La sacrestia delle meraviglie

La sacrestia di Santa Maria di Castello costituisce un ambiente assai suggestivo, degna anteprima delle meraviglie che si presenteranno all’ospite durante la visita del complesso.

Vi si accede in corrispondenza del transetto destro attraverso un piccolo atrio, già cappella Grimaldi, impreziosito da un’acquasantiera di Giovanni Gagini.

Sotto all’essenziale volta gli arredi con armadi settecenteschi in noce su un pavimento a rombi bianco neri conferiscono alla sala un aspetto austero e solenne.

Subito si nota una superba pala settecentesca (1738) con San Sebastiano di Giuseppe Palmieri ma il pezzo forte è rappresentato dallo spettacolare “portale maggiore“, opera di matrice toscana dovuta a Leonardo Ricomanni e allo stesso Gagini (1452), sovrastato da una lunetta gotica del XIV secolo con la Crocifissione.

Accanto al portale è collocato un gruppo settecentesco in legno policromo raffigurante la Madonna di città col Bambino venerata da san Bernardo durante il suo soggiorno genovese.

“Madonna di Città” di Marcantonio Poggio. Foto di Giuseppe Ruzzin.

La scultura proveniente dallo scomparso oratorio di Santa Maria, San Bernardo e santi Re Magi, che sorgeva poco distante dalla chiesa, è attribuita al maestro Marcantonio Poggio.

Aperta la porta di uno degli armadi a parete magicamente si accede al retro del coro e al percorso museale, da un varco in fondo alla stanza invece, alle scalette di accesso all’atrio della celebre loggia dell’Annunciazione.. ma queste sono altre storie…

La Grande Bellezza…

In copertina: la sacrestia di Santa Maria di Castello. Foto di Stefano Eloggi.

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La collina di Castello

La collina di Castello con il sottostante Campo di Giano (Sarzano) sovrasta l’insenutara del Mandraccio e accoglie l’antico oppidum cittadino (V Sec. a. C.) posto a difesa dell’approdo di Genua, poi città murata e sede della “Compagna communis” nel 1099.

Per conformazione e collocazione la zona di Castello appartenne prima ad una grande consorteria, quella degli Embriaci De Castro, poi al vescovo e, infine, a diverse comunità religiose (in particolare i domenicani di S. Maria di Castello) che qui costruirono vasti complessi conventuali sia femminili che maschili.

Il sole al tramonto illumina con la sua luce dorata la grande bellezza della Torre De Castri e dei campanili di San Silvestro, di Santa Maria di Castello e di Santa Maria in Passione.

“Anche la luce sembra morire
Nell’ombra incerta di un divenire
Dove anche l’alba diventa sera
E i volti sembrano teschi di cera”.

Cit. da “Inverno” di Fabrizio De Andre’.

La Grande Bellezza…

Foto di Leti Gagge.

Il Portale Maggiore

Sotto il transetto destro in fondo alla chiesa di S. Maria di Castello, proprio accanto alla tomba dell’emerito medico Demetrio Canevari, si accede alla sacrestia e al suo magico mondo di arredi settecenteschi, passaggi segreti e opere d’arte.

Di queste la prima è già di per sé l’elaborato portale marmoreo di scuola toscana che ne nobilita l’ingresso realizzato nel 1452 dal maestro Leonardo Riccomanno su progetto di Giovanni Gagini.

In alto sulla cornice due angeli sorreggono il cartiglio in cui sono elencate le donazioni elargite dai Grimaldi al convento e come, di conseguenza, quella in origine fosse la loro cappella gentilizia.

Il “portale maggiore” così viene identificato dagli storici dell’arte è tutto finemente intarsiato in tripudio di decori di raffinata maestria: putti e motivi floreali si susseguono in un trionfo di rara bellezza.

Foto di Bruno Evrinetti.

Santa Croce… la chiesa scomparsa…

E’ uno degli scorci più suggestivi di Genova, un luogo sospeso nel tempo dove luci ed ombre ingannano lo spazio giocando a nascondino. Si tratta di Via e Piazza di Santa Croce incastrate fra Sarzano e la collina di Santa Maria di Castello, il fulcro più antico del centro storico.

Qui, vegliati da una settecentesca edicola del Battista, si ha la possibilità di effettuare una passeggiata a ritroso nel tempo di quasi 900 anni nella scomparsa chiesa di Santa Croce.

“La settecentesca edicola di San Giovanni”. Foto di Leti Gagge.

L’edicola presenta un tempietto in marmi policromi con semi colonne ioniche e raffigura San Giovanni Battista nel deserto accompagnato da San Giovannino con in braccio l’agnello. La mensola poggia su un cherubino alato mentre la statua del santo presenta il braccio destro mozzato.

Quest’area costituiva un tempo l’antico complesso di Santa Croce, vicino all’attigua omonima porta, una delle tante strutture del litorale cittadino, atte al ricovero dei pellegrini da e verso la Terrasanta.

“La Piazza di Santa Croce”. Foto di Leti Gagge.

“Interni del locale La Passeggiata”. Foto di leti Gagge.

All’interno del locale, nomen omen, “La Passeggiata” al civ. n. 21r ne sono testimonianza i resti ancora visibili di brani della pavimentazione originale, di porzioni del muro perimetrale con un grande arco tamponato facente parte delle Mura del Barbarossa (1155) e una nicchia dove sono conservati dei reperti rinvenuti durante la ristrutturazione avvenuta qualche anno fa.

“Porzione del muro perimetrale del tempo del Barbarossa”. Foto di Leti Gagge.

In questo edificio, luogo di culto della comunità lucchese, era custodito un simulacro del crocifisso, da non confondersi con il Cristo Moro, del celebre “Volto Santo” tanto venerato in patria dai toscani. Il crocifisso del Cristo Moro così caro ai genovesi, oggi ricoverato in S. Maria di Castello, invece un tempo si trovava in una cappelletta sottostante il vicino monastero di San Silvestro.

Il complesso di Santa Croce, con annesso ospitale venne gravemente danneggiato durante il bombardamento del re Sole del 1684 e successivamente ricostruito in forme barocche nei primi anni del ‘700. Nel 1805, a seguito degli editti napoleonici, venne definitivamente soppresso ed inglobato nei palazzi di abitazione. La vicina San Salvatore ne incorporò nel 1809 il titolo, i beni e gli arredi.

“Le quattro colonne ottocentesche”. Foto di Leti Gagge.

“Brani della pavimentazione originale”. Foto di Leti Gagge.

“La nicchia contenente i reperti”. Foto di Leti Gagge.

Le quattro scenografiche colonne di pietra e laterizi fanno invece parte della ristrutturazione ottocentesca quando la chiesa venne trasformata in abitazioni private.

“La Salita della Seta”. Foto di Leti Gagge.

Prima d’incrociare con lo sguardo Salita della Seta con la sua pendenza tutt’altro che morbida, al civ. n. 33 s’incontra lo spettacolare portale in ardesia ristrutturato e ricostruito su modello rinascimentale. Sul fastigio un’aquila a due teste che tiene con le zampe il globo e una fiaccola, lo stemma nobiliare degli Spinola. Sul trave l’epigrafe “Flangar non flectar” (mi spezzerò ma non mi piegherò), il motto così adatto alle secolari vicissitudini della Repubblica.

“Il portale al civ. 33”. Foto di Leti Gagge.

“Antica stampa del complesso di santa Croce”.

La chiesa di Santa Croce non c’è più ma la si può lo stesso immaginare lì, seguendo il percorso dello stretto caruggio che costeggia le mura di contenimento del Castello. Rivolta verso il mare e inglobata dalle case costruite sopra le Grazie sita, proprio come allora, in una posizione invidiabile.

Giordano Bruno e l’asino…

In un paio di scritti Giordano Bruno fa riferimento ai suoi soggiorni nei territori della Repubblica di Genova, nella Superba in particolare, e a Noli anch’essa Repubblica alleata e sotto sovranità genovese.

Il filosofo campano proveniva da Roma da dove si era dileguato avendo ormai compreso che il processo intentatogli dall’Inquisizione con l’accusa di eterodossia, non volgeva a suo favore.

In un primo momento si era diretto verso le città lombarde ma, causa una violenta epidemia che stava flagellando quelle terre, virò verso Genova dove rimase colpito, lui così razionale, dall’ingenua creduloneria dei fedeli.

“Facciata di S. Maria di Castello. Non lasciatevi ingannare dall’anonimo prospetto, al suo interno conserva tesori inestimabili”.

Siamo nell’aprile del 1576 nella settimana antecedente la domenica delle Palme e il monaco domenicano entrò, ce lo racconta lui stesso ne “Lo spaccio della bestia trionfante”, in contatto con i membri del suo stesso ordine di S. Maria di Castello: “Ho visto io i religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo non toccate, baciate, questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolima. Adoratela, baciatela, porgete limosina: centum accipietis, et vita aeternam possidebitis”.

Di questa preziosa reliquia il filosofo ne parla ancora per bocca di uno dei protagonisti de “Il Candelaio” che, entrando in scena, giura sulla: “benedetta coda dell’asino che adorano i genovesi”.

Da tale illustre testimonianza si deduce che, in occasione della commemorazione dell’entrata in Gerusalemme di Gesù a cavallo di un’asina (o asino, o cavallo, cavalla?), i religiosi domenicani di S. Maria in Castello mostravano la preziosa reliquia ai fedeli.

Di codesta vicenda a Genova non si ha più traccia e i resti dell’animale hanno percorso altre strade fecondando nuove leggende. A Verona, ad esempio, si narra che Cristo, una volta entrato in Gerusalemme, volle che l’asino tornasse libero per il resto dei suoi giorni. Il quadrupede vagò in paesi stranieri e, laddove era necessario attraversare il mare, l’acqua s’induriva come il cristallo, permettendone il passaggio. Fu così che visitò Cipro, Rodi, Creta, Malta, la Sicilia, costeggiò tutto l’Adriatico fino al golfo di Venezia fermandosi nel punto esatto in cui, sarebbe poi sorta la nostra opulenta rivale. Alla bestia però non doveva essere piaciuta quella zona insalubre e paludosa poiché riprese il cammino guadando l’Adige fino a raggiungere Verona, meta ultima del suo lungo peregrinare, dove visse ancora a lungo. Una volta morto gli furono tributate sfarzose esequie e i suoi resti mortali furono conservati dai devoti di quella città nel ventre di un asino artificiale fatto costruire apposta. Questa statua esiste tuttora ed è custodita nella chiesa della Madonna degli Organi dove, quattro dei più robusti monaci del convento, vestiti in pompa magna, la portano in solenne processione.

” La statua della Muleta, scultura lignea del XIV sec. custodita nel convento di S. Maria in Organo”

Tale scultura in legno, opera del XIV sec. è detta della “Musseta” (“Muletta”).

Leggenda narra che la statua si fosse arenata sulle rive dell’Adige, di fronte alla chiesa, e che contenesse al suo interno la pelle dell’asino che aveva trasportato Gesù quando era entrato a Gerusalemme.

 

“Ritratto di Voltaire”.

Questa epopea aveva incuriosito anche Voltaire che nel suo “Dizionario filosofico” tenta di spiegare razionalmente questa favola con il fatto che la maggior parte degli asini porta sulla schiena una sorta di croce nera sul pellame della schiena. Probabilmente fu notata una croce più evidente delle altre, venne messa in giro la diceria che quello fosse l’asino sacro sul cui dorso Gesù aveva cavalcato e, una volta morto, gli tributarono solenni funerali. Così, secondo il celebre enciclopedista, sarebbe nata la leggenda dell’asino di Verona e, da qui, si sarebbe poi diffusa in Francia dove, questa favola veniva addirittura raccontata durante la messa, al termine, della quale il prete si metteva a ragliare forte per ben tre volte e il popolo gli rispondeva in coro. Un esperto di reliquie francesi Collin de Plancy affermava che: “benché gli abitanti di Verona si vantassero di possedere per intero le reliquie dell’asino di Gesù Cristo, veniva mostrata a Genova, come un prezioso gioiello, la coda dello stesso asino”.

Giordano Bruno da Genova si diresse a Noli dove si mantenne insegnando grammatica “Andai a Noli, territorio genovese, dove mi intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la grammatica a’ figliuoli e leggendo la “Sfera” a certi gentiluomini”.

Il “De Sphera Mundi” era un trattato del XIII sec. opera di un monaco domenicano inglese, illustre professore alla Sorbona di Parigi, tornato di moda al tempo del filosofo campano, proprio per sostenere le tesi tolemaiche contro quelle copernicane sbandierate da Giordano Bruno stesso e dai liberi pensatori come lui. Conoscendo il coraggio e l’intelligenza del filosofo è probabile che questi non si sia limitato a spiegare quel trattato, assai in voga nelle scuole, ma che si sia adoperato per smontarne il contenuto punto su punto. “Eppoi me partii de là (Noli) e andai prima a Savona, dove stetti circa quindici giorni: e da Savona a Turino, dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il Po”.

“La statua in Onore di Giordano Bruno eretta in Campo dei Fiori a Roma nel luogo dove il filosofo venne arso vivo. Scultura di Ettore Ferrari”.

Alla base del monumento si legge un’iscrizione del filosofo Giovanni Bovio, oratore ufficiale della cerimonia di inaugurazione: “A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse“.

Da Venezia viaggiò in tutta Europa rafforzando e diffondendo sempre più le sue tesi rivoluzionarie e destabilizzanti per la chiesa cattolica: in Savoia, in Francia, Inghilterra, Germania, Praga, Svizzera, quindi di nuovo a Venezia infine a Roma  dove il 17 febbraio sarà arso vivo in Campo dei Fiori.

“Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla”, furono le sue celebri ed ultime parole.

La sua coscienza si è affidata al giudizio della Storia dalla quale è stato assolto mentre gli uomini continuano a ragliare come asini.

«Li nostri divi asini, privi del proprio sentimento ed affetto vegnono ad intendere non altrimente che come gli vien soffiato alle orecchie delle rivelazioni o degli dei, o dei vicarii loro; e per conseguenza a governarsi non secondo altra legge che di que’ medesimi. » (Cabala del Cavallo Pegaseo).

“Genova è bella sempre…”

Nel gelido gennaio del 1922 l’artista arrivò in una Genova imbiancata dalla neve. Scese dal treno alla stazione di Piazza Principe, accompagnato da un suo allievo di nome André Maire. Avvolto in un mantello di loden grigio indossava un vestito scuro che gli conferiva un’aria al contempo elegante e fascinosa. Nei mesi in cui dimorò a Genova prese alloggio in una modesta stanza in Piazza Embriaci, all’ombra della maestosa torre, proprio accanto al cuore del vecchio centro medievale della chiesa di S. Maria di Castello.

“Autoritratto del 1897 del pittore”.

 Nonostante avesse ormai scollinato i cinquant’anni, si muoveva agile e furtivo, come un ratto tra i caruggi, dove non perdeva occasione per dipingere e disegnare le meraviglie della città vecchia. Trascorreva gran parte del suo tempo al coperto delle volte studiando le chiese oppure, all’aria aperta, prendendo appunti e immortalando scorci in schizzi e bozzetti. Il suo nome era Emile Bernard, pittore francese neo impressionista, fondatore del movimento simbolico insieme a Gauguin, amico e collega di Toulose Lautrec, Van Gogh e Cezanne.

Frequentava una vicina osteria nella zona delle Grazie dove consumava pasti frugali confondendosi e chiacchierando volentieri con la gente del porto. Anche se rincasava tardi, trascorreva qualche ora, ospite al caldo nella cucina della padrona di casa, intento nel riordinare e correggere, assistito dall’allievo, gli acquerelli e i carboncini prodotti durante la giornata.

“L’edizione dei Fiori del mare di Baudelaire, illustrata da Bernard”.

Fra le tante opere dell’artista si segnalano le particolari  illustrazioni fatte per l’edizione della Stamperia Nazionale di Parigi del “Le fleur du mal” di Baudelaire ed una copiosa produzione di tele e stampe esposte nei principali musei europei.

“Illustrazione di Bernard della femmina dannata nel Fleur du Mal di Baudelaire”.

Bernard era anche uno scrittore, con lo pseudonimo di Jean Dorsal infatti, pubblicò diversi volumi di liriche, saggi storici e di critica artistica. Fra quest’ultime compilò anche una preziosa monografia dedicata al Magnasco, pittore genovese per il quale nutriva una sincera e profonda ammirazione.

Compose circa 20 sonetti in francese ispirati dalla misteriosa bellezza di Genova che pubblicò in una raccolta, prodotta in soli cento esemplari, intitolata “Figurations eternelles”.

Bernard partì, a fine primavera, in una mattina di sole, una di quelle giornate in cui benedici il Signore per averti fatto nascere qui, promettendo a tutti quelli che avevano avuto l’onore di conoscerlo, che sarebbe tornato a Genova. Uscendo dal portone di Piazza Embriaci sollevò la mano in segno di saluto alla torre merlata e prese commiato dalla chiesa. Intorno alla torre che si stagliava superba nel nitido cielo primaverile, svolazzava uno stormo di colombi.

Emile rimase qualche attimo a guardare, con il volto all’insù poi  incamminandosi verso Via dei Giustiniani confidò al suo accompagnatore: “Cercherò di ricordare Genova così, come mi ha salutato, con questo girotondo di ali attorno alle vecchie pietre e, ormai in presa alla malinconia, aggiunse: “Ma non dimenticherò neppure il mio primo incontro con Genova, che ho conosciuto di notte, tra turbini di neve”. Concluse infine con un tono che non ammetteva repliche: “Genova è bella sempre…”.

“Disegno a matita della Commenda di Prè”.

Il frutto di quell’intenso soggiorno fu una mostra personale del pittore in una galleria parigina di grido dove “la Genova di Bernard”, riscosse un consenso bulgaro ed un successo inaspettato.

“Genova è bella sempre…”

 

 

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