto entra in scena puntando direttamente la capitana del Morosini, strappandole lo stendardo. Catturata la nave ammiraglia dei pisani, accerchia i nemici facendone scempio: 7 galee affondate, 33 catturate, alcune migliaia i prigionieri (fra cui Rustichello autore sotto dettatura di Marco Polo del “Milione”), lo stendardo, il sigillo del podestà, il gonfalone del comune, lo strepitoso bottino.

Il 6 agosto 1284 Genova pone fine alle ambizioni marittime dei rivali. Benedetto a ringraziamento per l’epica vittoria dona, acclamato dalla folla festante, un prezioso pallio d’oro alla chiesa di S. Sisto di Via Prè.

L’anno seguente i Padri del Comune progettano di dare il colpo di grazia definitivo ai rivali inviando Oberto Spinola dal mare e sollevando loro contro fiorentini e lucchesi, secolari nemici, da terra. Il tentativo, per ragioni politiche, fallisce miseramente.

I pisani cercano di risollevare la testa imbastendo una guerra di corsa e piccola pirateria obbligando i genovesi a mantenere un manipolo di navi a presidio delle proprie rotte. Benedetto è ancora una volta il prescelto per il comando.

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“Antica cartina del Porto Pisano, raffigurante le quattro celebri torri”.

L’ammiraglio avrebbe voluto mettere in piedi però una risoluzione definitiva “Pisa delenda est” ma la Repubblica, comunque provata dalla lunga guerra, si accontenta della semplice supremazia.

Zaccaria è insoddisfatto, inoltre dai suoi feudi in oriente giungono notizie poco rassicuranti. E’ tempo di tornare a Bisanzio e riprendere in mano gli affari di famiglia, i commerci e le sue molteplici attività.

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“Il Faro e la Torre della Meloria”.

Prima però di congedarsi nel 1287 compie con 6 navi quello che tre anni prima non riuscirono a fare in 65: a bordo della sola “Divizia” viola il porto militare facendosi largo fra le torri di difesa, mentre un suo sottoposto (capitano Nicolino da Petraccio), al timone delle altre 5, entra nel bacino mercantile spezzandone le catene. Catene che furono, fino al 1860, appese alla chiesa di San Lorenzo. Benedetto rimase gravemente ferito durante l’eroico assalto ma in seguito alla sua coraggiosa impresa, impauriti, i pisani siglarono la pace. I patti furono talmente duri per i toscani che questi, non rispettandoli, videro nel 1290  il loro approdo definitivamente distrutto ed interrato ad opera di Corrado D’Oria. Alla stessa maniera le catene conquistate nel 1290 furono esposte sulle principali porte e chiese della Superba

Come a suo tempo auspicato da Benedetto “Pisa delenda est”.

Zaccaria, ristabilitosi dalle ferite e rientrato dall’oriente dove in pochi mesi aveva sistemato le sue faccende private, viene richiamato a Genova.

I successi dello Zaccaria gli procurarono molti onori ma anche parecchie invidie. Le gesta dell’ammiraglio rimbalzavano dal Tirreno a Costantinopoli, così i padri del comune, colsero l’occasione della richiesta di aiuto proveniente da Tripoli, per allontanarlo dal Tirreno dove la sua fama ormai precedeva le sue galee. La colonia del regno latino versava in grave difficoltà oggetto delle mire di varie nazioni; la Repubblica lo nominò Vicario del Comune in Oltremare, affidandogli però due sole galee. La missione era ambigua e rischiosa perché avrebbe potuto risultare invisa agli interessi “in loco” sia dei veneziani che degli egiziani.

in questo modo sia che il suo mandato fosse fallito o riuscito, sarebbe stato facile dimostrare, a seconda dell’occorrenza, l’estraneità della Repubblica e riversare tutta la responsabilità sull’ammiraglio, come se avesse agito per interessi personali e privati, senza compromettere quindi le relazioni diplomatiche del Comune.

Ma Benedetto troppo avvezzo agli intrighi di corte era uomo dalle mille risorse…

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“Alcuni anelli delle catene di Porto Pisano esposti sotto le arcate del palazzo del mare, meglio noto come S. Giorgio”.

In copertina: La Battaglia della Meloria. Illustrazione tratta dalle trecentesche Croniche del lucchese Giovanni Sercambi.

Continua…

La Croce degli Zaccaria…

Nella cripta del Museo della cattedrale di S. Lorenzo è custodito uno dei più importanti gioielli del mondo occidentale; un manufatto di inestimabile valore storico, religioso, gemmologico e simbolico. Si tratta della Croce degli Zaccaria, così chiamata dal nome della nobile famiglia genovese che a lungo, prima di donarla al capitolo di S. Lorenzo, ne ebbe la proprietà.

La croce venne commissionata nel IX sec. da Bard, fratello dell’imperatrice madre Teodolinda, per conservare adeguatamente due sacri frammenti della Vera Croce raccolti da San Giovanni Evangelista in persona sui quali, secondo la tradizione, Gesù avrebbe poggiato il capo.

La preziosa reliquia venne donata dal futuro imperatore alla basilica di Efeso, la più importante chiesa cristiana d’Oriente e custodita, su disposizione dell’arcivescovo Ciriaco, all’interno di una sfarzosa teca d’oro.

Nella seconda metà del ‘200 il vescovo Isacco, preoccupato per lo stato di cattiva conservazione della croce, la fece restaurare conferendole l’odierno aspetto di stauroteca (contenitore a forma di croce di reliquie sacre): la parte anteriore è costituita da una lamina d’oro, decorata con pietre preziose e con al centro le due sacre schegge, l’impugnatura invece, sempre di pregiata manifattura bizantina, risale al XV sec.

Il retro reca una scritta in greco che recita: “Questa sacra custodia Bard fabbricò e Isacco arcivescovo rinnovò perché logora”. Alle quattro estremità dei bracci sono raffigurati insieme ai loro monogrammi in alto Cristo pantocratore, al centro la Vergine e ai suoi lati a destra l’arcangelo Gabriele, a sinistra l’arcangelo Michele, in basso San Giovanni Crisostomo.

Nel 1304 i Turchi selgiuchidi saccheggiarono la basilica depredandola di ogni ricchezza, croce compresa.

"Una delle sale della cripta del Museo di S. Lorenzo".
“Una delle sale della cripta del Museo di S. Lorenzo”.

Fu Manuele, signore di Focea e potente esponente della casata degli Zaccaria, erede di quello straordinario ammiraglio che fu Benedetto (fondatore della marina militare castigliana, riorganizzatore di quella francese ed eroe della Meloria) che la riacquistò dagli infedeli in cambio di un’ingente partita di grano.

Solo quattro anni dopo, la notte di pasqua del 1308, un manipolo di avventurieri catalani al comando del terribile condottiero Muntaner razziarono la chiesa di Focea alla quale era stata affidata la custodia della croce e se ne impadronirono. Teodisio, figlio di Manuele lo stesso anno, assediati i pirati nell’isola di Taso, ne ottenne la restituzione. Gli Zaccaria di Focea continuarono a tramandarsi il sacro reliquiario fino al 1380, anno in cui Centurione Zaccaria la donò alla Cattedrale di Genova. Da allora venne portata in processione insieme alla celebre arca del Corpus Domini, anch’essa custodita nella cripta del museo di S. Lorenzo, in occasione dell’omonima ricorrenza e, soprattutto, utilizzata per la benedizione durante la cerimonia del Doge entrante.

"La Croce degli Zaccaria nella sua scenografica collocazione museale".
“La Croce degli Zaccaria nella sua scenografica collocazione museale”.

Gli Zaccaria, i Dogi, la gloriosa Repubblica non ci sono più ma la Croce, testimonianza tangibile di una devozione secolare, benedice ancor oggi l’insediamento dell’arcivescovo di Genova simboleggiando il duplice valore civile e religioso della sacra reliquia.

In Copertina: La Croce degli Zaccaria. Foto di Giovanni Caciagli.

Storia di coraggiose imprese…

di una lapide straordinaria… di un Santo protettore…
Già nel 1016 le flotte pisana e genovese congiunte cacciarono gli arabi da Corsica e Sardegna ma fu nel 1088 che, ancora alleate, si resero protagoniste di un’impresa straordinaria che invertì gli equilibri del Mediterraneo nel Mar Tirreno.
Stanche delle incursioni musulmane sulle proprie coste, per la prima volta infatti, le due Repubbliche anziché difendersi, attaccarono il nemico in casa loro.
Violarono l’emporio di Madhia, roccaforte della città di Kerouan, riportando una clamorosa vittoria.

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“Quadro raffigurante l’ammiraglio Benedetto Zaccaria, eroe della Meloria, nell’atto di donare alla Chiesa di San Sisto un pallio d’oro come voto, in segno di ringraziamento.”


Dopo aver assediato il Sultano Temim nel proprio castello, ottennero un ricco bottino, il riscatto dei prigionieri e posero le basi per i loro futuri commerci con la totale esenzione fiscale delle merci in tutto il Maghreb.
Pisani e Genovesi si spartirono il bottino; i primi destinarono la quota di loro pertinenza all’erezione del Duomo, i secondi invece, una parte per l’armamento di nuove galee e l’altra per la costruzione della chiesa di San Sisto, in onore del santo che li aveva protetti (la battaglia avvenne il 6 agosto giorno dedicato al Santo).


Sopra il portone della chiesa, come trofeo di guerra, venne affissa una lapide in arabo andata smarrita nel corso dei secoli, il cui significato resta ignoto.
Probabilmente hanno la stessa provenienza altre due lapidi murate in Santa Maria di Castello entrambe antecedenti l’undicesimo secolo.

"Rappresentazione della lapide in Cufico con i versetti di una Sura del Corano custodita in Santa Maria in Castello."
“Rappresentazione della lapide in Cufico con i versetti di una Sura del Corano custodita in Santa Maria in Castello.”

Delle due la prima risulta abrasa e illeggibile, la seconda invece, incisa in Cufico (stile calligrafico arabo) riporta due versetti della terza Sura del Corano, detta della “famiglia di Imran.”

 

Una Sura inneggiante alla pace come spesso se ne trovano scolpite all’interno delle moschee:
90 In verità nella creazione dei cieli e della terra e nell’alternarsi della notte e del giorno ci sono certamente dei segni per i dotati di intelletto…

 

91 … I quali menzionano Dio in piedi, seduti o coricati su un fianco e meditano sulla creazione dei cieli e della terra dicendo “Signore, tu non hai creato tutto questo invano”
che tu sia lodato, preservaci dal castigo del fuoco.”


Altro che pace, da allora le due Repubbliche si scontrarono fra di loro fino a quel, ironia della sorte, 6 agosto del 1284, quando proprio nel giorno di Sisto i Genovesi, presso la Meloria, annientarono i rivali.
Chissà, forse il Santo volle ringraziare i nostri avi per l’erezione della chiesa da questi a lui dedicata e punire i Pisani per non aver fatto altrettanto.