L’indirizzo ufficiale di palazzo Gio. Batta Saluzzo corrisponde al civ. n. 7 di Via Chiabrera. In realtà l’edificio si trova nella piazzetta dei Giustiniani, di fronte al celebre omonimo palazzo di Marcantonio.
Nel palazzo costruito nel 1580 spettacolare è l’atrio con volte e colonne doriche che adornano lo scalone loggiato per due piani nobili.
La piccola edicola votiva rappresenta una statua della Madonna Incoronata che poggia su nubi da cui spuntano alcuni cherubini alati. Ai piedi della Vegine degli ex voto uno dei quali pende dalle sue mani.
Sullo sfondo s’intravede un minuscolo cortile con una grottesca di pietre e conchiglie con mascherone marmoreo.
Particolare poi, sul fastigio a riccioli e ghirlande di fiori e frutti, uno stemma nobiliare con l’aquila e una corona in ferro battuto.
No, non ci troviamo sui canali di Venezia ma in darsena, nel cuore antico del porto medievale della Superba.
Qui un tempo sorgeva la darsena vera e propria costruita dopo il 1284 con i proventi della vittoriosa battaglia della Meloria contro Pisa.
La darsena originaria (dall’arabo dār-ṣinā῾a “casa dell’ industria”, quindi “fabbrica” in genovese) era divisa in tre specchi d’acqua complementari: darsena delle barche, olio e vino destinata alle imbarcazioni di piccolo cabotaggio; darsena delle galere ricovero delle grandi navi mercantili e da guerra; arsenale spazio di costruzione e armamento delle galee da guerra.
Nel 1312 a sua protezione venne progettato un imponente sistema di fortificazioni che prevedeva l’erezione di mura maestose. Due poderosi torrioni ne delimitavano l’accesso.
Veduta dei Genova nel 1481 realizzata da Cristoforo Grassi nel 1597. Al centro del quadro custodito al Museo galata si riconoscono le mura e i poderosi torrioni dell’arsenale.
Per tutto il Medioevo il porto manterrà questo assetto polifunzionale e solo con la caduta della gloriosa Repubblica marinara nel 1797 la darsena verrà completamente militarizzata.
Nella seconda metà del 800 poi, durante il Regno Sardo, con il suo interramento si rinuncerà definitivamente alla vocazione militare dell’arsenale. Al suo posto verrà costruito un nuovo grande bacino di carenaggio maggiormente idoneo alla ricezione dei nuovi colossali bastimenti trans oceanici.
Alla fine dello stesso secolo il porto diviene proprietà comunale e assume la conformazione, con i suoi silos e magazzini, di emporio commerciale denominato Portofranco.
L’omonimo quartiere riveste oggi, grazie all’Acquario, al museo Galata e alla rivitalizzazione del Porto Antico, grande interesse e importanza in ambito turistico.
Non va tuttavia dimenticata, in virtù della presenza in loco della facoltà di Economia e Commercio, anche una significativa impronta di stampo culturale e universitario.
Un panoramico appartamento sui canali di Ponte Morosini era stato scelto negli anni ’90 da Fabrizio De Andre’ come “buen ritiro” e nido sul mare natio.
“.. intanto la nostra formazione, che con l’arrivo da Chiavari di numerosi volontari s’era fatta più consistente, s’era spostata a Cichero, nel Casone dello Stecca, una grossa baita sulle pendici del Ramaceto ma a ridosso di Lorsica…”
Cit. da “La Repubblica di Torriglia” di G. B. Canepa il partigiano “Marzo”. F.lli Frilli editore.
Il casun du Stecca, dal nome del contadino che lo aveva generosamente offerto ai partigiani, è il luogo dove si tennero i primi incontri del primitivo nucleo di ribelli della “banda di Cichero”.
Nell’ottobre del ’43 infatti vi si rifugiarono, provenienti da Castello di Malvaro dove non si sentivano più al sicuro, i partigiani che organizzarono la Resistenza nel levante ligure.
“… c’era una baita appollaiata su un costone folto di castagni, in località Rocca di Merlo, dov’erano rifugiati una dozzina di renitenti alla chiamata alle armi e qualche inglese scampato dal vicino campo di prigionieri a Calvari.
I contadini dei dintorni gli portavano patate e farina di castagne: quel poco che potevano dare, che altro non avevano, povera gente; i quattro giovani si sistemano lassù con loro, mentre per tutta la valle e fin giù nelle cittadine rivieraschi, con la presenza a Rocca di Merlo di quel pugno di uomini decisi a far qualcosa, non importa cosa, pur di fare, già si stava acquistando fiducia nel domani e si guardava con commiserazione quei pochi fascisti che, dopo l’8 settembre, avevano ripreso a circolare.
Poi ai primi di ottobre sul monte Antola vi fu in convegno di dirigenti del Movimento di Liberazione, e si cominciò con l’assegnare le zone e a dare le direttive: la più importante era di attaccare e far fuori il maggior numero di fascisti e di tedeschi.
Attaccare con che cosa?
Ebbene, il fatto della mancanza di armi in realtà rappresentava un inconveniente trascurabile, poiché era ovvio che, attaccando nemico, le armi sarebbero conquistate…”.
Cit. da “La Repubblica di Torriglia” di G. B. Canepa il partigiano “Marzo”. F.lli Frilli editore.
A sinistra Stecca, a destra Bisagno alla guida della motocicletta. Foto tratte dal volume “Una città nella resistenza” di Carlo Brizzolari, Valenti editore.
“Così nella prima quindicina di novembre, gli uomini della banda di Cichero salirono in due gruppi da Lavagna (guidati da Bini) e da Rapallo (guidati da Bisagno) sino al casone messo a disposizione da Stecca, un contadino-ciabattino che abitava in località Gnorecco di Cichero.
Qui, si incontrarono Aldo Gastaldi (Bisagno), GiovanniSerbandini (Bini), G.B.Canepa (Marzo) e vennero poste le basi della Resistenza nel Levante.
A questi si unirono una decina di uomini di Lavagna e tre soldati siciliani, sbandatisi dopo l’armistizio del 8 settembre 1943. Bisagno ebbe il comando della banda e Bini ne fu il primo commissario. Otello Pascolini (Moro), che era rimasto a Lavagna per dirigere l’organizzazione clandestina, raggiunse gli altri alla fine di novembre, sfuggendo alla cattura.
Nei giorni che seguirono, sino alla fine di dicembre, la banda si temprò attraverso dure esperienze, mantenendo sempre un saldo nucleo, che non si disgregò neppure quando le peggiori privazioni ed i più gravi pericoli ne assottigliarono il numero”.
Cit. da “Una città nella resistenza” di Casrlo Brizzolari, Valenti editore”.
E’ in questo ostico contesto che fu elaborato e composto, fortemente voluto dal comandante Bisagno stesso, quello straordinario documento dall’incomparabile significato morale, di disciplina e normecomportamentali dei partigiani noto con il nome di CodicediCichero:
in attività e nelle operazioni si eseguono gli ordini dei comandanti, ci sarà poi sempre un’assemblea per discuterne la condotta;
il capo viene eletto dai compagni, è il primo nelle azioni più pericolose, l’ultimo nel ricevere il cibo e il vestiario, gli spetta il turno di guardia più faticoso;
alla popolazione contadina si chiede, non si prende, e possibilmente si paga o si ricambia quel che si riceve;
non si importunano le donne;
non si bestemmia
Notizia di pochi giorni fa il comune di San Colombano Certenoli ha deciso di finanziare il recupero ed il restauro di questo sito dall’alto valore simbolico.
Quando in Piazza San Leonardo non esistevano ancora le antiche trattorie da Genio (fuori campo) e da Domenico (oggi scomparsa).
Davanti alle garritte di guardia della caserma D’Oria, un tempo convento di San Leonardo, a soddisfare le esigenze dei militari, bastavano una birreria ed una bottiglieria.
Uno scorcio di inizio ‘900 con due batosi e una bimba che posano incuriositi, come il signore che poggia la mano sul muretto della scalinata, per lo scatto.
Rapito invece dal superbo panorama di pietra e ardesia, oggi solo uno sbiadito ricordo in bianco e nero, è il papà che tiene per mano la figlioletta.
Risulta invece beffarda la secentesca epigrafe “Posuerunt me custodem” che, posta sulla parete della chiesa, è riferita alla Madonna Regina di Genova.
La Vergine, a cui tante volte in precedenza era stata attribuita la salvezza della Superba, questa volta non è riuscita a proteggerla dai suoi stessi spietati cittadini.
L’ignobile opera demolitrice si svolse incessantemente a partire dal 1972 fino al 1980.
Sia imperitura vergogna della Commissione Astengo istituita dal Sindaco Pertusio che l’ha decisa, del Cardinale Siri che l’ha approvata e benedetta e degli architetti Dasso, Bruzzone e Aulenti che l’hanno progettata e attuata.
A parziale soddisfazione di tale imperdonabile offesa ci ha pensato il tempo rendendo il moderno quartiere della Regione, che ha sostituito quello più antico, un vuoto e triste contenitore senz’anima e vita.
Alcuni passanti osservano, all’altezza di Villa Croce in Corso Saffi, la potente quanto spettacolare mareggiata.
Al centro si riconosce il bastione della batteria della Strega e in lontananza s’intuisce il profilo della chiesa di San Pietro della Foce,
A monte, al posto della salita occupata oggi da Via Atto Vannucci, tratti delle antiche mura secentesche di Santa Chiara e sullo sfondo, ancora più in là, la collina di Albaro.
Da Via Cairoli s’imbocca vico alla Casa di Mazzini che introduce in Via Lomellini al quattrocentesco Palazzo Adorno.
L’edificio nella versione odierna è frutto della ristrutturazione di metà ‘800.
Nel 1925 è stato dichiarato monumento nazionale e dal 1934 ospita la sede del museo del Risorgimento italiano perché fu – appunto – a partire dal 1794 la dimora natale dell’apostolo della Libertà.
Nell’atrio tutt’altro che spazioso, nonostante l’evidente dislivello tra l’ingresso e il ballatoio di accesso al vano scala e l’inconveniente dell’unica rampa di scale presente a sinistra risolto con la costruzione del triforio e dello scalone monumentale, il Bergamasco riesce a conferire indubbia grandiosità all’ambiente.
Gli spettacolari affreschi che rappresentano scene ed episodi mitologici, circondati da decorazioni a grottesca, sono opera di Andrea e Ottavio Semino. Nel quadro centrale è rappresentata “Angelica legata alla rupe e Guerriero che interroga due donne”. Secondi altri esperti invece l’affresco rappresenterebbe “Andromeda che accoglie Perseo Liberatore”.
Al civ. n. 2 di Piazza della Meridiana si trova, progettato da Bartolomeo Bianco, il secentesco Palazzo Gio Carlo Brignole. La versione in cui ancora oggi lo possiamo ammirare è quella della ricostruzione ndel 1671 su pertinenze antecedenti. Ai Durazzo che a metà dell’Ottocento acquisirono dalla famiglia Brignole la proprietà dell’edificio si deve la stupefacente decorazione dell’atrio.
Nella parte superiore decorata da Federico Leonardi campeggia lo stemma del casato, in quella inferiore risaltano invece le gesta di illustri genovesi che fecero grande Genova: Guglielmo Embriaco, Simone Boccanegra e Andrea D’Oria le cui storie circondano l’ottocentesco affresco principale, opera di Giuseppe Isola che celebra Ottaviano Fregoso il distruttore della fortezza della Briglia occupata dalle truppe francesi di Luigi XII.
Il linguaggio prescelto che si sviluppa attraverso la postura del protagonista che regge fiero lo stendardo è quello risorgimentale con cui questi “viri” illustri assurgono a simbolo della lotta contro l’oppressione straniera.