“Il misterioso Volto di Borzone”…

Tutti conoscono i Menhir e i Dolmen di Carnac in Francia e di Stonehenge in Inghilterra, pochi sanno però che nell’alta Valle Sturla, lungo la strada provinciale in direzione Borzonasca si trova il più grande ed importante reperto megalitico d’Europa e, forse, del mondo. Infatti se i primi risalgono nell’era neolitica, al terzo o secondo millennio prima di Cristo, quello di Borzone, probabilmente, addirittura a 12000 anni prima del Salvatore, in pieno Paleolitico.

Proprio in località Borzone, più precisamente Rocche di Borzone, frazione di Borzonasca si staglia sulle alture il “Volto megalitico di Borzone”: una gigantesca scultura rupestre alta sette metri e larga quattro raffigurante un volto umano, secondo alcuni maschile, secondo altri femminile. Un’immagine primordiale di un Dio antropomorfo, o di una dea frutto di una società matriarcale?

Svariate sono le ipotesi ma quel che è certo è che sia opera dell’ingegno dell’Homo Sapiens Sapiens. Il nostro più vicino progenitore ha così impresso e immortalato se stesso nella roccia.

Il singolare sito venne scoperto nel 1965 da Giuliani, assessore del comune di Borzonasca, che si trovava in zona per un sopralluogo relativo alla costruzione della strada. Alzando gli occhi scoprì casualmente il misterioso volto nascosto dalla fitta vegetazione circostante.

“La spettacolare Abbazia di Borzonasca, immersa in un bucolico contesto”.

Gli abitanti del luogo non si scomposero più di tanto sostenendo, in base a racconti tramandati nel corso dei secoli, che “Il Volto di Cristo” così familiarmente chiamato, fosse stato scolpito in tempi remoti dai monaci della vicina Abbazia di Borzonasca. Secondo un’antica tradizione infatti, una volta l’anno, tutti i valligiani vi si riunivano davanti, in compagnia dei frati, in preghiera. A conferma di questa suggestiva tesi la presenza di alcune piccole teste litiche su diverse abitazioni della zona.

La particolare fattura del manufatto ha però rivelato che “il Volto di Borzone” apparteneva non alla storia, bensì alla preistoria, essendo di diversi millenni anteriore rispetto a quanto affermasse la leggenda consolidata.

“I due Volti megalitici, uno rivolto a monte, l’altro verso la strada”.

In base ad alcuni rilievi sul posto effettuate da esperti, le sculture megalitiche, collegate fra di loro nello stesso blocco di pietra sarebbero addirittura, osservando attentamente, due.

La questione rimane dibattuta, oggetto di studi e perizie da parte dei dotti della materia.

“Il volto megalitico”.
“Il campanile spicca in facciata fra due pini secolari, il più grande dei quali ha oltre 600 anni”.

Studiosi appassionati o semplici curiosi turisti se ci si vuole quindi immergere nella preistoria e spingersi a ritroso agli albori del genere umano, non necessariamente bisogna partire alla volta di Spagna, Gran Bretagna o Francia, basta fare un salto nel nostro affascinante e misterioso entroterra.

“Il Gabbiano di Cechov”…

Il drammaturgo russo Anton Cechov nel 1896 compone la sua più celebre commedia “Il Gabbiano” un’allegoria spietata di quel male inevitabile, il fuoco fatuo, che è la passione di un quarantenne per una fanciulla e, viceversa, l’estatico invaghimento di una fanciulla per un quarantenne. Trigòrin cerca evasioni e risposte nell’amore di Nina che incarna la giovinezza e la giovinezza Nina rifugge il giovane Trepliòv innamorato, per fuggir con Trigòrin, al quale l’Arkàdina, come lui quarantenne, nella paura di perderlo, si aggrappa disperatamente, coccolandolo con melliflue tenerezze e scaltri vezzeggiativi, pur di tenerlo a sé.

Questa in estrema sintesi la trama della commedia ma il brano che a noi interessa riguarda il dialogo in cui compaiono altri due personaggi del romanzo e in cui l’autore dichiara apertamente la sua predilezione per la Superba:

Medvedenko: Posso chiedervi, dottore, quale città straniera vi è piaciuta di più?

– Dorn: Genova.

– Trepliov: Perché Genova?

– Dorn: Per le strade di Genova cammina una folla meravigliosa. Quando si esce, di sera, dall’albergo, tutta la strada è colma di gente. Poi te ne vai a zonzo, senza una meta, di qua e di là, a zig-zag, tra quella folla; vivi della sua vita, ti confondi a lei nell’anima; e cominci a credere che possa esistere una sola anima universale …

Genova è la città più bella del mondo”.

Meditate gente… meditate…

Recitava lo slogan pubblicitario di  qualche decennio fa di Renzo Arbore a proposito delle proprietà della birra.

Ritornello che si può ben adattare alle vicende della rinfrescante bevanda all’ombra della Lanterna. Se è vero che Magone nel 218 a. C. aveva raso al suolo la città a causa del sapore acetato del suo vino, altrettanto vero è che la birra ha avuto sempre, come testimoniato dal ritrovamento di Pombia, un ruolo rilevante nella cultura degli antichi Liguri.

In epoca moderna poi  Genova è stata una delle principali città in cui, sotto gli influssi asburgici, attecchì il consumo del dissetante fermentato.

Nel 1882 infatti, in pieno regno sabaudo in seguito alla triplice alleanza di cui facevano parte piemontesi, prussiani e austriaci, numerosi funzionari stranieri presero residenza nel centro cittadino.

“Operai all’ingresso della Fabbrica della birra di Busalla”.

Fu così che a Genova fiorirono decine di birrerie spesso con tanto di oste bavarese verace e bionde e allegre “kellerine” a servire schiumanti  boccali. Molti di questi locali erano concentrati nel salotto della città, nell’area che dalla Prefettura degradava lungo Salita S. Caterina e la galleria Mazzini. Fra questi spiccavano in particolare, la Gambrinus e la Lowenbrau che si trovavano in via S. Sebastiano.

“Mia figlia in versione kellerina natalizia”.

Il proprietario di quest’ultima si chiamava Monsch ed era un bavarese purosangue, da lui andavano a ristorarsi sia i funzionari asburgici che quelli italiani nell’encomiabile tentativo di trovare qualche argomento in comune oltre all’alleanza militare. Svolazzava per il locale la celebre Nelly, una prosperosa cameriera che colpirà la fantasia poetica di Camillo Sbarbaro che tra una sosta in un bordello e una in birreria ebbe modo di ricordare nella sua raccolta di versi “Fuochi fatui” anche la bella kellerina.

La Gambrinus arredata con stile tirolese era apprezzata trasversalmente dai ricchi notabili genovesi come dai semplici operai e portuali che amavano risalire i caruggi dal porto per andarsi a rinfrescare il palato con un’invitante birra. Genova in quegli anni godeva di un favorevole situazione economica, dopo l’annessione al Regno d’Italia e la crisi del ’49, culminata con la vergognosa repressione del La Marmora, la politica dei Savoia fu quella di richiamare verso la città capitali foresti  di una certa rilevanza. Allo stesso tempo l’aumento dei flussi migratori verso Nord e Sud America costituì uno straordinario impulso per il porto che conobbe, in quegli anni, un periodo di considerevole sviluppo. Anche la vita mondana della città era in grande fermento: il teatro Carlo Felice richiamava attori e attrici di fama internazionale; Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio trascorrevano notti pantagrueliche nei ristoranti della galleria, frequentati anche da Lina Cavalieri, attrice ritenuta da molti ammiratori la “donna più bella del mondo”. Le feste e i luculliani banchetti organizzati in suo onore fornirono copioso materiale per i giornali dell’epoca.

“Il logo della birra Cervisia con S. Giorgio che uccide il drago”.

 Alla stessa maniera nel ristorante – birreria di Pippo Luce, fra luci e paillettes,  s’innalzavano continui brindisi nei confronti delle belle attrici di passaggio. Il giornalista Anton Giulio Barrili  fondatore de “il Caffaro” e  Stefano Canzio presidente del Consorzio Autonomo del Porto, entrambi ex garibaldini, discutevano di politica con una birra così come faranno poi negli anni a venire grandi poeti liguri come Eugenio Montale e Camillo Sbarbaro.

A metà di Galleria Mazzini si trovava la birreria Zolezi  che offriva musica di classe dal vivo con la particolare proposta, un unicum in tutta Europa, di un apprezzato quartetto composto solo di violoncelliste viennesi.

L’attrazione al di là della musica era il fascino delle bellezze teutoniche molto gradito agli impiegati della Questura (all’epoca presso Palazzo Ducale). Carabinieri e poliziotti in libera uscita si accalcavano per vedere le prosperose bionde ragazze e le scazzottate, complice qualche birra di troppo, erano all’ordine del giorno.

Un’altra famosa  birreria si trovava in Piazza Corvetto gestita dal figlio di un deputato prussiano coadiuvato da un  singolare personaggio, un austero cameriere vestito in puro stile asburgico. Altre birrerie si trovavano in largo Zecca, vicino alla stazione Principe e in via Caffaro.

Il fascino e le mescite di quel periodo sono ormai un lontano e sbiadito ricordo, tuttavia esistono ancora in città dei  locali dove si può parzialmente rivivere i bei tempi andati, in particolare vanno citati:

“L’insegna della birreria bavarese”.

 L’HofBrauhaus in via Boccardo dove ci si può immergere nella più calorosa atmosfera bavarese accompagnando la birra che si predilige ad un’ottima cucina che abbina ai classici wurstel e stinchi, piatti ricercati e raffinati.

Non da meno, in un’atmosfera invece british,  sono il Britannia di Vico Casana dove, con un po’ di fantasia, si ha l’impressione di essere dentro ad un pub londinese, oppure nel cuore di Dublino, all’Irish pub di Vico della Croce Bianca in quello che, un tempo, era il quartiere del ghetto ebraico.

Lo stesso dicasi alla Foce per il Tartan pub di chiara impronta scottish solo che, anziché ascoltare le discussioni fra i supporters cattolici dei Celtics e quelli protestanti dei Rangers  di Glasgow, si assiste ai coloriti sfottò fra tifosi genoani e sampdoriani.

Un posto particolare però, nella storia della birra a Genova, spetta al Birrificio di Busalla che da tempo si è conquistato una preziosa nicchia di mercato per la superiore qualità del suo prodotto.

“Foto d’epoca dello stabilimento della Cervisia”.

La Fabbrica, nata nel 1905, si è guadagnata l’inserimento nel prestigioso elenco delle imprese Storiche, unico esempio in Liguria nel campo della produzione di birra artigianale.

“Maltus Faber raccoglie l’eredità, anche nel logo, della birra Cervisia”.

Altrettanta importanza nella memoria imprenditoriale della Superba riveste il marchio Maltus Faber che ha infatti sede all’interno dello stabilimento di Via Fegino n. 3, sito storico per la birra genovese in quanto, all’inizio del ‘900, ospitava il complesso della Fabbrica di Birra Cervisia.

L’antico marchio venne acquisito dal gruppo Dreher che vi istituì anche una rinomata scuola per Mastri Birrai. Successivamente l’etichetta venne ceduta alla Heineken che, in breve tempo, ne cessò la produzione.

Scura, bionda o rossa,

come l’onda a Genova,

l’importante è che la birra sia mossa.

Prosit!

Il leone del Malpasso…

Percorrendo la litoranea fra Capo Noli e Finale, all’altezza di Varigotti, ci si imbatte in una curiosa figura scolpita, a picco sul mare, dall’erosione del mare e del vento.

La natura si è divertita a disegnare un fiero leone mentre scruta il mare. A questa scultura è legata la leggenda che narra di un tal Leone che, molti secoli fa prode marinaio della Repubblica di Noli, si era imbarcato verso l’Africa con la speranza di poter ammirare dal vivo l’esotico felino di cui portava il nome.

Fu così che, giunto sulle coste del Marocco, organizzò con gli indigeni una battuta di caccia che, dopo tre giorni, culminò con la cattura di un maestoso esemplare, dalla folta criniera, del re della Savana.

Leone decise di portare con sè il leone vivo come bottino di caccia per poterlo mostrare orgoglioso a parenti e amici.

Tra antilopi, gazzelle e bestie varie vive di cui si nutriva e i lavori necessari alla manutenzione della grande gabbia lignea per alloggiarlo, Leone spese tutta la sua paga faticosamente guadagnata in quell’avventuroso viaggio.

Una volta giunto a destinazione, Il leone trasportato sulla collina delle Manie dove abitava il marinaio, ruggiva di continuo e con una potenza inaudita tale da spaventare tutto il vicinato nel raggio di parecchi chilometri.

“Il leone del Malpasso”.

Finalmente un bel giorno la belva riuscì ad evadere dalla sua gabbia e corse verso il mare da dove, proveniente dall’altra sponda del Mediterraneo, sentiva il malinconico e disperato richiamo della sua amata che, anch’essa, aveva attraversato il deserto per raggiungere la spiaggia. I lamenti della leonessa e i ruggiti del suo compagno infastidirono non  poco la quiete di un mago che alloggiava lì vicino, in una delle caverne sottostanti la scogliera. Nonostante le rimostranze e le minacce dello stregone il leone non smise mai di ruggire tutto il suo dolore e di rispondere ai richiami della sua bella così questi lo trasformò, per ridurlo al silenzio, in pietra.

Lo si può ammirare, seduto sconsolato, fieramente proteso verso il mare a scrutare l’orizzonte in cerca del suo amore. Nei giorni in cui soffia forte il vento, se si passa da quelle parti, si può ancora oggi udire il doloroso richiamo della leonessa in cerca del compagno rapito… Il leone del Malpasso!

 

E’ la Liguria terra leggiadra… la mia terra…

È la Liguria terra leggiadra.
Il sasso ardente, l’argilla polita,
s’avvivano di pampini al sole.
È gigante l’ulivo. A primavera
appar dovunque la mimosa effimera.
Ombra e sole s’alternano
per quelle fondi valli
che si celano al mare,
per le vie lastricate
che vanno in su, fra campi di rose,
pozzi e terre spaccate,
costeggiando poderi e vigne chiuse.
In quell’arida terra il sole striscia
sulle pietre come un serpe.
Il mare in certi giorni
è un giardino fiorito.
Reca messaggi il vento.
Venere torna a nascere
ai soffi del maestrale.
O chiese di Liguria, come navi
disposte a esser varate!
O aperti ai venti e all’onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore.

“La stessa immagine pochi minuti prima. Il tramonto prepara il suo spettacolo”.
“O chiese di Liguria, come navi disposte a esser varate!”. La chiesa di S. Giorgio di Tellaro.

 In questa poesia Vincenzo Cardarelli dipinge un quadro con le parole. Le singole scene sono pennellate dal poeta, ora con tenui sfumature crepuscolari, ora con tratti decisi ed assolati. Perché la Liguria è tutto ed il contrario di tutto, la terra dove gli opposti si fondono in un “unicum” irripetibile. Si percepisce come fosse cosa viva il calore dei sassi, il profumo della mimosa, l’ombra dell’ulivo, il sibilo del vento, l’incessante moto delle onde… l’amore per questa terra incantata.

Foto di un tramonto a Priaruggia.

La leggenda del polpo di Tellaro…

Gli abitanti di Tellaro avevano costruito una chiesetta vicino al mare. Lì avevano posto una sentinella con il compito di suonare a martello le campane in caso di pericolo. “Con questa tempesta nessuno metterà di sicuro la propria nave in mare. Stanotte posso dormire tranquillo”. Sicura di se, la sentinella si appisolò, felice di non dover stare con gli occhi aperti fino al mattino successivo. A mezzanotte in punto i pirati si avvicinarono alla riva. Proprio quando stavano per attraccare, le campane della chiesetta si misero a suonare, battere e rintoccare…

I Tellaresi si precipitarono a difendere il loro paese e ricacciarono in mare i pirati saraceni. Scongiurato il pericolo si chiesero chi avesse suonato la campana, visto che la sentinella dormiva fra le braccia di Morfeo? Ai piedi del campanile i tellaresi videro un enorme polipo attaccato alle funi delle campane: era stato lui a salvare il paese!
La leggenda trae origine da un avvenimento storico realmente accaduto nel luglio del 1660 quando un manipolo di pirati saraceni guidati da Gallo d’Arenzano tentò un fallito assalto al borgo. Una targa affissa all’esterno della chiesa di S. Giorgio celebra il leggendario episodio:

Saraceni mare nostrum infestantes sunt noctu profligati quod polipus aer cirris suis sacrum pulsabat“.

“La storia raccontata con gli occhi e i tratti di un bambino”.

Da allora i Tellaresi hanno adottato il cefalopode come simbolo del paese anche se, a dire il vero, non gli sono stati poi così grati visto che la sua preparazione culinaria è divenuta una presenza irrinunciabile sulle loro tavole.

Il polpo alla tellarese è una gustosa variante di quello lessato con le patate comune a tutta la regione e prevede nel condimento, a base di olio locale, l’aggiunta ad aglio e prezzemolo, di olive nere della riviera.

 

Lo scoglio di Asseu… la fiaba di Riva e Trigoso…

Opera dello scrittore sestrese Mario Antonietti è la suggestiva fiaba che affonda le sue radici nella leggenda e che narra le vicende di due giovani innamorati, Riva e Trigoso. La storia è ambientata ai tempi in cui Riva era un piccolo borgo di pescatori oggetto spesso delle incursioni dei pirati saraceni.

Il protagonista del racconto è un giovane molto coraggioso ed aitante, tale Trigoso, il quale amava la sua bella, dalle bionde trecce color dell’oro, di nome Riva, I due decisero di sposarsi ma, il giorno delle nozze, durante i festeggiamenti, il paese fu invaso dai pirati Saraceni, che saccheggiarono il villaggio e rapirono le donne più giovani e belle. La scena del ratto rievoca i trecenteschi versi di Cecco Angiolieri: “torrei le donne giovani e leggiadre,
le vecchie e laide lasserei altrui”.

“A sinistra lo scoglio di Asseu dipinto dai colori del tramonto”.

Nel tentativo di difendere la sua promessa sposa Trigoso si scagliò coraggiosamente contro i pirati e, nello scontro, mentre Riva veniva caricata a forza sulla capitana degli infedeli, perse i sensi.

“Lo scoglio dell’Asseu”.

Quando Trigoso riaprì gli occhi i legni saraceni stavano prendendo il largo e, realizzato quanto era successo, corse sulla rena dove iniziò a urlare a gran voce il nome di Riva ma, non appena i pirati lo udirono, venne colpito da una sventagliata di frecce che lo trafissero in pieno petto e lo fecero cadere a terra agonizzante. “Cadesti a terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che la tua vita finiva quel giorno e che non ci sarebbe stato ritorno” proprio come nella “Guerra di Piero”, la celebre ballata di Faber. Riva assistette alla scena dalla nave e quando vide il suo sposo morire si gettò contro il comandante che la uccise con ripetute pugnalate al ventre; i pirati ne gettarono il corpo in mare.

L’acqua si tinse del rosso del sangue e dal mare sorse un’enorme onda che colpì la nave dalla quale fece cadere diversi forzieri e bauli contenenti una gran quantità d’oro e di preziosi. I pirati non riuscirono però ad individuare il punto esatto dove era affondato il tesoro e, dopo giorni di ricerche, decisero di desistere e di salpare. La notte stessa degli Angeli discesero dal cielo e collocarono, nel punto in cui Riva era morta, un grande scoglio a forma di campana (l’attuale scoglio dell’Asseu), per ricordare ai posteri la giovane fanciulla e il suo coraggio. Contemporaneamente, nel punto dove cadde Trigoso, i ciottoli intonarono un canto d’amore.

Secondo gli esperti di storia locale il toponimo dello scoglio asseu deriverebbe dalla traduzione genovese di assiolo, un piccolo rapace notturno, molto simile alla civetta, che vi nidificava sopra. 

Passarono gli anni, i pirati non tornarono più e mentre il borgo iniziava ad ingrandirsi, i ciottoli continuavano inconsolabili a cantare la loro canzone d’amore, la baia dove i pirati persero il loro tesoro (forse al largo dell’attuale spiaggia di Renà) venne, per questo, chiamata la Baia dell’Oro e i pescatori decisero di intitolare il loro paese alla memoria dei due giovani e della loro romantica storia d’amore.

“Ancora lo scoglio di Asseu (dell’assiolo)”.

Litania… il paesaggio dell’anima…

Genova mia città intera. Geranio. Polveriera. Genova di ferro e aria, mia lavagna, arenaria.

Genova città pulita. Brezza e luce in salita. Genova verticale, vertigine, aria scale.

Genova nera e bianca. Cacumine. Distanza. Genova dove non vivo, mio nome, sostantivo.

Genova mio rimario. Puerizia. Sillabario. Genova mia tradita, rimorso di tutta la vita.

Genova in comitiva. Giubilo. Anima viva. Genova in solitudine, straducole, ebrietudine.

Genova di limone. Di specchio. Di cannone. Genova da intravedere, mattoni, ghiaia, scogliere.

Genova grigia e celeste. Ragazze. Bottiglie. Ceste. Genova di tufo e sole, rincorse, sassaiole.

Genova tutta tetto. Macerie. Castelletto. Genova d’aerei fatti, Albaro, Borgoratti.

Genova che mi struggi. Intestini. Caruggi. Genova e così sia, mare in un’osteria.

Genova illividita. Inverno nelle dita. Genova mercantile, industriale, civile.

Genova d’uomini destri. Ansaldo. San Giorgio. Sestri. Genova in banchina, transatlantico, trina.

Genova tutta cantiere. Bisagno. Belvedere. Genova di canarino, persiana verde, zecchino.

Genova di torri bianche. Di lucri. Di palanche. Genova in salamoia, acqua morta di noia.

Genova di mala voce. Mia delizia. Mia croce. Genova d’Oregina, lamiera, vento, brina.

Genova nome barbaro. Campana. Montale, Sbarbaro. Genova dei casamenti lunghi, miei tormenti.

Genova di sentina. Di lavatoio. Latrina. Genova di petroliera, struggimento, scogliera.

Genova di tramontana. Di tanfo. Sottana. Genova d’acquamarina, area, turchina.

Genova di luci ladre. Figlioli. Padre. Madre. Genova vecchia e ragazza, pazzia, vaso, terrazza.

Genova di Soziglia. Cunicolo. Pollame. Trilia. Genova d’aglio e di rose, di Pré, di Fontane Marose.

Genova di Caricamento. Di Voltri. Di sgomento. Genova dell’Acquasola, dolcissima, usignuola.

Genova tutta colore. Bandiera. Rimorchiatore. Genova viva e diletta, salino, orto, spalletta.

Genova di Barile. Cattolica. Acqua d’Aprile. Genova comunista, bocciofila, tempista.

Genova di Corso Oddone. Mareggiata. Spintone. Genova di piovasco, follia, Paganini, Magnasco.

Genova che non mi lascia. Mia fidanzata. Bagascia. Genova ch’è tutto dire, sospiro da non finire.

Genova quarta corda. Sirena che non si scorda. Genova d’ascensore, paterna, stretta al cuore.

Genova mio pettorale. Mio falsetto. Crinale. Genova illuminata, notturna, umida, alzata.

Genova di mio fratello. Cattedrale. Bordello. Genova di violino, di topo, di casino.

Genova di mia sorella. Sospiro. Maris Stella. Genova portuale, cinese, gutturale.

Genova di Sottoripa. Emporio. Sesso. Stipa. Genova di Porta Soprana, d’angelo e di puttana.

Genova di coltello. Di pesce. Di mantello. Genova di lampione a gas, costernazione.

Genova di Raibetta. Di Gatta Mora. Infetta. Genova della Strega, strapiombo che i denti allega.

Genova che non si dice. Di barche. Di vernice. Genova balneare, d’urti da non scordare.

Genova di “Paolo & Lele”. Di scogli. Furibondo. Vele. Genova di Villa Quartara, dove l’amore s’impara.

Genova di caserma. Di latteria. Di sperma. Genova mia di Sturla, che ancora nel sangue mi urla.

Genova d’argento e stagno. Di zanzara. Di scagno. Genova di magro fieno, canile, Marassi, Staglieno.

Genova di grige mura. Distretto. La paura. Genova dell’entroterra, sassi rossi, la guerra.

Genova di cose trite. La morte. La nefrite. Genova bianca e a vela, speranza, tenda, tela.

Genova che si riscatta. Tettoia. Azzurro. Latta. Genova sempre umana, presente, partigiana.

Genova della mia Rina. Valtrebbia. Aria fina. Genova paese di foglie fresche, dove ho preso moglie.

Genova sempre nuova. Vita che si ritrova. Genova lunga e lontana, patria della mia Silvana.

Genova palpitante. Mio cuore. Mio brillante. Genova mio domicilio, dove m’è nato Attilio.

Genova dell’Acquaverde. Mio padre che vi si perde. Genova di singhiozzi, mia madre, Via Bernardo Strozzi.

Genova di lamenti. Enea. Bombardamenti. Genova disperata, invano da me implorata.

Genova della Spezia. Infanzia che si screzia. Genova di Livorno, Partenza senza ritorno.

Genova di tutta la vita. Mia litania infinita. Genova di stocafisso e di garofano, fisso bersaglio dove inclina la rondine: la rima.

I miei versi sono nati in simbiosi con il vento” diceva il poeta Giorgio Caproni a proposito del suo componimento “Litania”, “sono cresciuti cadenzati e cullati dall’onda del mare”, aggiungo io.

Lo scrittore livornese di nascita, ma genovese d’adozione, nutriva infatti un amore sconfinato ed incondizionato per Genova, per i suoi caruggi, il suo cielo in salita, il suo mare, i suoi colori e profumi.

“Il poeta Giorgio Caproni”.

“Fronte mare e pescherecci riflessi nell’acqua”. Foto di Leti Gagge.

Non a caso Litania di Giorgio Caproni è una nenia per una città che di mare odora e che di mare assapora, un mantra ossessivo, una formula magica e sacra che si ripete all’infinito.

Litania pulsa d’amore; è una melodia jazz senza musica, quasi una cantilena blues per Genova madre, sorella, fidanzata, moglie, figlia, bagascia… Genova ch’è tutto dire, sempre e comunque, imprescindibile paesaggio interiore dell’anima.

In copertina panorama di Genova. Foto di Stefano Eloggi.

E Cervisia fu… la rossa…

La più antica traccia relativa alla birra risale a circa 6000 anni fa e consiste in una tavoletta sumera che raffigura delle persone che, a mezzo di una cannuccia, sorseggiano la dissetante bevanda da un recipiente comune.

In una poesia a lei dedicata, la dea mesopotamica  Ninkasi, ce ne fornisce addirittura la ricetta:

« Ninkasi, tu sei colei che cuoce il bappir nel grande forno,

Che mette in ordine le pile di cereali sbucciati, Tu sei colei che bagna il malto posto sul terreno… Tu sei colei che tiene con le due mani il grande dolce mosto di malto… Ninkasi, tu sei colei che versa la birra filtrata del tino di raccolta, È come l’avanzata impetuosa del Tigri e dell’Eufrate »

Il più remoto ritrovamento archeologico invece, che attesta la produzione della birra (termine sumero “se-bar-bi-sag” ossia, “colui che vede chiaro”), è avvenuto in Mesopotamia e risale all’epoca predinastica sumera, circa 4000 anni a.C.

“Le tavolette di Blau conservate al British Museum”.

Sono delle tavolette di argilla scoperte dall’archeologo francese Blau (per questo chiamate “monumento Blau”) vicino al fiume Eufrate e conservate al British Museum di Londra.

In esse sono raffigurati i doni propiziatori offerti alla dea Nin-Harra (dea della fertilità).

“Il Codice di Hammurabi custodito presso il Louvre di Parigi”.

Persino nel celeberrimo Codice di Hammurabi, la più arcaica raccolta di leggi mai pervenuta, vi sono elencate alcune norme che ne regolano detenzione, commercio e produzione.

Il consumo di birra si diffonde presso gli egizi, i greci, i fenici, gli etruschi e i romani. Questi ultimi prediligeranno l’espansione, anche per motivi legati al culto religioso, del vino.

Da qui in poi i barbari popoli del Nord, Vichinghi, Alemanni, Sassoni, Pannoni e Celti in generale, ne saranno i principali custodi.

Gambrinus, l’origine del cui nome è molto dibattuta (probabilmente contrazione da Jan Primus, leggendario re fiammingo per alcuni, semplice mastro birraio, per altri), nel Medioevo diviene patrono protettore della birra.

Cosa c’entra tutto ciò con Genova e la Liguria direte voi?

C’entra eccome e non solo per il secolare rapporto commerciale della Repubblica marinara con le Fiandre, che da quelle lande ne importerà barili su barili, ma perché la più antica testimonianza fisica di questa bevanda in Europa non riguarda i nordici bensì gli antichi Liguri. Nel 1994 infatti a Pombia in provincia di Novara, odierno Piemonte, un tempo territorio abitato dai nostri avi, è stato rinvenuto un singolare reperto datato 560 a.C. :

una coppa posta sopra un’urna funebre, contenente i resti di una birra di luppolo scura, probabilmente rossa di media alta gradazione, risalente in piena civiltà proto celtica ligure di Golasecca, all’età del Ferro.

Ulteriori studi ed analisi hanno confermato trattarsi di birra rossa. Essa è forse da identificare con la  cervesia/cervisia citata da Plinio (Storia naturale, XXII, 82) e Isidoro di Siviglia (Origini, XX, 3, 17)  se, come supposto, il termine deriva dall’indoeuropeo “kerewos “(cervo/rosso).

D’altra parte a proposito dei nostri antenati annotava  Strabone , Geografia, IV, 6, 2: “I Liguri vivono perlopiù delle carni dei greggi, di latte e di una bevanda d’orzo ed occupano delle terre vicino al mare e specialmente i monti” aggiungendo poi che “il loro vino è scarso, resinato ed aspro”. Tesi quest’ultima adottata, secondo la tradizione, come pretesto da Magone nel 218 a. C. per distruggere Genova poiché, a suo dire, “una città dove non cresceva una buona vite, non meritava di essere risparmiata”.

“Gambrinus patrono della birra”.

Secondo Ateneo i Liguri, come i Frigi e i Traci, chiamavano la loro birra Bryton (ricostruito sulla base di “bracis”, tipo di farro celtico), come riporta Plino, dunque anche l’area ligure produceva verosimilmente una propria birra d’orzo a fianco ai vini locali.

Il ritrovamento di Pombia non solo costituisce la più antica attestazione materiale europea di birra presumibilmente ad alta gradazione, ma addirittura potrebbe retrodatare di molto l’utilizzo del luppolo come aromatizzante e conservante della birra stessa, spiegando così il mantenimento di un ampio gradimento e consumo popolare della birra nell’Europa Occidentale ancora in età romana nonostante la crescente concorrenza del vino. per cui pare legittimo supporre che la birra stessa in partenza fosse abbastanza scura e rossastra (dunque corrispondente alla cervisia delle fonti classiche).

“Il logo, indiscutibilmente genovese, della birreria Cervisia, fondata a Fegino nel 1906”.

Dalla Mesopotamia l’arte della fabbricazione della birra passò in Egitto, per poi diffondersi in Europa: oggi, grazie ai ritrovamenti nella necropoli di Pombia, sappiamo che anche i Celti vi si dedicarono con successo. Furono bevitori di birra pure gli Etruschi ed anche all’epoca delle civiltà ellenica e romana la birra, spesso chiamata vino d’orzo, era più conosciuta di quanto comunemente si pensi o creda.

In questa lunghissima storia che attraversa i millenni anche i Liguri hanno avuto la loro parte…

 

 

 

“Intu mezu du ma… gh’è ‘n pesciu tundu…”

 Che derivi dal norvegese “stokkfisk”, dall’olandese “stocvisc” con il significato di pesce bastone, o dall’inglese “stockfish” con quello di pesce da stoccaggio, il termine stoccafisso indica il merluzzo essiccato all’aria secondo un preciso procedimento consolidato nei secoli dai Vichinghi. I navigatori nordici infatti, compresero che il pesce disidratato, non solo riduceva i rischi di contrarre infezioni virali e che occupava meno spazio a bordo, ma che aumentava addirittura, a parità di peso, quasi del triplo la resa proteica. Un alimento quindi ideale da trasportare, facile da conservare nei lunghi viaggi per nutrire gli equipaggi e da utilizzare come merce di scambio.

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“Le particolari strutture rialzate da terra utilizzate per l’essicazione del merluzzo”.

Non va confuso con il baccalà che, pur avendo origine dallo stesso pesce, è ottenuto con una tecnica diversa, quella della salagione. Questa basica distinzione comporta delle eccezioni lessicali a seconda della regione in cui viene elaborato: ad esempio il famoso “baccalà alla vicentina” è in realtà preparato in prevalenza con lo stoccafisso, quindi con il merluzzo essiccato e non con quello salato.

Nella nostra penisola giunse nel sud, in Calabria e Sicilia in particolare, grazie ai Normanni anche se è solo ad inizio del ‘500 che inizió ad essere importanto regolarmente. Qualche decennio più tardi si diffuse anche al nord, a Venezia e Genova, le due regine dei traffici marittimi.

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“Interno della bottega dello stoccafisso in Soziglia”. Foto di Leti Gagge.

Merito dell’espansione dello stoccafisso fu anche della chiesa che, dopo il Concilio di Trento avvenuto a metà del ‘500, prescrisse un maggiore consumo, rispetto al canonico venerdì, di piatti di magro. Complice il suo prezzo accessibile, unito alle indubbie qualità organolettiche e nutrizionali, l’uso dello stoccafisso si propagò facilmente. Ancora oggi il Bel Paese, è il principale importatore mondiale (quasi il 90%) di merluzzo. In particolare Calabria, Campania, Sicilia, Liguria, Livorno e Ancona risultano esserne i maggiori acquirenti.

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“Stoccafisso bollito con patate e olive taggiasche. Foto e preparazione dell’autore”.

I veneti raccontano di un naufragio avvenuto nel 1431 di una nave di S. Marco sotto il comando del capitano Pietro Querini, partita da Creta, carica di Malvasia, alla volta delle Fiandre. Con i suoi 49 membri di equipaggio, ruppe il timone nel Golfo di Biscaglia e, in balia delle correnti, andò alla deriva a sud delle isole Lofoten in Norvegia. I naufraghi una volta esaurite le scorte, si cibarono di un grosso pesce del peso di quasi un quintale, rinvenuto morto sulla rena. Sopravvissero grazie ai soccorsi della popolazione locale giunta attirata dall’enorme falò che i marinai avevano imbastito sulla spiaggia per cuocere la gigantesca bestia. Fu così che, rimasti sull’isola in attesa che l’inverno passasse, i veneziani cominciarono ad apprezzare il “Gadus morhua”, ovvero il merluzzo. Secondo questa versione lo stokke sarebbe approdato in Italia, l’anno successivo, di ritorno da quell’avventuroso viaggio. Tuttora le isole Lofoten, patria della qualità “ragno” la più pregiata, costituiscono il maggiore produttore mondiale di stoccafisso.

Al sud viene cucinato alla messinese in Sicilia, alla mammolese in Calabria, all’anconetana, nelle Marche, in Basilicata alla lucana, al nord invece, in Veneto viene consumato alla vicentina.

In Liguria giunse intorno al ‘600 in virtù dei traffici della Repubblica di Genova con il Portogallo, probabilmente importato dalle imbarcazioni dei Pessagno che, con quel paese, intessevano rapporti privilegiati. La nobile famiglia di marinai genovesi infatti, originaria delle valli alle spalle di Chiavari, si distinse alla corte del regno lusitano, a tal punto da ricoprire e tramandarsi per più di tre secoli la carica di “Almirante maggiore”.

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“Stoccafisso accomodato. Foto ed elaborazione dell’autore”.

Nella nostra regione viene preparato semplicemente bollito, accomodato, alla badalucchese, a brandacujun o con i bacilli (piccole fave secche). Quest’ultima elaborazione, come ricordato nel proverbio “A-i Morti, bacilli e stocchefisce no gh’é casa chi no i condisce”, in particolare per la ricorrenza dei morti visto che, fin dal tempo degli egizi, a questo legume era associato il culto dei defunti.

A Badalucco una località della Valle Argentina dell’entroterra imperiese, la popolazione costiera si era rifugiata per sfuggire alle scorrerie piratesche. Leggenda narra che sopravvisse all’assedio nemico grazie alle scorte di stoccafisso come rievocato nell’annuale manifestazione  in costume medievale di cui è protagonista.

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“Per par condicio, stokke bollito accompagnato da una Valpolicella veneta. Il Campanile delle Vigne fa da testimone al matrimonio”.

Il brandacujun deve invece il nome al singolare modo di mescolamento con cui viene preparato nel ponente ligure: lo stokke e le patate bollite, cosparsi di aglio e prezzemolo, limone, olio e olive taggiasche vengono energicamente “brandati” cioè, scossi a coperchio chiuso fino ad ottenere una armonica amalgama degli ingredienti.

Cucinatelo come vi pare ma assecondatelo con un rosso corposo, come ad esempio un bel Rossese di Dolceacqua o un Refosco veneto e il vostro palato ve ne sarà grato.

“Mare in burrasca, vento forte,

bollito o accomodato la sua morte,

in serate come queste, a Zena,

con lo stoccafisso si cena…

ultimo consiglio, se posso,

accompagnarlo con il rosso”.

ma se volete andare proprio sul sicuro, ascoltate questi goliardici versi di mezzo secolo fa.

O l’é lungo, o l’é dûo, o l’é tosto
o l’é bon se piggiòu in quello posto,
s’o l’é appenn-a sciortïo d’in te balle
(ma attension ch’o no l’agge e farfalle),
o sta ben con e sò due oïve
(se no son tanto passe, ma vive)
e magnificamente o s’adatta
o s’accomoda con a patatta;
ma beseugna ûn pö mettilo a bagno
(finn-a in fondo, ch’o segge ben stagno).
Se capisce ch’o ven feua mollo
(specialmente in ta zona do collo).
Ciò non toglie ch’o piaxe ûn pö a tûtte
zoene, vëgie, ciû belle ò ciû brûtte.
A sposinn-a a no o piggia mä invïo
quande a casa ghe o porta o marïo.
Pe-a zitella o boccon o l’é ghiotto
(anche mollo ò ûn pö bazanotto).
E, scibben ch’a mugugne pe-a spûssa,
anche a nonna sdentä ûn pö a s’o sûssa!
Me ricordo ancon quande mae poae
o metteiva in te man a mae moae,
ritornando a-o porto in sce o tardi:
lê a o trattava con tûtti i riguardi,
e dixendoghe: – bello o mae ragno! –
a o metteiva lì sûbito a bagno.
E a-a mattinn-a, che l’ëa ancon scûo,
a l’ammiava s’o l’ëa ancon dûo,
e a ghe diva: – ti o lasci ancon drento? –
E mae poae: – mi saieiva contento,
ma n’öriae ch’o m’andesse in malôa,
te gh’òu lascio, ma solo pe ‘n’ôa. –
E mae seu? Me sovven comme vei:
no gh’ëa verso de fâgheo piaxei.
A no o poeiva nemmeno toccâ:
«son segûa che a mi o me fa mä!»
Fin a quande a s’é faeta o galante
(ûn portuale lê ascì, carenante)
ch’o l’aveiva bello grosso e gûstoso
e o ghe l’ha regalòu d’arescoso,
e chissà, forse pe-a qualitae
differente da quella do poae,
ò magara pe-o semplice faeto
ch’o l’ëa quello che lê o gh’aiva daeto,
ò soltanto pe fâlo contento…
faeto sta che da quello momento
a figgieua a s’é decisa a assazzâlo,
continuando poi sempre a piggiâlo!
Anche mi da piccin me credeivo
ch’o dovesse fâ mä, e no ne voeivo,
ma ‘na votta, ch’aveiva bevûo,
assazzâne ûn tocchetto ho vosciûo,
lì pe lì o m’ha daeto disgûsto,
poi però gh’o sentïo in çerto gûsto,
e, d’allôa, devo dî che o gradiscio…
(a propoxito: o l’é… o STOCCHEFISCIO!!)

Poesia dialettale scritta nel luglio ’71 da Luigi Vacchetto, detto “O Bacillo”.