“Asterix ed Obelix”… prima parte

Fin da bambino i fumetti di Asterix e Obelix sono stati patrimonio del mio immaginario, in particolare da quando mio padre, nella speranza di farmi appassionare al latino, materia nella quale deficitavo, me ne aveva persino regalato un volume nella lingua degli antichi romani. Al latino mi sono appassionato poco, in compenso molto di più alle avventure dei due eroi per i quali ho sempre, nonostante l’esilarante simpatia degli invasori romani, fatto il tifo.

Eppure questi personaggi sono realmente esistiti ma non erano Galli come nella striscia di René Goscinny e Albert Uderzo bensì Liguri montani, più precisamente Apuani fedeli alleati, al tempo delle guerre puniche, dei Cartaginesi. Al posto della misteriosa e corroborante pozione magica del Druido sorbita per combattere il nemico, mi sono immaginato i nostri eroi consumare abbondanti porzioni di basilico e di agliato pesto, magari spalmato sugli archetipi dei loro gustosi testaroli.

“La copertina del romanzo di Maggiani”.

Roma caput mundi ha impiegato circa 250 anni per occupare quella terre e sfaldare la coriacea resistenza di quelle popolazioni, molto più coraggiose e indomabili rispetto a quelle di altre celebrate nazioni. Una vittoria sui Liguri era considerata talmente provvisoria e temporanea che nella Città Eterna venne coniata, a sottolinearne il carattere aleatorio, l’espressione “… come un Trionfo sui Liguri”.

Maurizio Maggiani nel suo celebre romanzo “Il Coraggio del Pettirosso” ne racconta magistralmente le vicende attingendo a piene mani dalle fonti di Strabone e Tito Livio:

“Ripartizione delle tribù liguri”

“Era un popolo quello Apuo che abitava la valle di un dolce grande fiume, con molte fiumane che gli si precipitavano addosso dalle gole profonde di un giogo di montagne aguzze e franose. Le montagne erano bianche, di un marmo morbido e poroso che diventava d’oro scarlatto quando raccoglieva il sole basso del tramonto. La valle arrivava al mare per un’ampia piana, ricca di tutti gli umori necessari a far crescere le piante e gli animali. Erano un popolo di bestie, senza una città e senza una scrittura; per questa ragione non c’è mai stato nulla in nessun luogo che parlasse per loro. Né hanno mai voluto in qualsivoglia modo parlare direttamente ai rappresentanti dell’impero di Roma in caccia di nuovi possedimenti, quando, è come se li vedessi qui davanti a me, si sono presentati in pompa magna per chiedere il pegno del vassallaggio, cercando di spiegare a quelle teste di pietra il vantaggio che ne sarebbe derivato. Non hanno mai avuto idea di parlamentare o trattare. E questo lo dicono i cronisti di Roma. E dicono anche che è stata una gran follia non voler capire dove stava tirando il vento, una sciagura da addebitarsi al fatto che quel popolo non era di veri uomini, quanto piuttosto di mostri selvatici e indecifrabili. Allora si procedette come di consueto in queste faccende d’insubordinazione. Le legioni spianarono l’erba grassa della piana, i carri da guerra ararono la valle per tutta la sua lunghezza e i cavalli asciugarono le fiumane con la gran sete dei conquistatori.

Perché Roma non la ferma nessuno. Così che gli Apui si fecero ancora più lupi di com’erano e si issarono sulle montagne più impervie e resistettero. Durarono a guerreggiare 250 anni, ed è una cosa inaudita che possa essere successo. Avranno mangiato pane fatto con la farina macinata dalla pietra del marmo per poter durare così tanto, si saranno mangiati tra loro, o avranno sbranato i lupi loro cugini. O forse erano lupi, se è vero quel che dicono i Romani. Che un giorno piovvero a branchi da ogni lato del cielo sul grande accampamento fortificato alle pendici del Monte Caprione e fecero a pezzi cinquemila tra fanti e cavalieri. Rapinarono cento carri carichi di vettovaglie, e salmeria e bagasce a frotte, con il console Marcello nascosto fra le loro sottane dorate. E si sentivano i buoi mugghiare per il dolore di vedersi mangiati vivi. Cinquemila in un giorno solo: che gran inviperimento al senato di Roma e che rabbia.

“Elmo di un guerriero apuano”.

E infatti non si badò a spese e di conseguenza gli stolidi Apui, gli abominevoli rigettatori della clemenza di Roma, vennero debitamente sterminati. Furono arsi i boschi, avvelenati i sorgivi, spazzolati i recessi e le tane con la striglia delle ottanta centurie del console Claudio, l’élite delle armi, lo scudo inflessibile della sacra difesa dell’impero. Ogni accorgimento fu approntato perché non rimanesse nessuno, non un bambino, una puerpera, un vecchio, che non fosse stato toccato dalla mano della vendetta. Per chi ne uscì vivo fu organizzato un convoglio in catene per consegnarlo, possibilmente con ancora un po’ di fiato nell’anima, alle miniere di rame del sannio, all’altro capo dell’Italia.

“Guerriero apuano”.

Bisognava averlo visto quel corteo di diecimila semi uomini che attraversava l’Italia tenuto per la catena. Che figliava, che si straziava di dolore, che avvizziva di rabbia, che cresceva e moriva, che forse faceva l’amore . E mangiava, dormiva e cagava sotto la scorta del trionfo di Roma. Spettacolo a imperitura memoria per tutte le genti che lo hanno visto passare per la durata di un anno e forse più, per la lunghezza di mille miglia e forse più”.

continua…

Storia di un Monaco…

Il nome della città di Monaco deriva dalla denominazione voluta nella notte dei tempi dai Fenici, che la chiamarono in greco Monoikos “Una casa sola”. Da sempre territorio delle tribù dei Liguri, nel 600 a.C. in omaggio alle fatiche di Ercole, venne ribattezzata dai greci di Marsiglia che l’avevano occupata Portus Herculis Monoeci. Il figlio di Zeus infatti, di ritorno dalle sue leggendarie fatiche, proprio dopo il Rodano aveva dovuto arrestarsi di fronte ai Liguri.

Sebbene non abbia alcun legame con l’origine etimologica del nome il termine monaco ricorre curiosamente a proposito dell’insediamento della famiglia Grimaldi, tuttora casata regnante dell’anacronistico Principato.

"La Rocca di Monaco, costruita dai genovesi nel 1215".
“La Rocca di Monaco costruita dai genovesi nel 1215”.

 

Francesco Grimaldi esponente di spicco della famiglia guelfa, una delle quattro più influenti della città (Fieschi guelfa e Doria e Spinola ghibellina, le altre tre), nel 1297 in occasione di una delle frequenti lotte intestine salpò alla volta della Rocca di Monaco.

L’ammiraglio detto il “Malizia” per la sua astuzia, con uno stratagemma, aiutato da un parente membro del drappello di guardia, riuscì ad introdursi nella fortezza vestito da monaco e a conquistarla.

"La statua del "monaco" Francesco Grimaldi".
“La statua del “monaco” Francesco Grimaldi”.

Da allora fino ai giorni nostri con alterne fortune, interrotti in alcuni brevi periodi i Grimaldi hanno gradualmente perso contatto con la madrepatria e regnato sul Principato.