All’angolo con Vico Dietro il Coro di San Luca i resti della Torre della famiglia degli Spinola. Le tracce degli archi in pietra e della cornice di archetti, interrotti da finestre posticce, si alzano fino al terzo piano.
Alla base è murata una colonna ottagonale in conci bianco e neri con capitello. Di fronte alla torre i resti di un’edicola in stucco a tempietto che, un tempo, conteneva un dipinto protetto da una grata. Il sacro contenuto è stato, insieme alla cornice e alla base che conteneva un cartiglio, brutalmente asportata. Restano menomato ricordo tracce di due teste di cherubini alati.
In Vico della Torre di San Luca al civ. n. 6 si trova uno splendido sovrapporta marmoreo del sec. XVII detto delle “Virtù degli Spinola”. Al centro una ghirlanda con il trigramma di Cristo e corona, sorretta da due angeli alati, affiancati da due armigeri con gli scudi del Casato. Ai lati le nicchie con due statue femminili che rappresentano le virtù della famiglia: Carità a sinistra e Fede a destra. Gli stipiti del portale hanno la cornice lavorata che presentava dei medaglioni imperiali, oggi scomparsi, perché rubati. Il portale sembra in pietra nera di Promontorio, in realtà è solo ricoperto di fuliggine, poiché di marmo bianco.
L’angolo fra i due vicoli che si contendono la torre, un tempo vanto degli Spinola, versa nel più completo degrado, in balia di topi sempre più intraprendenti e nella sporcizia più diffusa.
Un altro esempio dell’abbandono e dell’incuria in cui, purtroppo, versano opere d’arte che altrove sarebbero ammirate in un museo, qui invece sono annerite dallo smog e incorniciate da fili elettrici penzolanti.
… non c’erano ancora le ricche villette della borghesia… quando il tram scandiva i tempi degli spostamenti, da e verso Genova… quando la spiaggia era dominio indiscusso dei pescatori e ricovero dei gozzi… non come oggi un compromesso fra bagnanti e marinai…
Quando non era chiaro se il toponimo Priaruggia derivasse dal nome del torrente che le scorre attorno o se, al contrario, il rio dovesse il nome alla nobile famiglia dei Pietra Roggia che anticamente aveva possedimenti in zona e vi abitava… o ancora se traesse origine da uno scoglio in pietra rossa, oggi scheggiato dalle libecciate, sito davanti alla baia. Certo è che “Priaruggia” significa pietra da dove scaturisce l’acqua… e questa di certo non scarseggia…
Imbucato il budello di Canneto il Lungo all’altezza del civ. n. 23 s’incontrano la Torre e il Palazzo dei Maruffo Fieschi. Due pezzi di Medioevo difficilmente, per via dello stretto caruggio, individuabili. I resti di quest’imponente edificio si estendono anche sul lato di Vico Valoria.
I Fieschi, conti di Lavagna, erano una delle più nobili e antiche famiglie genovesi il cui prestigio e potere affondava le sue radici al tempo in cui Genova era ancora legata alle ripartizioni imperiali. I Maruffo invece, di origine spezzina, avevano importanti possedimenti a Sestri Levante. Dopo il 1100 si trasferirono nel ponente genovese (Voltri, Rivarolo, Coronata) e si distinsero nelle guerre contro Pisa e Venezia. In virtù del prestigio conquistato, acquisirono proprietà anche nel centro storico. Ne sono testimonianza l’omonima piazzetta (dietro la chiesa di San Giorgio) il palazzo in Canneto e, soprattutto, la poderosa torre eretta nel XIII sec. Persino l’Archivolto Baliano che comunica con Piazza Matteotti, un tempo era chiamato dei Maruffi.
Al piano strada si nota una finestra chiusa da un’inferriata in ferro battuto proprio sul basamento in pietra dell’antica torre alta ben 40 metri. Due arcate ogivali tamponate e un grande pilastro ad angolo delimitano quella che un tempo era una loggia aperta. Sopra di essa sono presenti fregi e archetti in pietra e laterizio. Il primo piano nobile è in laterizio con archi di pietra bicroma, ormai tamponati. Verso l’angolo spunta una colonnina marmorea. Anche verso la torre al secondo piano risalta una colonnina mezza intonacata con un accenno di arco con cordonatura.
La Torre dei Maruffo rappresenta una metafora della città; se vuoi scoprirla, devi alzare lo sguardo. Se non la cerchi non la trovi.
In Piazza Matteotti, accanto al palazzo Ducale, si affaccia la chiesa insieme all’Annunziata, più importante del Barocco europeo, la chiesa del Gesù. Dentro a questo edificio sono racchiusi capolavori secenteschi da far invidia a qualunque museo.
In realtà il nome completo dell’istituto è chiesa dei Santi Ambrogio e Andrea. In origine venne costruita nel ‘500 d. c. dai vescovi milanesi in fuga dalla loro città minacciata dai longobardi.
Il Vescovo Onorato nel 569 trasferì la diocesi lombarda al sicuro fra le mura di Genova stabilendosi sul Brolio, accanto al piano di S. Andrea e intitolando la chiesa al patrono di Milano, S. Ambrogio. Circa un millennio dopo nel 1552, la chiesa passò nelle mani del più influente ordine del tempo, quello dei Gesuiti, la cui potenza e ricchezza erano in continua espansione. Dal 1589 assunse le forme ancora attuali, facciata a parte, che venne ridisegnata nel sec. XIX dopo la demolizione della cortina di protezione del palazzo Ducale (il palazzo ducale comunicava quindi non solo con San Lorenzo, la cattedrale, ma anche con la chiesa del Gesù, il fulcro del potere gesuitico) e la relativa risistemazione della piazza. I disegni del prospetto esterno realizzati da Rubens vennero dall’artista stesso inseriti nel suo celebre trattato sui palazzi di Genova.
La classica facciata sulla quale spiccano le due statue dei santi del 1894 del Ramognino non rende giustizia su quale sfarzo e opulenza vi si possa trovare all’interno:
Cupola e navata principale sono affrescati da Giovanni Carlone e Giovanni Battista Carlone, mirabilmente inserite in un contesto di decori, stucchi e ori abbaglianti. Sull’altare principale campeggiano “La Circoncisione di Gesù”, capolavoro di Rubens, “La Strage degli Innocenti” del Merano e “La Fuga in Egitto” di Domenico Piola.
Nella navata di destra, nella prima cappella, affreschi del Galeotti e il dipinto “S. Ambrogio caccia l’imperatore Teodosio” di Giovanni Andrea De Ferrari. Le statue delle nicchie sono del Borromeo e di Domenico Casella.
L’affresco della seconda cappella è opera di Lorenzo de Ferrari ed una “Crocifissione” del Vouet. Lunette dell’arco esterno affreschi e statue del Carlone e della sua bottega.
Sotto l’altare Tommaso Orsolino ha scolpito un meraviglioso presepe marmoreo.
Sull’arco della terza cappella “L’Assunzione” di Guido Reni, affreschi del De Ferrari ed altre statue dei De Ferrari.
Dal lato opposto, nella quarta cappella della navata di sinistra “Il Martirio di S. Andrea” del Piaggio e di Andrea Semino, tela cinquecentesca, nella terza cappella gli affreschi del Carlone e “Sant’Ignazio guarisce un ossessa” di Pieter Rubens.
Nella seconda cappella “Il Martirio di San Giovanni Battista” di Bernardo Castello, “Il Battesimo di Cristo” di Domenico Passignano e statue rappresentanti Elisabetta e Zaccaria di Taddeo Carlone. Nella prima cappella affreschi di Lorenzo De Ferrari e il “San Francesco Borgia” di Andrea Pozzo.
Nella cantoria infine oltre all’organo, sono presenti sculture della bottega dei fratelli Santacroce e altre opere di Domenico Fiasella e, nella cappella di testata a sinistra, di Valerio Castello.
Non un solo centimetro risulta non stuccato, decorato, dipinto. Un trionfo di luci ed ombre con giochi di chiaroscuri mai visti prima, che trova il suo apogeo nella Circoncisione di Rubens. Il morbido e sensuale dipinto che sembra brillare di bagliori ultraterreni.
Due grandi marinai, esploratori della vita che, ciascuno nel proprio campo, hanno saputo tenere ben saldo il timone fra le avversità e le tempeste. Troppo grandi per non affacciarsi al mondo, si sono fatti onore ovunque con la loro arte. Troppo legati a questa città, madre severa ma pur sempre madre, per non farne punto di riferimento e porto sicuro al ritorno da ogni viaggio. Fabrizio e Renzo, a cui noi tutti genovesi siamo debitori: per le inimitabili poesie del primo e per la rivitalizzazione del Porto Antico, del secondo. Renzo ha ancora grandi sogni e progetti per la sua città e Fabrizio, anche se non c’è più, sicuramente con la sua musica è lì che li accarezza come una fresca brezza di mare. Con il vento in poppa, avanti tutta!
Si tratta indiscutibilmente di uno dei luoghi di culto più affascinanti della città. Collocata sotto la collina di castello, a ridosso del Mandraccio, la chiesa dei SS. Cosma e Damiano nella sua lineare architettura romana, gioca a nascondino fra i caruggi.
Un tempo la zona era nota con il nome di “contrada serpe” ed era puntellata di abitazioni turrite, dimore strategiche delle famiglie più in vista dell’epoca: Malloni, Della Volta, Della Chiesa, Zaccaria, Castello.
La struttura, come del resto gran parte della zona, venne pesantementedanneggiata durante il bombardamento del re Sole del 1684, il chiostro distrutto. I bombardamenti dal 1942 al 1944 completarono lo scempio causando la perdita d’importanti dipinti, come elencato nell’inventario della chiesa, di Giovanni Roos, Domenico Castello e Domenico Fiasella.
Interessanti sono le sculture poste sul portale datate intorno al 1155, le più antiche dell’edificio. L’architrave è il reimpiego di una cornice romana arricchita da un motivo a mosaico in marmi policromi. Particolari poi, sui capitelli del vestibolo di destra, le sculture di una sirena-uccello e di una sfinge dal volto femminile. Il resto della costruzione è risalente al ‘200.
La storia di questa chiesa risale alla notte dei tempi, intorno al VII sec. d. c. quando venne intitolata una cappelletta al vescovo di Pavia San Damiano. La fabbricazione vera e propria del tempio avvenne, come testimoniato dai documenti di fondazione, solo nel 1049. Durante il secolo successivo la chiesa raggiunse il suo apogeo con la costruzione del portale, l’erezione della torre nolare e l’inserimento del rettore fra gli aventi diritto alla votazione per l’elezione del Vescovo.
Nel 1296 le famiglie Mallone e Spinola donarono le reliquie, provenienti da Costantinopoli, dei due fratelli martiri, Damiano e Cosma che divennero così i santi cointestatari dell’edificio. Essendo i due i patroni dei chirurghi e dei barbieri, dal 1476 le relative corporazioni vi stabilirono la comune cappella della propria consorteria.
La facciata a capanna, in pietra, tripartita da lesene nella parte superiore, presenta in basso un basamento nel quale sono ricavate tre tombe ad arcosolio con arcate a tutto sesto del XII sec. ed una con arco acuto retto da colonnine gotiche, con decorazione a bande bianche e nere, detta “tomba del Barisone”, realizzata durante la ristrutturazione del XIII sec. Durante l’anno è spesso abbellita da addobbi floreali, nel periodo natalizio nobilitata da un grazioso presepe.
Nella facciata si aprono due monofore in alto un finestrone semicircolare, realizzato nel XVII sec., quando venne costruito il tetto in muratura in sostituzione di quello originario a capriate lignee, distrutto dal bombardamento francese del 1684.
Nella parte superiore della facciata restano tracce del primitivo rosone. L’interno a tre navate puntellate da sei colonne bianco nere, in marmo di Carrara e di pietra di Promontorio con capitelli a forma di foglia di acanto, si presenta spoglio ed essenziale. I mattoni a vista sono frutto d’interventi settecenteschi posteriori al bombardamento. Lo scarno aspetto non deve trarre in inganno perché sotto le navate sono custodite pregevoli opere d’arte quali: “La Madonna del Soccorso” del XIV sec. di Barnaba da Modena, autore anche della più nota “Madonna del Latte” ricoverata oggi in San Donato, “Ester e Assuero” del XVI sec. di Bernardo Castello, “La Madonna col Bambino e i Santi Cosma e Damiano che guariscono i malati” di Gioacchino Assereto e “Il Transito di San Giuseppe” del XVII sec. di Giovanni Andrea De Ferrari.
Nell’abside di sinistra è situato il fonte battesimale medievale scolpito nel marmo mentre sull’altare spicca la statua marmorea della Madonna Immacolata del XVII sec. del marsigliese Pierre Puget, apprezzato autore di simili opere nell’Albergo dei Poveri e nell’Oratorio di San Filippo Neri.
Per gli amanti della musica merita menzione il settecentesco organo a canne.
Sul pavimento si nota un disegno particolare: il teschio e le tibie incrociate il simbolo del jolly roger adottato dai pirati.
Ma le sorprese non finiscono qui perché una volta usciti nella piazza al civ. n. 2r ecco un antichissimo sovrapporta con San Giorgio e il drago in pietra nera di Promontorio. Il rilievo purtroppo risulta ormai abraso mentre la cornice marmorea con motivi floreali risulta ben conservata. Passato l’archivolto che conduceva un tempo allo scomparso chiostro si notano due nicchie vuote e, svoltando a sinistra s’incontra una lapide del XVI sec. raffigurante due angeli nell’atto di sorreggere un medaglione col volto di un santo non ben identificato. Imboccato il Vico dietro il Coro ecco due edicole: la prima, al civ. n. 6r quella del XVII sec. della Madonna della Misericordia. La Vergine che appare al Beato Botta è contenuta in un rilievo tondo delimitato da una pesante cornice alla cui sommità campeggia un cuore elaborato con fregi e riccioli con al suo interno il trigramma di Cristo e il monogramma di Maria con la corona. Poco dopo, la seconda, una Madonna di città in un tabernacolo a tempietto marmoreo classico, con una volta arcuata e testina di cherubino alato. Ai lati delle lesene decori con ampi riccioli e fogliami. La statua della Madonna è mancante.
Ai SS. Cosma e Damiano il gioiello incastonato nella pietra, dove un tempo l’onda frangeva sulla scogliera, si respira ancora l’odore di salsedine e si raccontano ancora storie di pirati.
non era ancora stata intitolata alla moglie dell’eroe dei due mondi… quando il Promontorio di Portofino e la Torre Gropallo si sorvegliavano a vicenda… intenti a scrutare l’orizzonte.
La passeggiata a mare infatti, portava allora il nome, in onore dei Savoia, “Principessa di Piemonte” (fino al 20/4/1944) poi, durante la Repubblica di Salò, “X Flottiglia Mas”, in omaggio al valoroso corpo militare della Marina. Poco dopo la Liberazione di Genova la Promenade venne definitivamente dedicata ad Anita Garibaldi (19/6/45), coraggiosa e fedele compagna del Generale.
La cinquecentesca torre che ospita oggi alcune associazioni (Lega Navale e Alpini del quartiere) era nota invece con il nome di “torre del fieno”, per via del combustibile usato per produrre segnali di fumo e comunicare a tutto il litorale gli avvistamenti di pirati e nemici. Mutò nome a metà dell’800 in onore del promotore della scenografica passeggiata, il Marchese Gropallo che l’aveva acquistata.
Coppie che passeggiano mano nella mano, eleganti signori che discutono amabilmente, mare mosso e spumeggiante, il sentiero che s’inerpica sulla scogliera, la torre immobile ma vigile e là, in fondo, il gigante sdraiato a protezione… negli ultimi due secoli, in fondo, non è cambiato granché… manca solo la sagoma, oggi abbandonata, della Marinella.
Giacomo Doria c’erano dei giardini botanici, serre e frutteti… quando in tempo di guerra gli orti vennero adibiti alla coltivazione della patata, alimento indispensabile nell’indigenza del momento… quando Viale Brigata Bisagno non era stata ancora intitolata all’omonima formazione del Regio Esercito della prima guerra mondiale e il rettifilo allora si chiamava Via del Prato.
Il museo venne istituito nel 1867 (il primo domicilio fu presso Villetta Dinegro, nel 1912 venne trasferito nell’attuale sede) per volontà di Giacomo, l’ultimo membro di tal nome, degno della schiatta dei Doria, che volle donare alla città la sua inestimabile collezione di animali, rocce, fossili, minerali e varietà botaniche unica in Italia a quel tempo, di oltre quattro milioni di esemplari.
c’era la spiaggia e i gozzi dei pescatori adagiati sulla rena… quando, prima degli anni ’60, non c’erano ancora né il quartiere fieristico, né Piazzale Kennedy e nemmeno i “Baracconi” o il circo… solo un’infinita distesa di mare azzurro.
è proprio il caso di dirlo visto che le attività concernenti la ricezione e la distribuzione del pesce sono state recentemente trasferite a Cà de Pitta, vicino ai macelli… quando tra il 1933 e il 1935 l’architetto Mario Bracciolini concepì la moderna, per l’epoca, struttura, in grado di soddisfare le esigenze del settore.