“Piano piano Genova si rifà”…

“Naturalmente non esiste la città perfetta ma nel mio immaginario… la città perfetta è Genova.
Lo capisco che è una risposta di parte ma Genova è una città straordinaria.
É una città di pietra ma al tempo stesso una città di mare … É una città che cambia continuamente … le navi che vengono e che vanno, è come se cambiasse ogni cinque minuti, ogni mezz’ora.
É una città straordinaria”. A pronunziare questa appassionata dichiarazione d’amore è Renzo Piano che così prosegue:
“É una città silenziosa, attenta, introversa, un po’ selvatica però allo stesso tempo straordinariamente potente … Il Centro Storico, che è di pietra, è il luogo della certezza, della protezione ; il mare è il luogo dell’avventura…”

“Si dice che i Genovesi siano tirchi, in realtà io credo profondamente che siano parsimoniosi ed è una qualità straordinaria che si è un po’ dimenticata … qui non si spreca niente funziona perfettamente sempre… funziona a tavola, funziona nel lavoro, funziona nei rapporti tra le persone…

“In primo piano una corda marsa d’aegua e de sa, al centro il Bigo davanti al Millo si specchia nel mare cobalto. Dietro il Salone delle Feste”. Foto di Leti Gagge.

A Genova la prima cosa che ti viene in mente è andartene, andartene per scoprire il mondo” – continua Piano – “Dice Calvino che ci sono due tipi di Genovesi: quelli che restano attaccati agli scogli come le patelle e quelli che invece partono e vanno a girare per il mondo”.

É vero, ha ragione l’architetto “andarsene per scoprire il mondo” come in passato hanno fatto i suoi figli più illustri e mi riferisco a Guglielmo Embriaco, Benedetto Zaccaria, Cristoforo Colombo, Andrea D’Oria, Giuseppe Mazzini, Garibaldi, tanto per citare i primi che mi vengono in mente. E che dire poi di Fabrizio De Andrè che proprio a Ponte Morosini nel Porto Antico, un nido di gabbiano per il ritorno se lo era preparato? In realtà tutti avevano una seconda cosa in mente e soprattutto in fondo al cuore, cioè quella di ritornare un giorno fra le braccia della propria madre, Genova, e poterle dire: “Hai visto mamma come sono stato bravo?”.

Anche Renzo Piano non si è sottratto a questo sentimento intimamente genovese del “a pösâ e össe dove’hò mæ madonnâa” e dopo aver girato il mondo, aperto studi in tutti i continenti e aver mostrato per oltre mezzo secolo il proprio talento ovunque, da tempo è ormai tornato al suo nido di Vesima nel ponente cittadino.

“Interni del luminoso studio di Renzo Piano a Vesima”.

Dopo aver restituito a Genova nel 1992 il suo naturale accesso al mare realizzando l’Expo con tutte le sue relative attrazioni è tornato per regalare alla sua città natale una nuova visione del suo porto e del suo “water front”.

“A Genova non manca niente per essere europea. Nel ‘600, il siglo de oro, è stata una capitale mondiale e non ha mai perso quelle caratteristiche che l’hanno resa unica. […] Spero che chi non c’è mai stato capisca la sua bellezza, troppo spesso nascosta e silenziosa”, a quel tempo rammentava l’architetto che continua:

“Genova, è una delle città più belle del mondo. Prima del ’92 il porto era separato dalla città, ma da allora Genova ha potuto ritrovare il suo contatto con il mare e ristabilire un rapporto con l’acqua”.

“Il progetto della nuova configurazione del fronte mare a levante”.

L’architetto Renzo Piano nei mesi scorsi ha rinnovato il suo sogno regalando  il progetto che cambierà il volto di oltre 2 km di lungomare cittadino, da Porta del Molo (per tutti erroneamente Porta Siberia) alla Foce, un dossier di 17 fogli vergato “Renzo Piano Building Workshop s.r.l”.

Il nuovo progetto prevede alcune varianti rispetto al vecchio “Blueprint” respinto dalle precedenti giunte. Ora spetta alle istituzioni e alle amministrazioni locali che finalmente sembrano aver apprezzato, trovare i fondi per realizzare l’opera, che permetterà di proseguire la passeggiata di corso Italia, a piedi o in bicicletta, fino a Porta Siberia al Porto Antico.

L’idea è quella di «riportare l’acqua dove già c’era», ha spiegato Renzo Piano tenendo conto di alcuni punti fermi, come la riqualificazione del palasport e la convivenza, in giusta proporzione, fra cantieri navali ed edifici residenziali.

Certo le città di mare godono di un indubbio fascino che le favorisce rispetto alle altre, fra queste, Barcellona e Lisbona risultano essere fra le più gettonate. E pensare che, senza nulla toglier alla loro turistica bellezza, la città catalana e la capitale lusitana sono solo delle fotocopie, per altro sbiadite, della nostra Superba. Come sentenziava Cechov ne “Il Gabbiano” Genova è la città più bella del mondo. Genova sa bene di esserlo e non se ne preoccupa, i Genovesi invece che non lo avevano capito, forse ora stanno iniziando a cambiare idea.

“L’architetto Renzo Piano”.

“Ha una distesa di cupole, di monti calvi,di mare,

di fiumi, di neri fogliami, di tetti rosa.

E quella Lanterna così alta ed elegante,

e meandri popolosi, labirinti affollati,

le cui viuzze salgono, scendono, si intersecano improvvisamente,

sbucano sulla veduta del porto.

Genova, una città piena di sorprese.

Di porte scolpite in marmo, ardesia, casse, formaggi, scale,

biancheria al posto del cielo, cancellate,

bizzarro dialetto dal suono nasale e irritante,

dalle abbreviazioni strane, vocaboli arabi o turchi.

Mentre Firenze si contempla

e Roma si sogna

e Venezia si lascia vedere.

Genova si fa e rifà”.

Lasciamo dunque al nostro illustre concittadino la possibilità di rinverdire gli ispirati versi di Paul Valery: “Genova si fa e si rifà”. ”Piano piano Genova Renzo Piano si rifà”.

… Quando in Piazza Goffredo Villa…

Quando le forme delle palazzate di Piazza Goffredo Villa, lo spiazzo dedicato al martire partigiano, richiamavano già nel loro squadrato profilo le sembianze del Castelletto, la fortezza antico simbolo della dominazione foresta, che ancor oggi è all’origine del nome del quartiere.

Quando nei pressi della spianata di Castelletto che già si chiamava Belvedere Montaldo c’era, e per fortuna c’è ancora, l’ascensore  avrebbe ispirato i versi di Caproni.

In basso al centro, silente testimone, il campanile di N.S. del Carmine una parrocchia ricca d’opere d’arte fra le quali nessuno avrebbe mai immaginato esserci,  il duecentesco ciclo d’affreschi di Manfredino da Pistoia.

Scoperto da circa un decennio dietro all’abside sotto diversi strati di calce e intonaco, le pitture dell’artista toscano, allievo di Cimabue e collega di Giotto, ritraggono l’Annunciazione, gli evangelisti  e i membri di spicco dell’ordine dei carmelitani.

Quando la chiesa aveva già dispensato nel 1893 il battesimo a Palmiro Togliatti, futuro leader del Partito Comunista Italiano ma ancora non sapeva che avrebbe dovuto celebrare nel 2013 i funerali di Don Gallo.

 

 

“I Genovesi sono di due tipi”…

Certo l’anagrafe recita “Santiago de Las Vegas de La Habana” come luogo di nascita di Italo Calvino ma lo scrittore, sanremese di origine e cultura, esprime in tutta la sua feconda poetica una sensibilità e appartenenza del tutto ligure. Egli stesso infatti racconta:

“Il mondo di cui sto parlando ha questo di diverso da altri possibili mondi, che uno sa sempre dove sono il levante e il ponente in tutte le ore del giorno e di notte […] ogni orientamento per me comincia da quell’orientamento iniziale, che implica sempre l’avere sulla sinistra il levante e sulla destra il ponente, e solo a partire di lì posso situarmi in rapporto allo spazio, e verificare le proprietà dello spazio e le sue dimensioni.

Una Liguria decritta dai poeti e pioniera del turismo a cavallo tra ‘800 e ‘900 che Calvino omaggia sì ma non tralasciando l’aspetto più sincero e segreto del ligure, quello laborioso e riservato di coloro i quali lavorandola quella terra, l’hanno nobilitata.

“Italo Calvino”.

“Dietro la Liguria dei cartelloni pubblicitari, dietro la Riviera dei grandi alberghi, delle case da gioco, del turismo internazionale, si estende, dimenticata e sconosciuta, la Liguria dei contadini”.

Un viaggio che prosegue nei ricordi di bambino di una bucolica e spensierata infanzia:

“Genova ripresa dall’alto con al centro il suo bacino portuale che ricorda la forma dell’ombelico”.

“Finiti gli orti, cominciava l’oliveto, grigio-argento, una nuvola che sbiocca a mezza costa. In fondo c’era il paese accatastato, tra il porto in basso e in su la rocca; ed anche lì, tra i tetti, un continuo spuntare di chiome di piante […] Sopra gli olivi cominciava il bosco. I pini dovevano un tempo aver regnato su tutta la plaga, perché ancora s’infiltravano in lame e ciuffi di bosco giù per i versanti fino sulla spiaggia del mare […] Più in su i pini cedevano ai castagni, il bosco saliva il bosco saliva la montagna, non se ne vedevano confini. Questo era l’universo di linfa entro il quale noi vivevamo…”
E per un ligure – si sa – Genova rimane comunque il fulcro di tutto, il metro con cui misurare le cose, l’ombelico del mondo:

“La realtà e la storia di Genova possono essere una chiave per capire qualche carattere di fondo che è di tutta la Liguria: suo limite e insieme sua forza. Se è decadentismo volgersi al passato per assaporarne l’agonia, Genova è una città così poco decadente da tenersi stretto il proprio passato fin quasi a non vederlo, portandolo con sé nel presente, che è la sua vera dimensione. Se è narcisismo non sapersi staccare dalla contemplazione della propria immagine, Genova è così poco narcisista che della propria immagine non sa né se ne cura, tutta presa com’è da quello che fa e mette insieme e moltiplica”.

I Genovesi sono un popolo assai attaccato alla propria terra, tradizioni, cultura e Calvino ne distingue di due principali tipi: “quelli che restano attaccati agli scogli come le patelle e quelli che invece partono e vanno a girare per il mondo”.

I più grandi – aggiungo io – quelli che hanno contribuito a migliorarlo quel  mondo appartengono a quest’ultimo. Chi scrive questo racconto, più modestamente, al primo.

… Quando in Via Ruffini…

 

Il tempo sembra essersi fermato in Via Jacopo Ruffini (un tempo Via Ginevrina) in Carignano, mancano solo le automobili parcheggiate ai lati della strada e, al centro della carreggiata, qualche scooter al posto dei cavalli.

Quando a metà strada sulla destra in onore di Don Piccardo, fondatore della Congregazione dei Figli di Santa Maria Immacolata, era già stato intitolato l’omonimo istituto commerciale.

A sinistra invece oggi come allora gli alberi che dal muro perimetrale sconfinavano sulla strada appartenevano al giardino di Villa Croce, a quel tempo non ancora, come esplicito desiderio della famiglia, destinata a museo. In primo piano un tombarello trottava indisturbato fra gli alberi spogli mentre sul marciapiede camminava un passante.

Svoltata la curva, prima del tratto oggi regolato da un efficiente semaforo, la via si raccorda con la Circonvallazione a mare dove un altro carretto arrancava in direzione dell’attuale Corso Saffi; un uomo con appariscenti pantaloni bianchi passeggiava tenendo per mano una bambina mentre ne incrociava un altro proveniente dalla direzione opposta. Appoggiato al muretto un signore guardava verso il mare e si godeva il panorama.

“Tratto finale di Via Jacopo Ruffini all’incrocio con Corso Saffi”.

“Parsimoniosi a causa di un Corsaro”…

Se c’è un luogo comune associato ai genovesi è proprio quello legato alla loro presunta avarizia. Una storia che parte da lontano, da molto lontano probabilmente già al tempo del famoso “Emmo Za Daeto” pronunziato dai legati della Repubblica in faccia all’Imperatore Federico Barbarossa che, pretendendo da costoro tributo, ottenne invece l’orgoglioso rifiuto.

Una caratteristica questa legata alla gestione del denaro che si rafforza a partire dal ‘400 quando, a seguito dell’istituzione del Banco di San Giorgio avvenuta nel 1407, la Superba diviene la regina delle transazioni finanziarie contendendo il primato in questo ambito ai grandi banchieri teutonici e sassoni.

E siccome “a prestâ e palanche à un amigo, ti perdi e palanche e ti perdi l’amigo” i genovesi, ligi all’antico adagio,
(se presti soldi ad un amico, perdi i soldi e perdi l’amico) fanno fortuna prestando “palanche” alle emergenti e ambiziose monarchie francese e spagnola.

“Il cambiavalute di Rembrandt”. Tela del 1627 conservata al Staaliche Museen di Berlino.

Sul finire del secolo Genova, fiutandone il senso degli affari e le potenzialità economiche, accoglie la prima comunità di ebrei sefarditi espulsi dalla Spagna cattolica da Isabella di Castiglia. Da questi i Genovesi apprendono e affinano sia le tecniche commerciali che le pratiche di strozzinaggio. Ed è proprio in questo periodo che, per calmierare e porre freno alla lucrosa gestione dei prestiti, vengono istituiti anche a Genova i banchi di pegno.

A detta degli storici però il vero spartiacque in relazione all’assioma “genovesi quindi avari” che si sostituisce nell’immaginario collettivo al precedente “genuensis ergo mercator” (genovese dunque mercante) risale al 1588 quando i destini della Signora del mare si incrociarono con quelli del grande corsaro inglese Sir Francis Drake.

Da tempo infatti Genova aveva rinunciato alla sua vocazione marittima preferendole quella finanziaria e bancaria: quello che veniva identificato come “Il siglo de los Genoveses”  quando i forzieri della città partivano per la Spagna e tornavano onusti di oro delle Americhe, tanto che si diceva: “l’oro nasce nel Nuovo Mondo ma viene sepolto a Genova”, volgeva ormai al tramonto.

“Nave con le insegne imperiali nel 1566 onusta di tesori”.

Era il periodo in cui le dimore patrizie genovesi erano le più sfarzose d’Europa: una ricchezza comunque mai ostentata fine a se stessa ma semmai consona al rango per doveri di rappresentanza e prestigio sociale, più spesso, accuratamente nascosta e considerata solo un modo redditizio per diversificare gli investimenti.

“o cû e i dinæ no se mostran à nisciun”
(il sedere e i soldi non si mostrano a nessuno).

I genovesi dunque così pronti a viaggiare per il mondo, protagonisti dei commerci e delle scoperte geografiche invece a casa loro sono schivi e diffidenti, per nulla inclini a mostrare le proprie ricchezze e proprietà.

Era scomparso da circa un lustro Andrea Doria quando nel 1585 era scoppiata la guerra tra Spagna e Inghilterra e Filippo II, per sconfiggere la terra di Albione di Sir Francis Drake, decise di allestire l’invincibile “armada” commissionandola, come da consolidata tradizione, ai genovesi.

“La regina Elisabetta I nomina corsaro Sir Francis Drake”.

I nostri armatori erano indecisi e titubanti se investire così tanto denaro in un’impresa a tal punto rischiosa da mettere a repentaglio le risorse della Repubblica ma decisero comunque di restare fedeli alla corona degli Asburgo e di finanziare questa operazione. Vennero allestiti 130 vascelli, con relativo armamento di 24.000 uomini, pronti per affrontare le terribili battaglie del 1588.

La sorte avversa culminata in una serie anomala di violentissime tempeste unita all’indiscussa abilità e capacità marinara di Drake infransero i sogni spagnoli e con essi anche le speranze di lucro dei genovesi.

Per la regina del mare, dopo un secolo di ricchezze, agi e splendori, si trattò di un colpo durissimo dal quale non riuscì più completamente a risollevarsi. La Spagna terminerà la sua iperbole di dominio europeo e Genova, fedele alleata, ne seguirà il declino con l’aggravante di non riuscire più né a pretendere, né di conseguenza a riscuotere i crediti maturati e dovuti.

Da qui si fa risalire quindi la diffidenza quando si parla di dinæ nei confronti dei “furesti” e quel senso di malcelata rassegnazione (se non era per gli spagnoli…) che porterà i nostri avi ad essere più che mai accorti nei loro futuri investimenti: quello che per gli altri quindi è tirchieria per i genovesi è parsimonia perché – e la storia ce lo insegna – “maniman” non si sa mai.

Perché se nel campo delle scienze Lavoisier teorizzava “in una reazione chimica nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma” per i genovesi, in quello economico, nulla si butta via, nulla si spreca e tutto si ricicla e risparmia”.

In copertina allegoria dell’avarizia – miniatura dal Trattato sui Sette Vizi Capitali di Cocharelli – Genova, 1330-1340.

… Quando in Sottoripa…

Una ragazza cammina pensierosa mentre dietro due uomini discutono tra di loro. Sullo sfondo passeggiano altri passanti. In quel tratto la copertura di Sottoripa non c’è più, rimangono solo desolazione e macerie ma per lo meno il calpestio dei loro passi e il suono delle loro parole non è più cadenzato dal rumore delle sirene degli allarmi antiaerei.

Quando, a partire dal 1893, si procedette a rivoluzionare tutto l’antico assetto del fronte mare con i riempimenti per l’edificazione della Circonvallazione a mare (Corsi Quadrio e Saffi).

Sparirono all’altezza di Via Ponte Calvi fino a Vico Morchi, le costruzioni sopra il porticato e con esse le tracce dell’antico acquedotto medievale lungo il percorso dell’originale romano. Nel tratto compreso tra Vico del Serriglio e Via al Ponte Reale se ne possono ancora oggi ammirare brani superstiti.

Quando parte del millenario porticato venne cancellato dalle bombe e, soprattutto, dal colpo di grazia, ancora oggi un’offesa inaccettabile al nostro panorama, inflitto dal Ministero della Pubblica Istruzione quando nel 1950 innalzò, incastonato fra le torri medioevali, quell’indescrivibile mostro architettonico di cemento che si affaccia molesto ed estraneo in Piazza Caricamento.

… Quando in Via Alessi…

Quando in Via Galeazzo Alessi i bambini erano indecisi se osservare meravigliati il tram sferragliare sulle rotaie o l’obiettivo del fotografo…

quando in cima alla salita della via intitolata al celebre architetto perugino non c’era ancora la premiata pasticceria San Sebastiano che con le sue golose ricette dal 1958 avrebbe deliziato il palato degli abitanti del quartiere.

quando il suo più grande capolavoro, la Basilica dell’Assunta di Carignano, costruita in sfregio ai Fieschi, sorvegliava sorniona il traffico.

“Così parlò Zarathustra”…

Nietzsche soggiornò più volte a Genova e lungo la riviera di Levante. Qui visse i suoi anni più felici e creativi dove nei periodi di tregua che la malattia gli concedeva trascorreva il suo tempo indisturbato intento a comporre i suoi scritti.

Fu così che durante uno di questi soggiorni alla fine di novembre del 1882 partì per Santa Margherita e tornò a Genova solo nel febbraio dell’anno seguente. L’euforia degli ultimi due anni era svanita: gli restavano pochi amici, il suo malessere fisico peggiorava e, dopo essere stato respinto dall’amica Lou, cominciò la stesura del manoscritto del “Così parlò Zarathustra”.

“Salita delle Battistine”. Foto di Leti Gagge.

Si accentuava la sua alienazione, voleva nascondersi dal resto del mondo. In una lettera del 22 febbraio 1883, spedita da Rapallo, scrive all’amico Franz Overbeck: “Sabato partirò per Genova, lì il mio indirizzo sarà (per favore non darlo a nessuno): Genova (Italia), Salita delle Battistine 8 (interno 6)”.

“Il portone del civico dove dimorò il filosofo”.

A scuola nessuno me lo aveva raccontato ma l’opera che forse più di ogni altra ha influenzato il pensiero occidentale del Novecento “Così parlò Zarathustra” appunto, è stata ispirata da Genova e concepita proprio davanti al suo mare. Forse se da ragazzo lo avessi saputo avrei affrontato lo studio di questo filosofo con tutt’altro interesse e solo da adulto, con questa consapevolezza, mi sono cimentato nel leggere sul serio le sue opere.

A raccontarlo è lo scrittore stesso che così descrive nei suoi appunti durante una passeggiata tra Zoagli e Portofino il magico momento della creazione:

“La mattina andavo verso sud, salendo per la splendida strada di Zoagli, in mezzo ai pini, con l’ampia distesa del mare sotto di me; il pomeriggio, tutte le volte che me lo consentiva la salute, facevo il giro di tutta la baia di Santa Margherita, arrivando fin dietro Portofino. Questo luogo e questo paesaggio sono diventati ancora più vicini al mio cuore per il grande amore che l’indimenticabile imperatore tedesco Federico III ha avuto per essi; per caso mi trovavo di nuovo su questa costa nel’’autunno 1886, quando egli visitò per la prima volta questo piccolo dimenticato mondo di felicità. – Su queste due strade mi venne incontro tutto il primo Zarathustra, e soprattutto il tipo di Zarathustra stesso: più esattamente, mi assalì…”

“Passeggiata a mare di Zoagli”.
“Scorcio di sentiero nei dintorni di Zoagli”.

Spesso frequentava la passeggiata a mare “Principessa di Piemonte” (oggi Anita Garibaldi) di Nervi e prendeva appunti seduto sugli scogli.  Durante la permanenza nella nostra regione compose numerose poesie ispirate da Genova e, oltre al “Così parlò Zarathustra”, anche alcune delle sue altre principali opere che sarebbero poi diventate pietre miliari dello spirito occidentale quali: “La Gaia Scienza”, “Gli idilli messinesi” e “Aurora”.

Non ultimo “L’Ecce Homo” pubblicato postumo, una sorta di biografia e sintesi del suo percorso umano e filosofico, che profuma di mare:

“Quasi ogni frase del libro Ecce Homo è stata ideata, pescata in quel guazzabuglio di scogli vicino a Genova, dove io stavo solo e scambiavo ancora segreti col mar”.

In copertina: Passeggiata Anita Garibaldi. Foto di Stefano Eloggi.

… Quando c’erano i Cannoni e le Caserme…

Quando anche con un cielo terso vicino alla Lanterna i nembi volavano bassi. Ma non erano soffici nuvole bensì colonne di fumo prodotte dai colpi di cannone.

Quando intorno al Faro, a difesa del porto erano state predisposte e potenziate, a varie riprese, volute dai Savoia, le batterie di cannoni di San Benigno. Tale artiglieria, continuò ad essere presidiata e puntigliosamente mantenuta in funzione grazie a regolari esercitazioni fino al 1915, anno della sua definitiva dismissione.

Sul sovrastante colle di San Benigno, dove un tempo sorgeva l’omonimo secolare monastero (XII sec.) intitolato a San Paolo, d0po i moti del 1849 furono erette, per volere del generale La Marmora, anche due grandi  Caserme adibite ad ospitare la truppa.

“A sinistra la Lanterna. Al centro e a destra ledue caserme di san Benigno. Cartolina del 1912.

Vennero anch’esse dismesse nel 1920 e poi, nel 1925, definitivamente demolite.