Storia di un baldacchino…

…. di un trono… di giochi di potere… di un Arcivescovo e di un Doge…
La nomina di Stefano Durazzo ad Arcivescovo di Genova nel 1635 da parte della Santa Sede fu causa di attrito con le autorità civili della Repubblica.
Questi infatti, per circa due anni non mise piede in città delegando la carica ad un suo fidato Vicario.

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“Il Cardinale Stefano Durazzo Arcivescovo di Genova nel 1638… quadro del Carbone esposto a Palazzo Bianco”.

Il Cardinale, una volta decisosi ad impossessarsi della sua cattedra, pretese di entrare in San Lorenzo in baldacchino e di essere chiamato con il titolo di “Eminenza”.
Il Senato rigettò tale richiesta e questi, per tutta risposta, si rifiutò di incoronare quello che avrebbe dovuto essere il primo Doge con tutte le attribuzioni regali, Agostino Pallavicino. Il novello Doge venne così incoronato, fatto inaudito, dall’Abate di Santa Caterina, nell’omonima chiesa e non in Cattedrale, dall’Arcivescovo.
Non contento l’alto prelato respinse anche la richiesta del Senato di erigere, in posizione rialzata rispetto a quella vescovile, un baldacchino da collocarsi, all’interno di San Lorenzo, al posto della cattedra episcopale.
Genova, infatti, da circa un anno aveva eletto a pro

"Ritratto del Doge Agostino Pallavicino del 1638".
“Ritratto del Doge Agostino Pallavicino del 1638”.

pria Regina, la Madonna e riteneva queste iniziative necessarie per ottenere riconoscimenti formali, in merito al nuovo titolo regale, da parte delle altre potenze europee.
La misura era colma… ormai lo scontro fra l’autorità ecclesiastica e quella civile rischiava di portare ad un incidente diplomatico con il Vaticano.
Fu così che, nel 1640, Papa Urbano VIII richiamò a Roma il Cardinale per destinarlo come legato pontificio a Bologna.

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“La cappella del Doge a palazzo Ducale”.

Otto anni più tardi nel 1648, Durazzo rientrato a Genova fu, a causa di un’altra diatriba, di nuovo oggetto di domanda di espulsione da parte del Senato.
Questa volta però il Papa Innocenzo X non accolse la richiesta e il Cardinale regnò per altri sedici anni, governando con pugno energico e fermo, la Curia genovese.
Alla sua morte, avvenuta nel 1667, la Repubblica, soprannominandolo “il Borromeo genovese”, nonostante i frequenti attriti, intese riconoscerne le indiscusse doti e qualità… doti e capacità che, oltre ad Agostino Pallavicino, almeno una dozzina di Dogi ebbe modo di testare sulla propria pelle durante i suoi, seppur framezzati, ventinove anni di potere (dal 1635 al 1664).

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“La sala del maggior consiglio dove avveniva l’elezione del Doge”.

 

La Croce degli Zaccaria…

Nella cripta del Museo della cattedrale di S. Lorenzo è custodito uno dei più importanti gioielli del mondo occidentale; un manufatto di inestimabile valore storico, religioso, gemmologico e simbolico. Si tratta della Croce degli Zaccaria, così chiamata dal nome della nobile famiglia genovese che a lungo, prima di donarla al capitolo di S. Lorenzo, ne ebbe la proprietà.

La croce venne commissionata nel IX sec. da Bard, fratello dell’imperatrice madre Teodolinda, per conservare adeguatamente due sacri frammenti della Vera Croce raccolti da San Giovanni Evangelista in persona sui quali, secondo la tradizione, Gesù avrebbe poggiato il capo.

La preziosa reliquia venne donata dal futuro imperatore alla basilica di Efeso, la più importante chiesa cristiana d’Oriente e custodita, su disposizione dell’arcivescovo Ciriaco, all’interno di una sfarzosa teca d’oro.

Nella seconda metà del ‘200 il vescovo Isacco, preoccupato per lo stato di cattiva conservazione della croce, la fece restaurare conferendole l’odierno aspetto di stauroteca (contenitore a forma di croce di reliquie sacre): la parte anteriore è costituita da una lamina d’oro, decorata con pietre preziose e con al centro le due sacre schegge, l’impugnatura invece, sempre di pregiata manifattura bizantina, risale al XV sec.

Il retro reca una scritta in greco che recita: “Questa sacra custodia Bard fabbricò e Isacco arcivescovo rinnovò perché logora”. Alle quattro estremità dei bracci sono raffigurati insieme ai loro monogrammi in alto Cristo pantocratore, al centro la Vergine e ai suoi lati a destra l’arcangelo Gabriele, a sinistra l’arcangelo Michele, in basso San Giovanni Crisostomo.

Nel 1304 i Turchi selgiuchidi saccheggiarono la basilica depredandola di ogni ricchezza, croce compresa.

"Una delle sale della cripta del Museo di S. Lorenzo".
“Una delle sale della cripta del Museo di S. Lorenzo”.

Fu Manuele, signore di Focea e potente esponente della casata degli Zaccaria, erede di quello straordinario ammiraglio che fu Benedetto (fondatore della marina militare castigliana, riorganizzatore di quella francese ed eroe della Meloria) che la riacquistò dagli infedeli in cambio di un’ingente partita di grano.

Solo quattro anni dopo, la notte di pasqua del 1308, un manipolo di avventurieri catalani al comando del terribile condottiero Muntaner razziarono la chiesa di Focea alla quale era stata affidata la custodia della croce e se ne impadronirono. Teodisio, figlio di Manuele lo stesso anno, assediati i pirati nell’isola di Taso, ne ottenne la restituzione. Gli Zaccaria di Focea continuarono a tramandarsi il sacro reliquiario fino al 1380, anno in cui Centurione Zaccaria la donò alla Cattedrale di Genova. Da allora venne portata in processione insieme alla celebre arca del Corpus Domini, anch’essa custodita nella cripta del museo di S. Lorenzo, in occasione dell’omonima ricorrenza e, soprattutto, utilizzata per la benedizione durante la cerimonia del Doge entrante.

"La Croce degli Zaccaria nella sua scenografica collocazione museale".
“La Croce degli Zaccaria nella sua scenografica collocazione museale”.

Gli Zaccaria, i Dogi, la gloriosa Repubblica non ci sono più ma la Croce, testimonianza tangibile di una devozione secolare, benedice ancor oggi l’insediamento dell’arcivescovo di Genova simboleggiando il duplice valore civile e religioso della sacra reliquia.

In Copertina: La Croce degli Zaccaria. Foto di Giovanni Caciagli.

L’antichissima cerimonia del Confeugo…

… ha origine agli inizi del ‘300 e nasce per omaggiare il Podestà  prima, il Capitano poi e infine il Doge.
Consiste in un corteo che partiva dalla zona di Porta Romana (Borgo Incrociati) dove l’ Abate del Popolo uscente lasciava a quello entrante la carica e i problemi simboleggiati da nastri bianco rossi (i colori di S. Giorgio) con i quali si adornava un grosso ceppo di alloro (il Confeugo).
L’Abate ora si recava in processione a Palazzo Ducale, dove scambiati i saluti e i doni di rito con il Doge, partecipava insieme all’Arcivescovo al banchetto.

Il Confeugo veniva poi acceso e spento con una brocca di zucchero, vino e confetti.
La fumata che ne conseguiva, a seconda che fosse dritta o storta, veniva interpretata positivamente o meno in relazione ai problemi da risolvere (i nastrini rossi).
La popolazione si contendeva i resti perché, si diceva, avessero proprietà magiche e portassero fortuna.
Questo, spesso causava risse e disordine pubblico, quindi venne stabilito di bruciare più ceppi per distribuirlo equamente a tutti.
La cerimonia natalizia genovese venne abolita dai francesi nel ‘500 e da Napoleone nell’ 800… ma sempre ripristinata.
Oggi il Sindaco e il Priore della Compagna rappresentano Doge e Abate.
Oltre al valore culturale e storico il Confeugo simboleggia l’unione della città in tutte le sue componenti:
Il Doge, il governo borghese o aristocratico e mercantile (a seconda dei contesti) l’Abate, il Popolo artigiano, contadino e operaio, infine l’Arcivescovo, silenzioso e onnipresente, il potere ecclesiastico.

 

Storia di… un Re… di un Doge…

… un bombardamento… una guerra e un orgoglio che non ha prezzo.
Siamo nel 1684 il Re Sole, con il pretesto di un mancato saluto (ogni nave straniera che entrava nel Porto doveva, per antica consuetudine, sparare un colpo di cannone a salve, in omaggio alla Repubblica; Il Sovrano pretendeva l’esatto contrario), di un’amicizia con la Spagna (gli armatori genovesi stavano infatti allestendo un’imponente flotta per gli iberici), di un prestito non corrisposto (Il Re, per pagare le sue truppe sparse in tutta Europa, aveva bisogno delle “palanche” dei banchieri nostrani), della mancata concessione a vantaggio di Savona (città alleata dei nemici) di un deposito del sale, dà ordine alla sua flotta di centosessanta navi schierata e 756 bocche da fuoco dalla Foce alla Lanterna, di bombardare la città.

Quattro giorni di lutti e distruzione ma la Superba resiste, non si piega e ribadisce, davanti ad un’Europa terrorizzata, la propria LIBERTA’ e proclama la propria INDIPENDENZA!

Il marchese di Segnalay infatti, comandante della spedizione dà ordine a Duquesne, ammiraglio dello stuolo reale, nella notte fra il 22 e il 23 maggio di sbarcare a Sampierdarena con 3500 soldati e, come diversivo, con un piccolo contingente in Albaro.

La milizia repubblicana genovese però con l’ausilio di numerosi volontari polceveraschi, sotto la guida del Capitano Ippolito Centurione, respinge gli invasori.

I Francesi, fallito lo sbarco e terminate le munizioni, la sera del 29 maggio rientrano a Tolone.
Re Sole infuriato per l’accaduto fa rinchiudere nella Bastiglia l’ambasciatore genovese a Parigi Paolo De Marini, il quale riesce a far giungere ai Serenissimi una missiva in cui li esorta a non sottomettersi al despota francese e a non preoccuparsi per lui dato che, per l’onore e la dignità della Repubblica, sarebbe pronto alla morte.
Il diplomatico avrà salva la vita e, incaricato dal Senato, negozierà a Ratisbona la pace, sostanzialmente alle condizioni imposte dal Monarca.

L’anno seguente il Doge Francesco Imperiale Lercari invece, convocato a Versailles, dovrà dar soddisfazione al Re e ratificare il trattato di pace precedentemente pattuito.

“Quadro raffigurante il Doge genovese accolto a Versailles dal Re Sole per ratificare la pace”. Louis 14-Versailles 1685
Ma non rinuncerà al suo orgoglio di GENOVESE, quando interrogato su cosa l’avesse più colpito (il Sovrano si riferiva allo sfarzo della reggia, allo spettacolo dei giochi d’acqua delle fontane, all’opulenza dei nobili di Corte), rispose sprezzante “Mi chi”(di essere qui io).