Vico Denegri

costituisce tipico esempio delle suggestive atmosfere che si possono respirare nei nostri vicoli.

Il caruggio deve il suo nome all'omonima famiglia originaria di Portovenere.

Il capostipite di tale schiatta fu nel XII secolo un tal Manfredo detto, probabilmente per il colore brunito della sua carnagione, il Negro. Da qui quindi l'origine del cognome del casato.

Fra i membri dei si segnalano illustri ammiragli: Guglielmo nella missione del 1205 per difendere Siracusa, Giacomo di Ottone nel 1257 contro i Pisani, Luchino di Galeotto nel 1330 al servizio del re di Roberto D'Angiò.

Salvago Di Negro nel 1334 fu invece straordinario capitano che al comando di 10 galee sconfisse la temibile e più numerosa flotta catalana.

Degna di menzione anche Franceschetta di Sigismondo che nel 1447 dette alla luce la futura Santa Caterina di Genova, ovvero Caterina Fieschi Adorno.

Nel 1528 i Di Negro formarono (a parte un ramo già confluito nei Giustiniani) il quarto albergo della riforma doriana.

Nel 1585 Ambrogio di Benedetto fu Doge e numerosi poi dal ‘500 a fine ‘700 furono i senatori della . Nel 1586 Benedetto di Giuseppe Di Negro rivestì la carica di Cardinale.

Ma il personaggio più famoso fu senza dubbio Andalò di Salvago. Figura di ingegno poliedrico. Fu scienziato, astrologo, poeta, ambasciatore, amico di Marco Polo e nel 1342 addirittura maestro del Boccaccio.

L'inquadratura dello scatto ritrae il tratto di caruggio successivo alla loggia del Palazzo Ambrogio Di Negro il cui ingresso principale si trova in Via n. 2.

Anticamente qui aveva sede la corporazione degli Acquavitai e perciò il vicolo era noto anche come il caruggio dell'Acquavite.

Vico Denegri muri ricchi di fascino e storia.

Bellezza…

In copertina: Vico Denegri. Foto di Leti Gagge.

Lo Sciachetrà…

Superba ardeva di lumi e cantici, nel mar morenti lontano Genova, al vespro lunare dal suo arco marmoreo di palagi” (Giosuè Carducci). Ma più che la città al poeta colpì la bontà dello (Sciachetrà nella dizione più arcaica), da lui definito “essenza di tutte le ebbrezze dionisiache”

Un vino passito già decantato da Plinio e raccontato da Boccaccio e Petrarca. D'Annunzio lo descrisse profondamente sensuale e lo volle presente nei suoi lussuriosi banchetti. Una produzione scarsa quella dello Sciacchetrà che indusse , in difficoltà nel reperirlo, a pretenderlo “in nome della letteratura italiana”.

La fatica e la passione di chi lo produce è antica quanto l'origine del suo nome: secondo alcuni “Sciacchetrà” deriverebbe dalla primitiva parola semitica “shekar” che significherebbe bevanda fermentata. Per altri, più probabilmente, da due termini della millenaria lingua ligure “sciac”, schiacciare l'uva e ”tra” , togliere le vinacce durante la fermentazione.

“Lo spettacolare ed incomparabile scenario dei vitigni che sembrano tuffarsi nel mare”.

Tuttavia tra le strette e irte fasce in cui le viti si arrampicano per guadagnarsi il panorama sul mare circola un'antichissima leggenda, antecedente addirittura l'epoca romana, al tempo in cui gli abitanti delle erano in continua lotta fra loro.

Stanchi dei frequenti scontri che impedivano di godere dei benefici della pace e di dedicarsi quindi alla vigna e alla pesca interpellarono un saggio eremita. Questi a ciascun rappresentante del singolo paese gli portasse un grappolo d'uva proveniente dalla propria terra.

Qualche tempo dopo il sapiente mandò a chiamare gli interessati ed offerse loro una coppa del vino ottenuto con la miscelazione delle uve fornite.

Lo stupore e la meraviglia per quel nettare paradisiaco, generato dall'unione delle risorse dei cinque borghi, fu tale da garantire pace e concordia perenne per quelle contrade.

La lezione del savio era servita, facile come bere un bicchiere di Sciacchetrà!

 

Storia del “rovigliolo” (raviolo)…

 … del Paese della Cuccagna… di un poeta goliardico e… di un nostalgico musicista…

Già nel 1100 una che conteneva un “roviglio” (ripieno) era patrimonio comune sulle tavole dei . Notizie certe sulla sua genesi, basate su fonti storiche, non ne risultano; molte località del Genovesato, di conseguenza, ne rivendicano la paternità.

Una delle versioni più diffuse è quella che ne farebbe risalire l'origine alla famiglia “Ravioli” di Ligure che, per prima, avrebbe proposto il succulento piatto. Nel ‘200, complice le fiere e i mercati del Piacentino e dell'Astigiano, il si sarebbe poi diffuso oltre l'Appennino, nel parmense con il nome di “tortello” e in con quello di “agnolotto”.

Le prime tracce in ambito letterario risalgono al ‘300  quando  nel suo celeberrimo “Decamerone” il lo cita fra le leccornie nella novella sul Paese della Cuccagna in cui il protagonista Calandrino racconta: “… stava genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di Capponi e rotolano da una montagna di formaggio grattuggiato”. Raviolo in brodo certo, o cotto nel vino ma per me, come per il “Signore del violino”, la versione più appetitosa risulta essere quella condita con il “tuccu” (ragù alla genovese). In una lettera del 1839 di risposta ad un amico, infatti, Paganini ormai prossimo alla morte lontano dalla sua , descrive minuziosamente la ricetta per preparare i ravioli e del “tuccu” con il quale si raccomanda di condirli.

Ecco perché il Raviolo è musica inarrivabile per il nostro palato!

In copertina: ravioli di una nonna di Murta.