Il mio nome è Magro… Cappon Magro…

Si tratta di uno dei piatti più importanti e complessi della nostra cucina. Una vera e propria, soprattutto per quanto concerne decorazione e presentazione, opera d’arte.

Il Cappon magro nasce come piatto povero nelle cambuse dei marinai e di recupero in quelle delle cucine dei nobili, fino a giungere impreziosito e rielaborato sulle tavole dei ricchi.

Intrigante è già la genesi del nome che, a differenza della sua bontà, può trarre in inganno.

“Cappone” deriva infatti non dall’omonimo pesce, né dal pollastro al quale vuole sostituirsi, bensì dal termine francese “chapon” un grosso crostino di pane secco o galletta, tostato e strofinato con aglio, ideale per le zuppe.

Il nome richiama inoltre la caponata siciliana, e in effetti nella cucina ligure è presente una versione locale di caponata.

Un’insalata estiva di pomodori, cetrioli, peperoni, lattuga, uova sode, bottarga e tonno essiccato, condita con olio d’oliva..

 

Il termine “magro” indica invece  il suo essere un piatto di magro, riservato cioè ai giorni di penitenza e quaresimali antecedenti la Pasqua.

Il pesce e la verdura di cui è composto vengono elaborati a strati su una base di galletta.

Il piatto prende spunto da una semplice insalata di magro, costituita da galletta ammollata in acqua e aceto, pesce salato, tonno e alici, e, se possibile, olive, origano e sempre un po’ d’olio come condimento: in pratica l’equivalente della capponadda – parente povera del cappon magro – in passato assai popolare come preparazione tipicamente marinara.

Il passaggio dalle galee alle tavole nobili portò ad arricchire la ricetta, spesso definita con altri termini come biscotto magro o biscotto condito. Gli ingredienti si fecero sempre più raffinati e al pescato si unirono le verdure lessate, il tutto amalgamato da una particolare salsa verde capace di armonizzare i sapori rendendo l’insieme impareggiabile. Nei libri contabili di alcune famiglie nobili genovesi si trovano riferimenti inequivocabili al cappon magro, sia come piatto dei giorni di magro – magari in versione più sobria – sia come portata fastosa da ostentare durante i banchetti ufficiali tenuti in giorni di astinenza dalle carni.

“Archivio di libri contabili di una nobile famiglia del ‘700”.

Come raccontato dal “cucinosofo” Sergio Rossi nei primi due ricettari delle Cuciniere ottocentesche, vi si ritrova sia la ricetta per il cappon magro, sia l’alternativa definita economica per la minor varietà di ingredienti e la più sobria composizione del piatto. Una singolare costante di questa ricetta è costituita dal biscotto o dalla galletta. Nell’impiego si tratta di due prodotti analoghi, ma nella sostanza assai differenti fra loro. Il cosiddetto biscotto è preparato in lunghi filoni che dopo la cottura sono tagliati a fette per essere sottoposti a un secondo passaggio in forno: da qui il nome bis-cotti.

La galletta, invece, è preparata con un impasto differente e confezionata in forma di piccola focaccina. Una sola cottura la rende asciutta e conservabile, tanto che, in passato, chi ne controllava la consistenza prima di accettare i carichi da stivare nelle cambuse delle navi, pretendeva che le gallette fossero “vetrose”, perfettamente asciutte e quindi conservabili a lungo.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è FB_IMG_1677007557511-1024x854.jpg
Cappon Magro. Foto e preparazione dellla Trattoria delle Grazie.

Spesso il miglior biscotto era preparato con farina di grano duro e grazie a una particolare lavorazione dell’impasto e alla differente resa della farina, il risultato finale era straordinario sia nella consistenza, sia nel sapore.

A proposito della scelta dei pesci si può decidere di utilizzare la polpa di un solo tipo di pesce e quindi orientarsi su una palamita o una ricciola, la gallinella o la leccia, oppure utilizzare le varie qualità di pesci insieme, anche di scoglio, seguendo le diverse cotture.

Non possono poi mancare: seppie, mitili, calamari e gamberi.

Le verdure da impiegare sono: cavolfiore, zucchine, rapa rossa, carote, carciofi (o asparagi secondo stagione).

 

La prima cosa da preparare, possibilmente il giorno prima è la salsa verde che se riposa una notte è decisamente più armoniosa!

 

Si prepara frullando insieme (o nel mortaio per i puristi) una grande manciata di prezzemolo ben lavato, con uno spicchio d’aglio, un pizzico di sale grosso, cinque acciughe sotto sale, due tuorli d’uova sode, olio extra vergine d’oliva, possibilmente taggiasco, una manciata di olive e capperi, una presa di mollica di pane bagnata nell’aceto.

 

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è FB_IMG_1676653004124.jpg
Gallette del marinaio di Camogli.

Occorre inoltre della buona Galletta del marinaio come quella tipica di San Rocco di Camogli.

 Si inizia con la pulizia del pesce che si bolle in acqua bollente salata aromatizzata con un mazzetto di carota e di sedano.

Il pesce, una volta cotto, va pulito, diliscato e spolpato. Operazioni che vanno effettuate con molta cura poiché Il pesce nostrano è spesso ricco di lische.

Si procede poi con la cottura dei crostacei e delle verdure.

E’ fondamentale cuocere ogni qualità di pesce e di verdura separatamente l’una dall’altra e una volta pronta condirla con un pochino d’olio e metterlo in contenitori diversi per non mischiare i sapori ed i colori.

 

Una volta che tutti i pesci e tutte le verdure sono state cotte e condite con la salsa verde si può procedere con la composizione del Cappon Magro.

Si inizia con la galletta del marinaio, imbevuta in acqua e aceto che si pone in fondo a un piatto da portata, la sequenza prevede uno strato di pesce seguito da uno strato per ogni tipo di  verdura un po’ di salsa verde e un altro strato di pesce e così fino a completare il piatto che si ricopre di salsa verde e si decora con le verdure a striscioline sui lati e i gamberi sulla cima.

Necessita di riposare almeno una notte prima di essere servito e gustato.

Tutti i sensi vengono coinvolti e adulati in un trionfo di colori, gusti e profumi in una sensuale tentazione per il palato.

Per Buglione e per i pansoti…

I pansoti sono un piatto imprescindibile della cucina ligure che racchiude l’intima essenza del nostro carattere eppure, pur essendo ormai un piatto consolidato della tradizione, la loro nascita è relativamente recente. La prima codifica scritta di cui si ha notizia risale infatti alla Guida Gastronomica d’Italia del TCI edita nel 1931 a pag. 189 in cui, sotto la voce Rapallo, si citano i “pansoti cu a salsa de nuge”.

“La forma a cappelletto del pansoto”.

L’etimo del nome richiama, per via della forma, il termine “pancia”. Possono avere sia la forma a triangolo che a mezzaluna ma, avendo il termine il significato appunto di pasta dall’aspetto panciuto, quella più consona è a tortello, meglio ancora a “cappelletto”.

A differenza dei ravioli con farcitura di sola carne o mista di borragini, il ripieno dei pansoti è il tradizionale preboggion, interamente realizzato di magro.

Il preboggión ,o prebuggiún  è un miscuglio di erbe spontanee tipiche delle nostre terre. Esso consiste in un insieme di erbe selvatiche cucinate mediante una breve bollitura, utilizzate per minestre, frittate, torte ma in particolare per il ripieno dei pansoti che vanno conditi con la salsa di noci.

Preboggion è un termine della lingua ligure non traducibile letteralmente in italiano: esso deriva probabilmente dal verbo preboggî  che significa “pre-bollire”, in senso culinario, quindi una sorta di “scottato da bollitura”. A seconda della zona può assumere significati particolari e diversi:

“Il preboggion nell’erbolario”.

ad esempio nelle valli Trebbia e Aveto “prebuggiun” indica un piatto a base di patate lesse condite con soffritto di cipolle e nel quale mai o solo raramente compaiono erbe spontanee; in alta Val Graveglia il termine indica invece un minestrone a base di ortaggi coltivati, in altre zone, come nello spezzino e nel basso Piemonte (o come dico io Alta Liguria), un ricco minestrone senza legumi con o senza riso o pasta. A Levanto, addirittura, sono i fiori di zucca. Le erbe che costituiscono il preboggión sono 14 e non necessariamente, causa la difficile reperibilità e la differente stagionalità, devono essere usate in contemporanea. L’abilità della cuoca sta nel saper dosare in maniera equilibrata aromi, sapidità e sapori delle singole erbette, al fine di produrre, unite alla prescinseua, come un moderno druido, la pozione perfetta.

Curiosa è poi l’antica leggenda che dona un po’ di poesia a questa gustosa ricetta. Nel 1099, durante l’assedio di Gerusalemme della Prima Crociata, il comandante della spedizione cristiana Goffredo di Buglione si ammalò e rimase, probabilmente febbricitante, debole per diversi giorni. Fu così che i Balestrieri genovesi agli ordini di Guglielmo Embriaco si diedero da fare per recuperare nell’arido deserto delle erbe con le quali preparare una minestra che potesse rimettere in piedi il condottiero francese. “Pro Buglionis…Per Buglione”… “preboggión”.

Eccone, se qualcuno volesse cimentarsi, la lista:

“Le erbe selvatiche del preboggion”.

Amarago, Bietola di prato, Borragine, Cicerbita, Cicoria (radiciùn), Dente di leone, Grattalingua, Ortica, Papavero, Radicchio selvatico, Raperonzolo, Sanguisorba, Silene, Tarassaco.

“La salsa di noci”.

Molto semplice la preparazione della salsa di noci: pulire dalla pellicina i gherigli delle noci dopo averli sbollentati circa 5 min. Mentre si asciugano e raffreddano in una ciotola versare la mollica di pane ammorbidita con il latte. Mixare o, per chi ne ha la la possibilità, pestellare le noci insieme ad aglio, maggiorana e grana, unendo poco alla volta olio e latte per rendere omogenea la salsa. Aggiustare di sale e pepe e condire i Pansoti.

Storia, poesia, cultura sono apparecchiate in tavola.

“Se piace al Padrino…”

La storia del salame di S. Olcese è sostanzialmente “cosa loro”, dei Cabella e dei Parodi  le due famiglie che, da oltre un secolo, se ne contendono la paternità.

Nei primi decenni dell’Ottocento la fama di questo salume varcò i bucolici confini della Val Polcevera per invadere sapidamente le tavole inurbate dei genovesi. 

L’abbinamento con le fave divenne binomio imprescindibile di qualsiasi scampagnata primaverile. Ancora oggi infatti, nel genovesato, non si contano le sagre che, da aprile in poi, celebrano il gustoso connubio. Dato l’aumento della domanda i due salumifici estesero la loro richiesta di forniture alle valli limitrofe, Valle Scrivia, Stura, Bisagno e basso Piemonte o, come dico io, alta Liguria, dalle quali approvvigionarsi delle materie prime, le carni.

“Il salame di S. Olcese. Immagine tratta dal sito del salumificio Parodi”.
“Per par condicio, immagine tratta dal sito del salumificio Cabella”.

Il gustoso insaccato è frutto dell’armonica fusione in parti variabili di carne suina (di Piemonte ed Emilia) e bovina del Piemonte (astigiano, alessandrino, cuneense). Il salame, nonostante la scontata evoluzione tecnologica, tuttora viene essiccato a legna, legato a mano e segue fedele l’antica ricetta che prevede l’aromatizzazione a base di aglio e vino bianco del Polcevera.

Entrambe le famiglie vantano documentati diritti di primogenitura. I Parodi hanno fondato l’impresa nel 1890, mentre i Cabella hanno iniziato nel 1911. Secondo i Cabella a fare fede però è la registrazione in Camera di Commercio e la loro risulta essere la prima. Se poi si discute sulla primitiva produzione casareccia tutto è opinabile e ciascuna delle due parti in causa rivendica la precedenza.

“Peter Clemenza, capo regime del clan di Corleone, è interpretato da Richard Castellano (da adulto) e Bruno Kirby (da giovane). Nella foto l’attore R. Castellano”.

L’ultima controversia tra le due famiglie che si rispettano ma non si frequentano, l’una i Parodi a nord del paese, l’altra i Cabella a sud  è proprio legata alla ricetta base. i Parodi e i Cabella hanno tesi diverse, i primi ci metterebbero più suino, i secondi più bovino. Discordi su questo punto focale non hanno trovato un punto d’incontro e quindi il salame di S. Olcese non ha ottenuto la benedizione europea che esigeva una codifica ufficiale della ricetta. Niente ricetta-base nero su bianco, niente benedizione, denominazione e tutela europea.

Pazienza, a S. Olcese ne fanno una questione d’onore .

D’altra parte, all’inizio del capitolo n. 6 del romanzo “Il Padrino”, Mario Puzo così scriveva:

“Il romanzo di Mario Puzo con il titolo originari The Goodfather fu pubblicato nel 1969 ispirando la saga dei vari Padrino (Parte prima 1972, seconda 1974 e terza 1990) di Francis Ford Coppola interpretati da Marlon Brando, Robert De Niro e Al Pacino. Fra gli altri attori non vanno dimenticati Robert Duvall , il Consigliori e Gastone Moschin, nei panni del cinico Don Fenucci”.

“Peter Clemenza quella notte dormì male. La mattina si alzò presto, si preparò da solo la colazione con un bicchiere di grappa, una spessa fetta di salame di Genova, e un grosso pezzo di pane italiano fresco che veniva ancora consegnato alla porta come nei vecchi tempi”.

Da S. Olcese a New York il salame è “cosa loro”, anzi, “cosa nostra”!

A scanso di equivoci l’associazione tra il Padrino e il salame di S. Olcese è una mia licenza poetica. Il salame di Genova citato da Puzo nulla ha a che fare con il nostro insaccato, trattasi infatti di altro tipo di salume.

“Quattro amici al bar”…

Il Bombardino, una delle più diffuse bevande montanare, nacque al rifugio “Mottolino” di Livigno in provincia di Sondrio.

Fin qui nulla di strano se non fosse che ad ideare il cocktail più apprezzato in tutte le mescite dell’arco alpino sia stato un giovane genovese che, dopo aver prestato servizio presso gli alpini, prese in gestione una baita della zona.

Seduto con quattro amici al bar, in una gelida sera come tante, proprio come nella canzone di Gino Paoli, non cambiò il mondo ma inventò un miscuglio di latte, zabaione e whisky bollente con l’auspicio che riscaldasse dal rigido inverno. Il genovese ed i suoi amici fecero assaggiare la calda pozione ad un cliente che esclamò soddisfatto:” Accidenti! è una Bombarda”. Fu così che venne battezzato il nuovo preparato.

Dopo qualche tempo un lavorante del rifugio rivelò a terzi la ricetta del Bombardino contribuendo così alla sua rapida diffusione su tutte le piste da sci del circondario, fino a superare i confini regionali . Al latte venne sostituita la panna montata e al Whisky il Brandy o il Rhum.

Nacquero così le tre varianti con cui ancora oggi è possibile gustarlo:

Calimero con zabaione e caffè espresso; Pirata con zabaione e rhum, Scozzese con Zabaione e Whisky.

Esistono tuttavia delle versioni “free style” in cui i liquori vengono mischiati a piacimento purché collante comune rimanga l’uovo dello zabaione.

Anche sulla neve ci si scalda il cuore con un sorso di Genova!

Meditate gente… meditate…

Recitava lo slogan pubblicitario di  qualche decennio fa di Renzo Arbore a proposito delle proprietà della birra.

Ritornello che si può ben adattare alle vicende della rinfrescante bevanda all’ombra della Lanterna. Se è vero che Magone nel 218 a. C. aveva raso al suolo la città a causa del sapore acetato del suo vino, altrettanto vero è che la birra ha avuto sempre, come testimoniato dal ritrovamento di Pombia, un ruolo rilevante nella cultura degli antichi Liguri.

In epoca moderna poi  Genova è stata una delle principali città in cui, sotto gli influssi asburgici, attecchì il consumo del dissetante fermentato.

Nel 1882 infatti, in pieno regno sabaudo in seguito alla triplice alleanza di cui facevano parte piemontesi, prussiani e austriaci, numerosi funzionari stranieri presero residenza nel centro cittadino.

“Operai all’ingresso della Fabbrica della birra di Busalla”.

Fu così che a Genova fiorirono decine di birrerie spesso con tanto di oste bavarese verace e bionde e allegre “kellerine” a servire schiumanti  boccali. Molti di questi locali erano concentrati nel salotto della città, nell’area che dalla Prefettura degradava lungo Salita S. Caterina e la galleria Mazzini. Fra questi spiccavano in particolare, la Gambrinus e la Lowenbrau che si trovavano in via S. Sebastiano.

“Mia figlia in versione kellerina natalizia”.

Il proprietario di quest’ultima si chiamava Monsch ed era un bavarese purosangue, da lui andavano a ristorarsi sia i funzionari asburgici che quelli italiani nell’encomiabile tentativo di trovare qualche argomento in comune oltre all’alleanza militare. Svolazzava per il locale la celebre Nelly, una prosperosa cameriera che colpirà la fantasia poetica di Camillo Sbarbaro che tra una sosta in un bordello e una in birreria ebbe modo di ricordare nella sua raccolta di versi “Fuochi fatui” anche la bella kellerina.

La Gambrinus arredata con stile tirolese era apprezzata trasversalmente dai ricchi notabili genovesi come dai semplici operai e portuali che amavano risalire i caruggi dal porto per andarsi a rinfrescare il palato con un’invitante birra. Genova in quegli anni godeva di un favorevole situazione economica, dopo l’annessione al Regno d’Italia e la crisi del ’49, culminata con la vergognosa repressione del La Marmora, la politica dei Savoia fu quella di richiamare verso la città capitali foresti  di una certa rilevanza. Allo stesso tempo l’aumento dei flussi migratori verso Nord e Sud America costituì uno straordinario impulso per il porto che conobbe, in quegli anni, un periodo di considerevole sviluppo. Anche la vita mondana della città era in grande fermento: il teatro Carlo Felice richiamava attori e attrici di fama internazionale; Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio trascorrevano notti pantagrueliche nei ristoranti della galleria, frequentati anche da Lina Cavalieri, attrice ritenuta da molti ammiratori la “donna più bella del mondo”. Le feste e i luculliani banchetti organizzati in suo onore fornirono copioso materiale per i giornali dell’epoca.

“Il logo della birra Cervisia con S. Giorgio che uccide il drago”.

 Alla stessa maniera nel ristorante – birreria di Pippo Luce, fra luci e paillettes,  s’innalzavano continui brindisi nei confronti delle belle attrici di passaggio. Il giornalista Anton Giulio Barrili  fondatore de “il Caffaro” e  Stefano Canzio presidente del Consorzio Autonomo del Porto, entrambi ex garibaldini, discutevano di politica con una birra così come faranno poi negli anni a venire grandi poeti liguri come Eugenio Montale e Camillo Sbarbaro.

A metà di Galleria Mazzini si trovava la birreria Zolezi  che offriva musica di classe dal vivo con la particolare proposta, un unicum in tutta Europa, di un apprezzato quartetto composto solo di violoncelliste viennesi.

L’attrazione al di là della musica era il fascino delle bellezze teutoniche molto gradito agli impiegati della Questura (all’epoca presso Palazzo Ducale). Carabinieri e poliziotti in libera uscita si accalcavano per vedere le prosperose bionde ragazze e le scazzottate, complice qualche birra di troppo, erano all’ordine del giorno.

Un’altra famosa  birreria si trovava in Piazza Corvetto gestita dal figlio di un deputato prussiano coadiuvato da un  singolare personaggio, un austero cameriere vestito in puro stile asburgico. Altre birrerie si trovavano in largo Zecca, vicino alla stazione Principe e in via Caffaro.

Il fascino e le mescite di quel periodo sono ormai un lontano e sbiadito ricordo, tuttavia esistono ancora in città dei  locali dove si può parzialmente rivivere i bei tempi andati, in particolare vanno citati:

“L’insegna della birreria bavarese”.

 L’HofBrauhaus in via Boccardo dove ci si può immergere nella più calorosa atmosfera bavarese accompagnando la birra che si predilige ad un’ottima cucina che abbina ai classici wurstel e stinchi, piatti ricercati e raffinati.

Non da meno, in un’atmosfera invece british,  sono il Britannia di Vico Casana dove, con un po’ di fantasia, si ha l’impressione di essere dentro ad un pub londinese, oppure nel cuore di Dublino, all’Irish pub di Vico della Croce Bianca in quello che, un tempo, era il quartiere del ghetto ebraico.

Lo stesso dicasi alla Foce per il Tartan pub di chiara impronta scottish solo che, anziché ascoltare le discussioni fra i supporters cattolici dei Celtics e quelli protestanti dei Rangers  di Glasgow, si assiste ai coloriti sfottò fra tifosi genoani e sampdoriani.

Un posto particolare però, nella storia della birra a Genova, spetta al Birrificio di Busalla che da tempo si è conquistato una preziosa nicchia di mercato per la superiore qualità del suo prodotto.

“Foto d’epoca dello stabilimento della Cervisia”.

La Fabbrica, nata nel 1905, si è guadagnata l’inserimento nel prestigioso elenco delle imprese Storiche, unico esempio in Liguria nel campo della produzione di birra artigianale.

“Maltus Faber raccoglie l’eredità, anche nel logo, della birra Cervisia”.

Altrettanta importanza nella memoria imprenditoriale della Superba riveste il marchio Maltus Faber che ha infatti sede all’interno dello stabilimento di Via Fegino n. 3, sito storico per la birra genovese in quanto, all’inizio del ‘900, ospitava il complesso della Fabbrica di Birra Cervisia.

L’antico marchio venne acquisito dal gruppo Dreher che vi istituì anche una rinomata scuola per Mastri Birrai. Successivamente l’etichetta venne ceduta alla Heineken che, in breve tempo, ne cessò la produzione.

Scura, bionda o rossa,

come l’onda a Genova,

l’importante è che la birra sia mossa.

Prosit!

La leggenda del polpo di Tellaro…

Gli abitanti di Tellaro avevano costruito una chiesetta vicino al mare. Lì avevano posto una sentinella con il compito di suonare a martello le campane in caso di pericolo. “Con questa tempesta nessuno metterà di sicuro la propria nave in mare. Stanotte posso dormire tranquillo”. Sicura di se, la sentinella si appisolò, felice di non dover stare con gli occhi aperti fino al mattino successivo. A mezzanotte in punto i pirati si avvicinarono alla riva. Proprio quando stavano per attraccare, le campane della chiesetta si misero a suonare, battere e rintoccare…

I Tellaresi si precipitarono a difendere il loro paese e ricacciarono in mare i pirati saraceni. Scongiurato il pericolo si chiesero chi avesse suonato la campana, visto che la sentinella dormiva fra le braccia di Morfeo? Ai piedi del campanile i tellaresi videro un enorme polipo attaccato alle funi delle campane: era stato lui a salvare il paese!
La leggenda trae origine da un avvenimento storico realmente accaduto nel luglio del 1660 quando un manipolo di pirati saraceni guidati da Gallo d’Arenzano tentò un fallito assalto al borgo. Una targa affissa all’esterno della chiesa di S. Giorgio celebra il leggendario episodio:

Saraceni mare nostrum infestantes sunt noctu profligati quod polipus aer cirris suis sacrum pulsabat“.

“La storia raccontata con gli occhi e i tratti di un bambino”.

Da allora i Tellaresi hanno adottato il cefalopode come simbolo del paese anche se, a dire il vero, non gli sono stati poi così grati visto che la sua preparazione culinaria è divenuta una presenza irrinunciabile sulle loro tavole.

Il polpo alla tellarese è una gustosa variante di quello lessato con le patate comune a tutta la regione e prevede nel condimento, a base di olio locale, l’aggiunta ad aglio e prezzemolo, di olive nere della riviera.

 

E Cervisia fu… la rossa…

La più antica traccia relativa alla birra risale a circa 6000 anni fa e consiste in una tavoletta sumera che raffigura delle persone che, a mezzo di una cannuccia, sorseggiano la dissetante bevanda da un recipiente comune.

In una poesia a lei dedicata, la dea mesopotamica  Ninkasi, ce ne fornisce addirittura la ricetta:

« Ninkasi, tu sei colei che cuoce il bappir nel grande forno,

Che mette in ordine le pile di cereali sbucciati, Tu sei colei che bagna il malto posto sul terreno… Tu sei colei che tiene con le due mani il grande dolce mosto di malto… Ninkasi, tu sei colei che versa la birra filtrata del tino di raccolta, È come l’avanzata impetuosa del Tigri e dell’Eufrate »

Il più remoto ritrovamento archeologico invece, che attesta la produzione della birra (termine sumero “se-bar-bi-sag” ossia, “colui che vede chiaro”), è avvenuto in Mesopotamia e risale all’epoca predinastica sumera, circa 4000 anni a.C.

“Le tavolette di Blau conservate al British Museum”.

Sono delle tavolette di argilla scoperte dall’archeologo francese Blau (per questo chiamate “monumento Blau”) vicino al fiume Eufrate e conservate al British Museum di Londra.

In esse sono raffigurati i doni propiziatori offerti alla dea Nin-Harra (dea della fertilità).

“Il Codice di Hammurabi custodito presso il Louvre di Parigi”.

Persino nel celeberrimo Codice di Hammurabi, la più arcaica raccolta di leggi mai pervenuta, vi sono elencate alcune norme che ne regolano detenzione, commercio e produzione.

Il consumo di birra si diffonde presso gli egizi, i greci, i fenici, gli etruschi e i romani. Questi ultimi prediligeranno l’espansione, anche per motivi legati al culto religioso, del vino.

Da qui in poi i barbari popoli del Nord, Vichinghi, Alemanni, Sassoni, Pannoni e Celti in generale, ne saranno i principali custodi.

Gambrinus, l’origine del cui nome è molto dibattuta (probabilmente contrazione da Jan Primus, leggendario re fiammingo per alcuni, semplice mastro birraio, per altri), nel Medioevo diviene patrono protettore della birra.

Cosa c’entra tutto ciò con Genova e la Liguria direte voi?

C’entra eccome e non solo per il secolare rapporto commerciale della Repubblica marinara con le Fiandre, che da quelle lande ne importerà barili su barili, ma perché la più antica testimonianza fisica di questa bevanda in Europa non riguarda i nordici bensì gli antichi Liguri. Nel 1994 infatti a Pombia in provincia di Novara, odierno Piemonte, un tempo territorio abitato dai nostri avi, è stato rinvenuto un singolare reperto datato 560 a.C. :

una coppa posta sopra un’urna funebre, contenente i resti di una birra di luppolo scura, probabilmente rossa di media alta gradazione, risalente in piena civiltà proto celtica ligure di Golasecca, all’età del Ferro.

Ulteriori studi ed analisi hanno confermato trattarsi di birra rossa. Essa è forse da identificare con la  cervesia/cervisia citata da Plinio (Storia naturale, XXII, 82) e Isidoro di Siviglia (Origini, XX, 3, 17)  se, come supposto, il termine deriva dall’indoeuropeo “kerewos “(cervo/rosso).

D’altra parte a proposito dei nostri antenati annotava  Strabone , Geografia, IV, 6, 2: “I Liguri vivono perlopiù delle carni dei greggi, di latte e di una bevanda d’orzo ed occupano delle terre vicino al mare e specialmente i monti” aggiungendo poi che “il loro vino è scarso, resinato ed aspro”. Tesi quest’ultima adottata, secondo la tradizione, come pretesto da Magone nel 218 a. C. per distruggere Genova poiché, a suo dire, “una città dove non cresceva una buona vite, non meritava di essere risparmiata”.

“Gambrinus patrono della birra”.

Secondo Ateneo i Liguri, come i Frigi e i Traci, chiamavano la loro birra Bryton (ricostruito sulla base di “bracis”, tipo di farro celtico), come riporta Plino, dunque anche l’area ligure produceva verosimilmente una propria birra d’orzo a fianco ai vini locali.

Il ritrovamento di Pombia non solo costituisce la più antica attestazione materiale europea di birra presumibilmente ad alta gradazione, ma addirittura potrebbe retrodatare di molto l’utilizzo del luppolo come aromatizzante e conservante della birra stessa, spiegando così il mantenimento di un ampio gradimento e consumo popolare della birra nell’Europa Occidentale ancora in età romana nonostante la crescente concorrenza del vino. per cui pare legittimo supporre che la birra stessa in partenza fosse abbastanza scura e rossastra (dunque corrispondente alla cervisia delle fonti classiche).

“Il logo, indiscutibilmente genovese, della birreria Cervisia, fondata a Fegino nel 1906”.

Dalla Mesopotamia l’arte della fabbricazione della birra passò in Egitto, per poi diffondersi in Europa: oggi, grazie ai ritrovamenti nella necropoli di Pombia, sappiamo che anche i Celti vi si dedicarono con successo. Furono bevitori di birra pure gli Etruschi ed anche all’epoca delle civiltà ellenica e romana la birra, spesso chiamata vino d’orzo, era più conosciuta di quanto comunemente si pensi o creda.

In questa lunghissima storia che attraversa i millenni anche i Liguri hanno avuto la loro parte…

 

 

 

“Intu mezu du ma… gh’è ‘n pesciu tundu…”

 Che derivi dal norvegese “stokkfisk”, dall’olandese “stocvisc” con il significato di pesce bastone, o dall’inglese “stockfish” con quello di pesce da stoccaggio, il termine stoccafisso indica il merluzzo essiccato all’aria secondo un preciso procedimento consolidato nei secoli dai Vichinghi. I navigatori nordici infatti, compresero che il pesce disidratato, non solo riduceva i rischi di contrarre infezioni virali e che occupava meno spazio a bordo, ma che aumentava addirittura, a parità di peso, quasi del triplo la resa proteica. Un alimento quindi ideale da trasportare, facile da conservare nei lunghi viaggi per nutrire gli equipaggi e da utilizzare come merce di scambio.

220px-hjell-oversikt-arj
“Le particolari strutture rialzate da terra utilizzate per l’essicazione del merluzzo”.

Non va confuso con il baccalà che, pur avendo origine dallo stesso pesce, è ottenuto con una tecnica diversa, quella della salagione. Questa basica distinzione comporta delle eccezioni lessicali a seconda della regione in cui viene elaborato: ad esempio il famoso “baccalà alla vicentina” è in realtà preparato in prevalenza con lo stoccafisso, quindi con il merluzzo essiccato e non con quello salato.

Nella nostra penisola giunse nel sud, in Calabria e Sicilia in particolare, grazie ai Normanni anche se è solo ad inizio del ‘500 che inizió ad essere importanto regolarmente. Qualche decennio più tardi si diffuse anche al nord, a Venezia e Genova, le due regine dei traffici marittimi.

fb_img_1479473044185
“Interno della bottega dello stoccafisso in Soziglia”. Foto di Leti Gagge.

Merito dell’espansione dello stoccafisso fu anche della chiesa che, dopo il Concilio di Trento avvenuto a metà del ‘500, prescrisse un maggiore consumo, rispetto al canonico venerdì, di piatti di magro. Complice il suo prezzo accessibile, unito alle indubbie qualità organolettiche e nutrizionali, l’uso dello stoccafisso si propagò facilmente. Ancora oggi il Bel Paese, è il principale importatore mondiale (quasi il 90%) di merluzzo. In particolare Calabria, Campania, Sicilia, Liguria, Livorno e Ancona risultano esserne i maggiori acquirenti.

10430449_10203147529145358_3520536860262028742_n1
“Stoccafisso bollito con patate e olive taggiasche. Foto e preparazione dell’autore”.

I veneti raccontano di un naufragio avvenuto nel 1431 di una nave di S. Marco sotto il comando del capitano Pietro Querini, partita da Creta, carica di Malvasia, alla volta delle Fiandre. Con i suoi 49 membri di equipaggio, ruppe il timone nel Golfo di Biscaglia e, in balia delle correnti, andò alla deriva a sud delle isole Lofoten in Norvegia. I naufraghi una volta esaurite le scorte, si cibarono di un grosso pesce del peso di quasi un quintale, rinvenuto morto sulla rena. Sopravvissero grazie ai soccorsi della popolazione locale giunta attirata dall’enorme falò che i marinai avevano imbastito sulla spiaggia per cuocere la gigantesca bestia. Fu così che, rimasti sull’isola in attesa che l’inverno passasse, i veneziani cominciarono ad apprezzare il “Gadus morhua”, ovvero il merluzzo. Secondo questa versione lo stokke sarebbe approdato in Italia, l’anno successivo, di ritorno da quell’avventuroso viaggio. Tuttora le isole Lofoten, patria della qualità “ragno” la più pregiata, costituiscono il maggiore produttore mondiale di stoccafisso.

Al sud viene cucinato alla messinese in Sicilia, alla mammolese in Calabria, all’anconetana, nelle Marche, in Basilicata alla lucana, al nord invece, in Veneto viene consumato alla vicentina.

In Liguria giunse intorno al ‘600 in virtù dei traffici della Repubblica di Genova con il Portogallo, probabilmente importato dalle imbarcazioni dei Pessagno che, con quel paese, intessevano rapporti privilegiati. La nobile famiglia di marinai genovesi infatti, originaria delle valli alle spalle di Chiavari, si distinse alla corte del regno lusitano, a tal punto da ricoprire e tramandarsi per più di tre secoli la carica di “Almirante maggiore”.

63734_10203147529345363_3914176230613230440_n1
“Stoccafisso accomodato. Foto ed elaborazione dell’autore”.

Nella nostra regione viene preparato semplicemente bollito, accomodato, alla badalucchese, a brandacujun o con i bacilli (piccole fave secche). Quest’ultima elaborazione, come ricordato nel proverbio “A-i Morti, bacilli e stocchefisce no gh’é casa chi no i condisce”, in particolare per la ricorrenza dei morti visto che, fin dal tempo degli egizi, a questo legume era associato il culto dei defunti.

A Badalucco una località della Valle Argentina dell’entroterra imperiese, la popolazione costiera si era rifugiata per sfuggire alle scorrerie piratesche. Leggenda narra che sopravvisse all’assedio nemico grazie alle scorte di stoccafisso come rievocato nell’annuale manifestazione  in costume medievale di cui è protagonista.

10801547_10203147529545368_1297539261720856238_n1
“Per par condicio, stokke bollito accompagnato da una Valpolicella veneta. Il Campanile delle Vigne fa da testimone al matrimonio”.

Il brandacujun deve invece il nome al singolare modo di mescolamento con cui viene preparato nel ponente ligure: lo stokke e le patate bollite, cosparsi di aglio e prezzemolo, limone, olio e olive taggiasche vengono energicamente “brandati” cioè, scossi a coperchio chiuso fino ad ottenere una armonica amalgama degli ingredienti.

Cucinatelo come vi pare ma assecondatelo con un rosso corposo, come ad esempio un bel Rossese di Dolceacqua o un Refosco veneto e il vostro palato ve ne sarà grato.

“Mare in burrasca, vento forte,

bollito o accomodato la sua morte,

in serate come queste, a Zena,

con lo stoccafisso si cena…

ultimo consiglio, se posso,

accompagnarlo con il rosso”.

ma se volete andare proprio sul sicuro, ascoltate questi goliardici versi di mezzo secolo fa.

O l’é lungo, o l’é dûo, o l’é tosto
o l’é bon se piggiòu in quello posto,
s’o l’é appenn-a sciortïo d’in te balle
(ma attension ch’o no l’agge e farfalle),
o sta ben con e sò due oïve
(se no son tanto passe, ma vive)
e magnificamente o s’adatta
o s’accomoda con a patatta;
ma beseugna ûn pö mettilo a bagno
(finn-a in fondo, ch’o segge ben stagno).
Se capisce ch’o ven feua mollo
(specialmente in ta zona do collo).
Ciò non toglie ch’o piaxe ûn pö a tûtte
zoene, vëgie, ciû belle ò ciû brûtte.
A sposinn-a a no o piggia mä invïo
quande a casa ghe o porta o marïo.
Pe-a zitella o boccon o l’é ghiotto
(anche mollo ò ûn pö bazanotto).
E, scibben ch’a mugugne pe-a spûssa,
anche a nonna sdentä ûn pö a s’o sûssa!
Me ricordo ancon quande mae poae
o metteiva in te man a mae moae,
ritornando a-o porto in sce o tardi:
lê a o trattava con tûtti i riguardi,
e dixendoghe: – bello o mae ragno! –
a o metteiva lì sûbito a bagno.
E a-a mattinn-a, che l’ëa ancon scûo,
a l’ammiava s’o l’ëa ancon dûo,
e a ghe diva: – ti o lasci ancon drento? –
E mae poae: – mi saieiva contento,
ma n’öriae ch’o m’andesse in malôa,
te gh’òu lascio, ma solo pe ‘n’ôa. –
E mae seu? Me sovven comme vei:
no gh’ëa verso de fâgheo piaxei.
A no o poeiva nemmeno toccâ:
«son segûa che a mi o me fa mä!»
Fin a quande a s’é faeta o galante
(ûn portuale lê ascì, carenante)
ch’o l’aveiva bello grosso e gûstoso
e o ghe l’ha regalòu d’arescoso,
e chissà, forse pe-a qualitae
differente da quella do poae,
ò magara pe-o semplice faeto
ch’o l’ëa quello che lê o gh’aiva daeto,
ò soltanto pe fâlo contento…
faeto sta che da quello momento
a figgieua a s’é decisa a assazzâlo,
continuando poi sempre a piggiâlo!
Anche mi da piccin me credeivo
ch’o dovesse fâ mä, e no ne voeivo,
ma ‘na votta, ch’aveiva bevûo,
assazzâne ûn tocchetto ho vosciûo,
lì pe lì o m’ha daeto disgûsto,
poi però gh’o sentïo in çerto gûsto,
e, d’allôa, devo dî che o gradiscio…
(a propoxito: o l’é… o STOCCHEFISCIO!!)

Poesia dialettale scritta nel luglio ’71 da Luigi Vacchetto, detto “O Bacillo”.

Storia della focaccia recchelina…

La storia della focaccia al formaggio affonda le proprie radici in tempi molto lontani: addirittura, secondo alcuni, nel giorno della Pentecoste dell’anno 1189 era già presente nel banchetto imbandito presso l’abbazia di Capodimonte (San Fruttuoso) per celebrare, dopo il solenne Te Deum in chiesa, i crociati in partenza per la terza crociata in Terrasanta.

L’elenco delle cibarie infatti, oltre a pagnotte di farro e grano farcite di miele, fichi secchi e zibibbo, pesce in carpione, agliata e olive, descrive appunto una singolare focaccia di semola con giuncata rappresa.

Secondo altri invece la sua origine sarebbe relativamente più recente e risalirebbe al periodo a cavallo fra ‘500 e ‘600 quando tutta la riviera di levante, e la zona di Recco in particolare, erano oggetto delle frequenti incursioni estive dei pirati musulmani. Gli uomini rimanevano a presidiare il litorale mentre donne, anziani e bambini si recavano nell’entroterra carichi del sale,della farina e dell’olio necessari per sopravvivere. Non potendo infatti curarsi degli orti né dedicarsi alla pesca per provvedere al loro sostentamento, i nostri avi preferivano mettere al sicuro i propri cari per poter meglio occuparsi della difesa delle coste e del territorio.

"La focaccia prima della cottura".
“La focaccia prima della cottura”.

Fu così che le donne barattarono olio e sale, che avevano in abbondanza, con il formaggio dei pastori (all’inizio di pecora poi cagliata vaccina, la prescinseua) delle valli limitrofe, impastarono il composto di olio e sale con l’acqua dei torrenti, aggiunsero le formaggette e le cossero su lastre di ardesia creando in questo modo la gustosa focaccia. Per molti anni venne preparata solo per celebrare il 2 novembre, la ricorrenza dei defunti.

Con il tempo alla formaggetta ligure e alla prescinseua è stata sostituita la crescenza lombarda, per il resto ricetta e preparazione sono rimaste sostanzialmente inalterate. Che sia per merito del cenobio di San Fruttuoso e dei crociati o delle donne dei marinai della Repubblica una cosa certa è che fu la cuoca Manuelina, a fine ‘800, a riprendere il piatto dalle antiche origini per riproporlo agli avventori della sua trattoria di Recco. Ben presto la sua fama si sparse anche negli ambienti della Genova bene e divenne, insieme alle trofie, un classico della cucina recchelina.

Il locale che ancora oggi ne porta il nome sforna un’ottima focaccia al formaggio; ma se volete una serata alternativa portatevi della Bianchetta fresca, fermatevi al forno Moltedo sotto il ponte ferroviario, acquistata la focaccia, proseguite verso la Ruta. Dopo pochi chilometri sulla destra troverete un piccolo spiazzo dotato di un paio di panchine, affacciato sul golfo Paradiso. Assisterete ad un tramonto senza eguali gustando un cibo straordinario e avrete la piacevole sensazione di essere in pace con il mondo.

Le acciughe…

“Le acciughe fanno il pallone che sotto c’è l’alalonga, se non getti la rete, non te ne lascia una, non te ne resta una”. F. De André.

L’acciuga da sempre risorsa peculiare della nostra regione, molto apprezzata quella di Monterosso e della riviera di Levante, è alimento imprescindibile delle nostre tavole sulle quali viene preparata in numerose varianti: sotto sale, alla marinara, all’ammiraglia, alla sanremese, o sulla “Piscialandrea” (nel ponente), all’agro, alla sarda, al finocchio, al forno, in involtino, ripiene, con il riso, con radicchio, cavolfiore o coste di bietole (entroterra), con nocciole o tartufo (basso Piemonte), in tortino di patate e verdure (alla vernazzese), con patate e funghi, infarinate (se di piccola taglia), impanate (se di pezzatura più grande) e fritte, in Bagnùn (Riva Trigoso), in tegame al verde, cotte a crudo nel limone, come condimento della pasta (insieme alle olive taggiasche e al pan grattato), al pomodoro, alla piastra o alla griglia (se le dimensioni lo permettono), in zuppa, come base di numerose salse (per la Bagnacauda) e sughi, comunque le si cucinino sono favolose e inimitabili.
In passato, ancora fino a metà del secolo scorso, “l’anciùa” nostrana era fonte di scambi con il Piemonte dove i nostri acciugai  si recavano con i loro carretti colmi di olio della riviera e pesce azzurro.
Più sovente i “Pesciai”, a onor del vero, erano valligiani della Valle Maira, nel cuneense che, per sopravvivere nei lunghi mesi invernali, acquistavano i prodotti liguri per rivenderli nelle loro valli, in  Lombardia e in Emilia.
Le acciughe venivano vendute  sotto sale mentre l’olio veniva barattato; per ogni litro di nettare ligure, cinque litri di vino Barbera.