L’orgoglio della città

“Credo che l’orgoglio della città sia il porto, con la sua grande capacità e che il testamento dell’ultimo duca di Galliera, il quale ha lasciato quattro milioni di dollari per il suo ampliamento e per il miglioramento delle attrezzature, ne farà senza dubbio uno dei più grandi scali commerciali di Europa.”

Cit. Henry James (1843 – 1916) scrittore americano.

La Grande Bellezza…

… Quando c’era il birrificio del Sol Levante…

Quando a Genova nel 1914, fra le innumerevoli attrazioni dell’Expo d’Igiene e delle Colonie della Marina, c’era anche la birreria giapponese.

Nella curiosa struttura a chalet che ospitava la delegazione del sol levante, oltre alla birra vera e propria accompagnata ai fagioli di soia e calamari essiccati o al tradizionale Sakè si potevano degustare bevande a base di soia, riso e mais e altre specialità orientali come l’allora poco noto sushi.

… Quando in vico delle Monachette

Tra Via Prè e Via Balbi “nei quartieri dove il sole del buon Dio non da i suoi raggi..”, si trova Vico delle Monachette, il caruggio più stretto della Superba, appena settantanove centimetri di larghezza!  

In un’anonima abitazione di questo piccolo vicolo nel 1857 trovò rifugio, ricercato dalla polizia sabauda, Giuseppe Mazzini che si trovava in città per organizzare un’insurrezione.

Foto di Alfred Noack 1880 circa.

La Lapidazione di Santo Stefano

Nella chiesa di S. Stefano è conservato uno dei quadri più importanti di tutto il ‘500, la “Lapidazione di Santo Stefano” di Giulio Pippi de’ Jannuzzi, detto il Romano.

Se Rubens a Genova con il morbido stile della sua “Circoncisione” influenzò il ‘600, Romano fece altrettanto con la sua raffaellesca “Lapidazione” per il ‘500.

Quest’opera divenne infatti punto di riferimento e modello della riscoperta della grande cultura romana che l’illustre artista manierista portò al nord a Genova, prima ancora che a Milano, Mantova e Venezia.

Il Martirio di S. Stefano rappresenta infatti il monumento, il trionfo, l’apogeo del classicismo, una vera e propria celebrazione del maestro indiscusso del Rinascimento, l’appena scomparso Raffaello.

L’opera in origine commissionata nel 1519 al genio urbinate l’anno prima della sua morte, fu invece realizzata nelle Stanze Vaticane dal suo allievo Giulio Romano che, evidentemente, aveva avuto modo di vedere i disegni e i bozzetti del Maestro.

Ma il Romano non procede solo ad una fedele e puntuale esecuzione dell’opera: laddove possibile – infatti – osa, riuscendo nel suo ambizioso intento, migliorare il progetto dell’illustre mentore con qualche personale e azzeccata correzione.

Ed ecco quindi che il Martire, protagonista assoluto, sta al centro, mentre i suoi assassini gli si schierano attorno a semicerchio.

Tra l’apparizione della Trinità in cielo fra angeli che trasfigurano in pura luce e la scena del martirio, sulla linea dell’orizzonte si apre dunque uno spazio per un paesaggio di rovine, in una luce radente, quasi artificiale, certo innaturale perché emanata dall’aureola divina che il pittore fa coincidere con il sole.

L’artista cita poi monumenti antichi, terme, templi, ponti, obelischi e riesce a conferire sia dinamicità alla complessa scena che energia alla moltitudine dei personaggi e plasticità ai movimenti dei loro corpi.

Le terme romane in rovina sullo sfondo sono allegoria del decadimento morale e fisico del mondo pagano che, proprio dai ruderi dell’edificio classico, attinge le pietre per compiere la lapidazione del santo.

L’immagine del volto di Stefano che appare serenamente rassegnato in accentuato contrasto con le indemoniate e bestiali espressioni dei suoi carnefici conferisce alla rappresentazione una potenza sovrumana.

Le epidemie

“E’ classificabile tra i veleni corrosivi, tra i fermentativi, e tra i vaporosi; e quanto alla sua sostanza, non dubito d’affermare che sia un sottilissimo Arsenico”.

Con queste parole il settecentesco medico Bartolomeo Alizeri descriveva il morbo nel suo “Della peste, cioè della sua natura, e de’ Rimedi per la preservazione e per la cura” e definiva il flagello principe, la morte nera, uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse.

Di tale tragedia costituisce mirabile testimonianza un ex voto di Domenico Piola conservato nella sacrestia della chiesa di Nostra Signora del Carmine che ritrae San Simone Stock, priore generale dei Carmelitani del XIII secolo, in venerazione davanti alla Madonna.

Nella parte inferiore del quadro si nota un gruppo di monatti all’opera nei pressi dell’erigendo Albergo dei Poveri, intenti a seppellire i cadaveri degli appestati.

La scena immortalata fotografa l’epidemia di “manzoniana memoria” del 1630, cui l’artista stesso era sopravvissuto e che aveva causato 50000 vittime.

Non meno catastrofica fu quella, forse ancor più celebre, del 1656/1657 che secondo alcuni diminuì di due quinti, per altri addirittura dimezzò la popolazione, che annoverava a quel tempo circa 90000 abitanti.

Nella primavera del 1656 si manifestarono i primi casi, in forte aumento nei mesi estivi; l’inverno parve rallentare la diffusione del morbo ma all’inizio dell’anno successivo la peste esplose nuovamente in tutta la sua nefasta virulenza.

Non fu sufficiente, vista l’emergenza, trasformare solo l’ospedale di Pammatone in lazzaretto, ma fu necessario approntarne altri: a quelli realizzati presso la chiesa della Consolazione e nella zona della Foce se ne aggiunsero presto altri a Sampierdarena, Cornigliano e nel resto della regione.

La medicina brancolava nel buio adottando rimedi assai poco scientifici come, ad esempio, l’utilizzo come medicamento di polveri di pietre preziose che spesso – invece che guarire – fungevano da veleno.

Anche le precauzioni erano piuttosto fantasiose: per limitare il contagio si aspergevano di aceto e profumi le missive provenienti da zone ritenute a rischio e, sulla base delle prescrizioni consigliate da Aristotele che riteneva tale cibo immune dal contagio, si raccomandava di consumare pesce.

Cautele più sensate che adottiamo ancora oggi erano invece quelle concernenti veti e blocchi relativi all’arrivo di merci e viaggiatori.

Inoltre gli indumenti dei sospetti contaminati, molto pragmaticamente, venivano come del resto i cadaveri delle vittime, bruciati.

Considerate le scarse condizioni igieniche del tempo non apparivano invece insensate misure quali la bonifica delle fognature e la dotazione di casacche di tela cerata per chi operava a stretto contatto con i contagiati.

“Il medico della peste con la sua caratteristica mascera a becco”.

La corporazione dei profumieri assumeva di conseguenza in questo contesto grande importanza e prestigio. A costoro era infatti affidato il compito sia di disinfestare i locali occupati dai malati che di predisporre, dotandola di sostanze, spezie, ed essenze odorose, la caratteristica maschera con il “becco” dei medici.

Nel ‘700 la peste parve allentare la presa ma solo per lasciare spazio nel secolo successivo ad un altro non meno spietato nemico: il colera.

Quelle del 1835, 1848/49, 1854, 1866/67 e 1884/1893 furono le epidemie più nefaste per la nostra città.

In copertina Madonna e san Simone Stock, 1657, della chiesa di Nostra Signora del Carmine.

La Grande Peste

“Nella primavera del 1657, in mezzo ad una lieta calma, si udì che il contagio di bel nuovo ripullulava; gli abitanti più agitati fuggivano dalla città, vedendo com’esso imperversando si annunziava piuttosto colla morte, che colla malattia: assai presto a migliaia n’erano spenti, onde una confusione indicibile rendeva inutili le cautele benefiche già prese.

Disertavano i magistrati nelle vicine ville: solo il magnanimo doge Giulio Sauli rimanevasi impavido, quantunque il fiero morbo fosse penetrato nello stesso palagio, e ne decimasse gli uffiziali e le guardie.

A rappresentare gli orrendi effetti dell’ineffabil disastro, e la strage immensa ch’iva facendo nel modo più miserevole, ci verrebbero meno gli acconci colori. Il savio e generoso doge bramava pure di arrecare qualche sollievo a sì gran calamità, ma ogni provvedimento riusciva indarno. Facea sibbene che i varii lazzaretti da lui di fresco stabiliti abbondassero d’ogni cosa necessaria: elargiva soccorsi a chiunque ne abbisognasse; non ometteva veruna diligenza perché si conservasse il buon ordine; e quantunque già il palazzo pubblico si vedesse pieno di morti, pure voleva che ne stessero aperte le porte, e dava libera udienza a chiunque ne richiedesse.

I lazzaretti rigurgitavano di moribondi, e di morti: venian meno i medici, i sacerdoti, gli infermieri, i farmaci, le provvigioni: vedevansi morti, o agonizzanti per le piazze, per le vie, per le case, per le scale: non s’incontravano che cadaveri malamente affastellati su carri e condotti a sepoltura… Il contagio sempre inferociva, e inferocì per lo spazio di diciassette mesi, durante i quali perirono nella sola Genova circa settanta mila persone”.

Brano tratto dal volume di Giovanni Battista Spotorno inserito nel “Dizionario Geografico Storico Statistico Commerciale de gli Stati di S. M. il Re di Sardegna” (Torino 1840).

Nel quadro del celebre artista sarzanese Domenico Fiasella, realizzato nel 1658 su commissione della Repubblica, si riconoscono oltre alla Lanterna, la loggia di Banchi e la chiesa di San Domenico.

In alto a sinistra si notano il Diavolo che soffia il suo pestilenziale alito sulla città e la Morte che mulina la sua imparziale falce. La nera mietitrice non fa distinzione tra nobili e poveri, colpendo sia gli uni riccamente addobbati, che gli altri o nudi o di stracci vestiti.

A fianco del faro cittadino è raffigurata una nave, protagonista di una storia assai curiosa, che si arena sulla scogliera di Sestri Ponente.

Tale imbarcazione colma di cadaveri era destinata infatti, come da prassi del tempo, a bruciare al largo ma, senza governo e a causa dei venti contrari, si schiantò sulla costa restituendo alla Superba, foriero di sventura, il mortifero e nauseabondo carico.

In copertina “La peste di Genova” dipinto di Domenico Fiasella. Collezione della Fondazione di Galleria Palazzo Franzoni Genova.

Il leone di Pola

All’esterno della chiesa di S. Marco al Molo si nota un bassorilievo che rappresenta un Leone di San Marco.

Tale effigie venne trafugata come bottino di guerra dai genovesi durante la vittoriosa battaglia di Pola del 1380.

Il leone alato e con aureola, simbolo di Venezia, è purtroppo mutilo di una gamba.

Fra le zampe anteriori regge un libro aperto con delle iscrizioni.

Sopra il rilievo la lapide recita:

“Iste Lapis in Quo est Figura Sanc / ti Marci Delatus Fuit a Civitate / Polae Capta a Nostris MCCCLXXX due XIII Januarii.

La sottostante lastra con due scudi abrasi collocata sotto sotto il felino, datata anch’essa 1380, racconta di un’opera di espurgo del porto.

I dragaggi del Molo

In Via del Molo è presente un’imponente lapide che, all’interno di un elegante tempietto fra stemmi araldici e testine di leone, elenca i lavori di prolungamento dei moli avvenuti nel 1513:

DOM / Solerti Cvra Praestativm Virorvm: Io. Basta De Frachis Co. Carelli: / Andree De Ferrariis: Lavreti Lomellini Qvon Phi: et Thome Catanei: / Patrum Patriae / Tabvlarvm Clavsvra Optime Compaginata: Exhavsta Telone Aqva: / Repvrgato Coeno Post Annos CCXIII: Non Abso Gravi Impresa : ac / Labore: Fvndvm Maris Dvvm Palmorum: ad Dvodeviginti Fvit / Restitvtvm: a Continente: Longitvdine Palmorvm DLXX: / Latitvdine Vero CCC: a Cataneorvm Ponte Vsqve ad Molem: ad / Maximvm Portvs et Commercii Fvndo Deficiente Commodvm / Io Avgvstino Illvminato Tabellione: et / Avgvstino Signorio Svndico / Opvs Accvrate Procvrantibvs Absolvtvm a Qvinta Ivli ad / Vicesimam Octavam Sept / MDXIII.