“I Genovesi sono di due tipi”…

Certo l’anagrafe recita “Santiago de Las Vegas de La Habana” come luogo di nascita di Italo Calvino ma lo scrittore, sanremese di origine e cultura, esprime in tutta la sua feconda poetica una sensibilità e appartenenza del tutto ligure. Egli stesso infatti racconta:

“Il mondo di cui sto parlando ha questo di diverso da altri possibili mondi, che uno sa sempre dove sono il levante e il ponente in tutte le ore del giorno e di notte […] ogni orientamento per me comincia da quell’orientamento iniziale, che implica sempre l’avere sulla sinistra il levante e sulla destra il ponente, e solo a partire di lì posso situarmi in rapporto allo spazio, e verificare le proprietà dello spazio e le sue dimensioni.

Una Liguria decritta dai poeti e pioniera del turismo a cavallo tra ‘800 e ‘900 che Calvino omaggia sì ma non tralasciando l’aspetto più sincero e segreto del ligure, quello laborioso e riservato di coloro i quali lavorandola quella terra, l’hanno nobilitata.

“Italo Calvino”.

“Dietro la Liguria dei cartelloni pubblicitari, dietro la Riviera dei grandi alberghi, delle case da gioco, del turismo internazionale, si estende, dimenticata e sconosciuta, la Liguria dei contadini”.

Un viaggio che prosegue nei ricordi di bambino di una bucolica e spensierata infanzia:

“Genova ripresa dall’alto con al centro il suo bacino portuale che ricorda la forma dell’ombelico”.

“Finiti gli orti, cominciava l’oliveto, grigio-argento, una nuvola che sbiocca a mezza costa. In fondo c’era il paese accatastato, tra il porto in basso e in su la rocca; ed anche lì, tra i tetti, un continuo spuntare di chiome di piante […] Sopra gli olivi cominciava il bosco. I pini dovevano un tempo aver regnato su tutta la plaga, perché ancora s’infiltravano in lame e ciuffi di bosco giù per i versanti fino sulla spiaggia del mare […] Più in su i pini cedevano ai castagni, il bosco saliva il bosco saliva la montagna, non se ne vedevano confini. Questo era l’universo di linfa entro il quale noi vivevamo…”
E per un ligure – si sa – Genova rimane comunque il fulcro di tutto, il metro con cui misurare le cose, l’ombelico del mondo:

“La realtà e la storia di Genova possono essere una chiave per capire qualche carattere di fondo che è di tutta la Liguria: suo limite e insieme sua forza. Se è decadentismo volgersi al passato per assaporarne l’agonia, Genova è una città così poco decadente da tenersi stretto il proprio passato fin quasi a non vederlo, portandolo con sé nel presente, che è la sua vera dimensione. Se è narcisismo non sapersi staccare dalla contemplazione della propria immagine, Genova è così poco narcisista che della propria immagine non sa né se ne cura, tutta presa com’è da quello che fa e mette insieme e moltiplica”.

I Genovesi sono un popolo assai attaccato alla propria terra, tradizioni, cultura e Calvino ne distingue di due principali tipi: “quelli che restano attaccati agli scogli come le patelle e quelli che invece partono e vanno a girare per il mondo”.

I più grandi – aggiungo io – quelli che hanno contribuito a migliorarlo quel  mondo appartengono a quest’ultimo. Chi scrive questo racconto, più modestamente, al primo.

… Quando in Via Ruffini…

 

Il tempo sembra essersi fermato in Via Jacopo Ruffini (un tempo Via Ginevrina) in Carignano, mancano solo le automobili parcheggiate ai lati della strada e, al centro della carreggiata, qualche scooter al posto dei cavalli.

Quando a metà strada sulla destra in onore di Don Piccardo, fondatore della Congregazione dei Figli di Santa Maria Immacolata, era già stato intitolato l’omonimo istituto commerciale.

A sinistra invece oggi come allora gli alberi che dal muro perimetrale sconfinavano sulla strada appartenevano al giardino di Villa Croce, a quel tempo non ancora, come esplicito desiderio della famiglia, destinata a museo. In primo piano un tombarello trottava indisturbato fra gli alberi spogli mentre sul marciapiede camminava un passante.

Svoltata la curva, prima del tratto oggi regolato da un efficiente semaforo, la via si raccorda con la Circonvallazione a mare dove un altro carretto arrancava in direzione dell’attuale Corso Saffi; un uomo con appariscenti pantaloni bianchi passeggiava tenendo per mano una bambina mentre ne incrociava un altro proveniente dalla direzione opposta. Appoggiato al muretto un signore guardava verso il mare e si godeva il panorama.

“Tratto finale di Via Jacopo Ruffini all’incrocio con Corso Saffi”.

“Parsimoniosi a causa di un Corsaro”…

Se c’è un luogo comune associato ai genovesi è proprio quello legato alla loro presunta avarizia. Una storia che parte da lontano, da molto lontano probabilmente già al tempo del famoso “Emmo Za Daeto” pronunziato dai legati della Repubblica in faccia all’Imperatore Federico Barbarossa che, pretendendo da costoro tributo, ottenne invece l’orgoglioso rifiuto.

Una caratteristica questa legata alla gestione del denaro che si rafforza a partire dal ‘400 quando, a seguito dell’istituzione del Banco di San Giorgio avvenuta nel 1407, la Superba diviene la regina delle transazioni finanziarie contendendo il primato in questo ambito ai grandi banchieri teutonici e sassoni.

E siccome “a prestâ e palanche à un amigo, ti perdi e palanche e ti perdi l’amigo” i genovesi, ligi all’antico adagio,
(se presti soldi ad un amico, perdi i soldi e perdi l’amico) fanno fortuna prestando “palanche” alle emergenti e ambiziose monarchie francese e spagnola.

“Il cambiavalute di Rembrandt”. Tela del 1627 conservata al Staaliche Museen di Berlino.

Sul finire del secolo Genova, fiutandone il senso degli affari e le potenzialità economiche, accoglie la prima comunità di ebrei sefarditi espulsi dalla Spagna cattolica da Isabella di Castiglia. Da questi i Genovesi apprendono e affinano sia le tecniche commerciali che le pratiche di strozzinaggio. Ed è proprio in questo periodo che, per calmierare e porre freno alla lucrosa gestione dei prestiti, vengono istituiti anche a Genova i banchi di pegno.

A detta degli storici però il vero spartiacque in relazione all’assioma “genovesi quindi avari” che si sostituisce nell’immaginario collettivo al precedente “genuensis ergo mercator” (genovese dunque mercante) risale al 1588 quando i destini della Signora del mare si incrociarono con quelli del grande corsaro inglese Sir Francis Drake.

Da tempo infatti Genova aveva rinunciato alla sua vocazione marittima preferendole quella finanziaria e bancaria: quello che veniva identificato come “Il siglo de los Genoveses”  quando i forzieri della città partivano per la Spagna e tornavano onusti di oro delle Americhe, tanto che si diceva: “l’oro nasce nel Nuovo Mondo ma viene sepolto a Genova”, volgeva ormai al tramonto.

“Nave con le insegne imperiali nel 1566 onusta di tesori”.

Era il periodo in cui le dimore patrizie genovesi erano le più sfarzose d’Europa: una ricchezza comunque mai ostentata fine a se stessa ma semmai consona al rango per doveri di rappresentanza e prestigio sociale, più spesso, accuratamente nascosta e considerata solo un modo redditizio per diversificare gli investimenti.

“o cû e i dinæ no se mostran à nisciun”
(il sedere e i soldi non si mostrano a nessuno).

I genovesi dunque così pronti a viaggiare per il mondo, protagonisti dei commerci e delle scoperte geografiche invece a casa loro sono schivi e diffidenti, per nulla inclini a mostrare le proprie ricchezze e proprietà.

Era scomparso da circa un lustro Andrea Doria quando nel 1585 era scoppiata la guerra tra Spagna e Inghilterra e Filippo II, per sconfiggere la terra di Albione di Sir Francis Drake, decise di allestire l’invincibile “armada” commissionandola, come da consolidata tradizione, ai genovesi.

“La regina Elisabetta I nomina corsaro Sir Francis Drake”.

I nostri armatori erano indecisi e titubanti se investire così tanto denaro in un’impresa a tal punto rischiosa da mettere a repentaglio le risorse della Repubblica ma decisero comunque di restare fedeli alla corona degli Asburgo e di finanziare questa operazione. Vennero allestiti 130 vascelli, con relativo armamento di 24.000 uomini, pronti per affrontare le terribili battaglie del 1588.

La sorte avversa culminata in una serie anomala di violentissime tempeste unita all’indiscussa abilità e capacità marinara di Drake infransero i sogni spagnoli e con essi anche le speranze di lucro dei genovesi.

Per la regina del mare, dopo un secolo di ricchezze, agi e splendori, si trattò di un colpo durissimo dal quale non riuscì più completamente a risollevarsi. La Spagna terminerà la sua iperbole di dominio europeo e Genova, fedele alleata, ne seguirà il declino con l’aggravante di non riuscire più né a pretendere, né di conseguenza a riscuotere i crediti maturati e dovuti.

Da qui si fa risalire quindi la diffidenza quando si parla di dinæ nei confronti dei “furesti” e quel senso di malcelata rassegnazione (se non era per gli spagnoli…) che porterà i nostri avi ad essere più che mai accorti nei loro futuri investimenti: quello che per gli altri quindi è tirchieria per i genovesi è parsimonia perché – e la storia ce lo insegna – “maniman” non si sa mai.

Perché se nel campo delle scienze Lavoisier teorizzava “in una reazione chimica nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma” per i genovesi, in quello economico, nulla si butta via, nulla si spreca e tutto si ricicla e risparmia”.

In copertina allegoria dell’avarizia – miniatura dal Trattato sui Sette Vizi Capitali di Cocharelli – Genova, 1330-1340.

… Quando in Sottoripa…

Una ragazza cammina pensierosa mentre dietro due uomini discutono tra di loro. Sullo sfondo passeggiano altri passanti. In quel tratto la copertura di Sottoripa non c’è più, rimangono solo desolazione e macerie ma per lo meno il calpestio dei loro passi e il suono delle loro parole non è più cadenzato dal rumore delle sirene degli allarmi antiaerei.

Quando, a partire dal 1893, si procedette a rivoluzionare tutto l’antico assetto del fronte mare con i riempimenti per l’edificazione della Circonvallazione a mare (Corsi Quadrio e Saffi).

Sparirono all’altezza di Via Ponte Calvi fino a Vico Morchi, le costruzioni sopra il porticato e con esse le tracce dell’antico acquedotto medievale lungo il percorso dell’originale romano. Nel tratto compreso tra Vico del Serriglio e Via al Ponte Reale se ne possono ancora oggi ammirare brani superstiti.

Quando parte del millenario porticato venne cancellato dalle bombe e, soprattutto, dal colpo di grazia, ancora oggi un’offesa inaccettabile al nostro panorama, inflitto dal Ministero della Pubblica Istruzione quando nel 1950 innalzò, incastonato fra le torri medioevali, quell’indescrivibile mostro architettonico di cemento che si affaccia molesto ed estraneo in Piazza Caricamento.

… Quando in Via Alessi…

Quando in Via Galeazzo Alessi i bambini erano indecisi se osservare meravigliati il tram sferragliare sulle rotaie o l’obiettivo del fotografo…

quando in cima alla salita della via intitolata al celebre architetto perugino non c’era ancora la premiata pasticceria San Sebastiano che con le sue golose ricette dal 1958 avrebbe deliziato il palato degli abitanti del quartiere.

quando il suo più grande capolavoro, la Basilica dell’Assunta di Carignano, costruita in sfregio ai Fieschi, sorvegliava sorniona il traffico.

“Così parlò Zarathustra”…

Nietzsche soggiornò più volte a Genova e lungo la riviera di Levante. Qui visse i suoi anni più felici e creativi dove nei periodi di tregua che la malattia gli concedeva trascorreva il suo tempo indisturbato intento a comporre i suoi scritti.

Fu così che durante uno di questi soggiorni alla fine di novembre del 1882 partì per Santa Margherita e tornò a Genova solo nel febbraio dell’anno seguente. L’euforia degli ultimi due anni era svanita: gli restavano pochi amici, il suo malessere fisico peggiorava e, dopo essere stato respinto dall’amica Lou, cominciò la stesura del manoscritto del “Così parlò Zarathustra”.

“Salita delle Battistine”. Foto di Leti Gagge.

Si accentuava la sua alienazione, voleva nascondersi dal resto del mondo. In una lettera del 22 febbraio 1883, spedita da Rapallo, scrive all’amico Franz Overbeck: “Sabato partirò per Genova, lì il mio indirizzo sarà (per favore non darlo a nessuno): Genova (Italia), Salita delle Battistine 8 (interno 6)”.

“Il portone del civico dove dimorò il filosofo”.

A scuola nessuno me lo aveva raccontato ma l’opera che forse più di ogni altra ha influenzato il pensiero occidentale del Novecento “Così parlò Zarathustra” appunto, è stata ispirata da Genova e concepita proprio davanti al suo mare. Forse se da ragazzo lo avessi saputo avrei affrontato lo studio di questo filosofo con tutt’altro interesse e solo da adulto, con questa consapevolezza, mi sono cimentato nel leggere sul serio le sue opere.

A raccontarlo è lo scrittore stesso che così descrive nei suoi appunti durante una passeggiata tra Zoagli e Portofino il magico momento della creazione:

“La mattina andavo verso sud, salendo per la splendida strada di Zoagli, in mezzo ai pini, con l’ampia distesa del mare sotto di me; il pomeriggio, tutte le volte che me lo consentiva la salute, facevo il giro di tutta la baia di Santa Margherita, arrivando fin dietro Portofino. Questo luogo e questo paesaggio sono diventati ancora più vicini al mio cuore per il grande amore che l’indimenticabile imperatore tedesco Federico III ha avuto per essi; per caso mi trovavo di nuovo su questa costa nel’’autunno 1886, quando egli visitò per la prima volta questo piccolo dimenticato mondo di felicità. – Su queste due strade mi venne incontro tutto il primo Zarathustra, e soprattutto il tipo di Zarathustra stesso: più esattamente, mi assalì…”

“Passeggiata a mare di Zoagli”.
“Scorcio di sentiero nei dintorni di Zoagli”.

Spesso frequentava la passeggiata a mare “Principessa di Piemonte” (oggi Anita Garibaldi) di Nervi e prendeva appunti seduto sugli scogli.  Durante la permanenza nella nostra regione compose numerose poesie ispirate da Genova e, oltre al “Così parlò Zarathustra”, anche alcune delle sue altre principali opere che sarebbero poi diventate pietre miliari dello spirito occidentale quali: “La Gaia Scienza”, “Gli idilli messinesi” e “Aurora”.

Non ultimo “L’Ecce Homo” pubblicato postumo, una sorta di biografia e sintesi del suo percorso umano e filosofico, che profuma di mare:

“Quasi ogni frase del libro Ecce Homo è stata ideata, pescata in quel guazzabuglio di scogli vicino a Genova, dove io stavo solo e scambiavo ancora segreti col mar”.

In copertina: Passeggiata Anita Garibaldi. Foto di Stefano Eloggi.

… Quando c’erano i Cannoni e le Caserme…

Quando anche con un cielo terso vicino alla Lanterna i nembi volavano bassi. Ma non erano soffici nuvole bensì colonne di fumo prodotte dai colpi di cannone.

Quando intorno al Faro, a difesa del porto erano state predisposte e potenziate, a varie riprese, volute dai Savoia, le batterie di cannoni di San Benigno. Tale artiglieria, continuò ad essere presidiata e puntigliosamente mantenuta in funzione grazie a regolari esercitazioni fino al 1915, anno della sua definitiva dismissione.

Sul sovrastante colle di San Benigno, dove un tempo sorgeva l’omonimo secolare monastero (XII sec.) intitolato a San Paolo, d0po i moti del 1849 furono erette, per volere del generale La Marmora, anche due grandi  Caserme adibite ad ospitare la truppa.

“A sinistra la Lanterna. Al centro e a destra ledue caserme di san Benigno. Cartolina del 1912.

Vennero anch’esse dismesse nel 1920 e poi, nel 1925, definitivamente demolite.

“Essere Antifascisti”…

Il 28 giugno 1960 i partiti antifascisti si coalizzarono per difendere la Costituzione ed impedire che il Movimento Sociale Italiano organizzasse a Genova il proprio Congresso Nazionale.
Il Presidente onorario di tal partito sarebbe dovuto essere Basile, in epoca fascista Prefetto per le Deportazioni.
Il 30 giugno venne indetto lo Sciopero Generale a partire dalle 15 fino alla fine dei turni di lavoro.
Si formò così un Corteo di alcune migliaia di persone con destinazione Piazza della Vittoria dove a pronunciare l’accorato discorso contro il neonato fascismo fu Sandro Pertini.

Al termine della Manifestazione gran parte dei dimostranti risalì verso Piazza De Ferrari dove erano schierate in assetto antisommossa le Forze dell’Ordine.
Gli scontri furono violenti e durarono circa due ore fino a quando il Presidente dell’Anpi Giorgio Gimelli e il Questore della città concordarono la ritirata delle Forze di Polizia.

“Sandro Pertini sul palco sotto l’Arco dei Caduti in Piazza della Vittoria”.

Ovviamente il Congresso del Partito non si tenne più a Genova e, conseguenza di questo smacco, a Roma cadde il Governo Tambroni.

ESSERE ANTIFASCISTI È IMPEDIRE AI NEOFASCISTI DI MANIFESTARE. (IL DISCORSO DI SANDRO PERTINI A GENOVA NEL 1960)
di Sandro Pertini

“Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa.
Io nego – e tutti voi legittimamente negate – la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova il suo congresso. Infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta Costituzionale, l’attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologià di reato.
Si tratta del resto di un congresso che viene qui convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza.

“Scontri in Piazza De Ferrari”.

Ed è ben strano l’atteggiamento delle autorità costituite le quali, mentre hanno sequestrato due manifesti che esprimevano nobili sentimenti, non ritengono opportuno impedire la pubblicazione dei libelli neofascisti che ogni giorno trasudano il fango della apologia del trascorso regime, che insultano la Resistenza, che insultano la Libertà.
Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza.
Questi valori, che resteranno finché durerà in Italia una Repubblica democratica sono: la libertà, esigenza inalienabile dello spirito umano, senza distinzione di partito, di provenienza, di fede. Poi la giustizia sociale, che completa e rafforza la libertà, l’amore di Patria, che non conosce le follie imperialistiche e le aberrazioni nazionalistiche, quell’amore di Patria che ispira la solidarietà per le Patrie altrui.

“Il fiume umano di decine di migliaia di manifestanti in Via XX Settembre”

La Resistenza ha voluto queste cose e questi valori, ha rialzato le glorie del nostro nuovamente libero paese dopo vent’anni di degradazione subita da coloro che ora vorrebbero riapparire alla ribalta, tracotanti come un tempo. La Resistenza ha spazzato coloro che parlando in nome della Patria, della Patria furono i terribili nemici perché l’hanno avvilita con la dittatura, l’hanno offesa trasformandola in una galera, l’hanno degradata trascinandola in una guerra suicida, l’hanno tradita vendendola allo straniero. Noi, oggi qui, riaffermiamo questi principi e questo amor di patria perché pacatamente, o signori, che siete preposti all’ordine pubblico e che bramate essere benevoli verso quelli che ho nominato poc’anzi e che guardate a noi, ai cittadini che gremiscono questa piazza, considerandoli nemici della Patria, sappiate che coloro che hanno riscattato l’Italia da ogni vergogna passata, sono stati questi lavoratori, operai e contadini e lavoratori della mente, che noi a Genova vedemmo entrare nelle galere fasciste non perché avessero rubato, o per un aumento di salario, o per la diminuzione delle ore di lavoro, ma perché intendevano battersi per la libertà del popolo italiano, e, quindi, anche per le vostre libertà.
E’ necessario ricordare che furono quegli operai, quegli intellettuali, quei contadini, quei giovani che, usciti dalle galere si lanciarono nella guerra di Liberazione, combatterono sulle montagne, sabotarono negli stabilimenti, scioperarono secondo gli ordini degli alleati, furono deportati, torturati e uccisi e morendo gridarono “Viva l’Italia”, “Viva la Libertà”. E salvarono la Patria , purificarono la sua bandiera dai simboli fascista e sabaudo, la restituirono pulita e gloriosa a tutti gli italiani.

“Eloquente striscione esibito dal corteo”

Dinanzi a costoro, dinanzi a questi cittadini che voi spesso maledite, dovreste invece inginocchiarvi, come ci si inginocchia di fronte a chi ha operato eroicamente per il bene comune.
Ma perché, dopo quindici anni, dobbiamo sentirci nuovamente mobilitati per rigettare i responsabili di un passato vergognoso e doloroso, i quali tentano di tornare alla ribalta?
Ci sono stati degli errori, primo di tutti la nostra generosità nei confronti degli avversari. Una generosità che ha permesso troppe cose e per la quale oggi i fascisti la fanno da padroni, giungendo a qualificare delitto l’esecuzione di Mussolini a Milano. Ebbene, neofascisti che ancora una volta state nell’ombra a sentire, io mi vanto di avere ordinato la fucilazione di Mussolini, perché io e gli altri, altro non abbiamo fatto che firmare una condanna a morte pronunciata dal popolo italiano venti anni prima.
Un secondo errore fu l’avere spezzato la solidarietà tra le forze antifasciste, permettendo ai fascisti d’infiltrarsi e di riemergere nella vita nazionale, e questa frattura si è determinata in quanto la classe dirigente italiana non ha inteso applicare la Costituzione là dove essa chiaramente proibisce la ricostituzione sotto qualsiasi forma di un partito fascista ed è andata più in là, operando addirittura una discriminazione contro gli uomini della Resistenza, che è ignorata nelle scuole; tollerando un costume vergognoso come quello di cui hanno dato prova quei funzionari che si sono inurbanamente comportati davanti alla dolorosa rappresentanza dei familiari dei caduti.

“La prima pagina dell’Unità”

E’ chiaro che così facendo si va contro lo spirito cristiano che tanto si predica, contro il cristianesimo di quegli eroici preti che caddero sotto il piombo fascista, contro il fulgido esempio di Don Morosini che io incontrai in carcere a Roma, la vigilia della morte, sorridendo malgrado il martirio di giornate di tortura. Quel Don Morosini che è nella memoria di tanti cattolici, di tanti democratici, ma che Tambroni ha tradito barattando il suo sacrificio con 24 voti, sudici voti neofascisti.
Si va contro coloro che hanno espresso aperta solidarietà, contro i Pastore, contro Bo, Maggio, De Bernardis, contro tutti i democratici cristiani che soffrono per la odierna situazione, che provano vergogna di un connubio inaccettabile.
Oggi le provocazioni fasciste sono possibili e sono protette perché in seguito al baratto di quei 24 voti, i fascisti sono nuovamente al governo, si sentono partito di governo, si sentono nuovamente sfiorati dalla gloria del potere, mentre nessuno tra i responsabili, mostra di ricordare che se non vi fosse stata la lotta di Liberazione, l’Italia, prostrata, venduta, soggetta all’invasione, patirebbe ancora oggi delle conseguenze di una guerra infame e di una sconfitta senza attenuanti, mentre fu proprio la Resistenza a recuperare al Paese una posizione dignitosa e libera tra le nazioni.
Il senso, il movente, le aspirazioni che ci spinsero alla lotta, non furono certamente la vendetta e il rancore di cui vanno cianciando i miserabili prosecutori della tradizione fascista, furono proprio il desiderio di ridare dignità alla Patria, di risollevarla dal baratro, restituendo ai cittadini la libertà. Ecco perché i partigiani, i patrioti genovesi, sospinti dalla memoria dei morti sono scesi in Piazza: sono scesi a rivendicare i valori della Resistenza, a difendere la Resistenza contro ogni oltraggio, sono scesi perché non vogliono che la loro città, medaglia d’oro della Resistenza, subisca l’oltraggio del neofascismo.
Ai giovani, studenti e operai, va il nostro plauso per l’entusiasmo, la fierezza., il coraggio che hanno dimostrato. Finché esisterà una gioventù come questa nulla sarà perduto in Italia.
Noi anziani ci riconosciamo in questi giovani. Alla loro età affrontavamo, qui nella nostra Liguria, le squadracce fasciste. E non vogliamo tradire, di questa fiera gioventù, le ansie, le speranze, il domani, perché tradiremmo noi stessi. Così, ancora una volta, siamo preparati alla lotta, pronti ad affrontarla con l’entusiasmo, la volontà la fede di sempre.
Qui vi sono uomini di ogni fede politica e di ogni ceto sociale, spesso tra loro in contrasto, come peraltro vuole la democrazia. Ma questi uomini hanno saputo oggi, e sapranno domani, superare tutte le differenziazioni politiche per unirsi come quando l’8 settembre la Patria chiamò a raccolta i figli minori, perché la riscattassero dall’infamia fascista.

“L’Unità celebra la Resistenza genovese. Cade il Governo”

A voi che ci guardate con ostilità, nulla dicono queste spontanee manifestazioni di popolo? Nulla vi dice questa improvvisa ricostituita unità delle forze della Resistenza?
Essa costituisce la più valida diga contro le forze della reazione, contro ogni avventura fascista e rappresenta un monito severo per tutti. Non vi riuscì il fascismo, non vi riuscirono i nazisti, non ci riuscirete voi.
Noi, in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, ad impedire che ad essa si rechi oltraggio.
Questo lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti, e per l’avvenire dei nostri vivi, lo compiremo fino in fondo, costi quello che costi.”

 

… Quando l’Angelo della Vittoria…

Quando all’inizio di Corso Italia, all’angolo fra Via Casaregis e Via dei Fogliensi  ancora negli anni ’30 c’erano sì dei parcheggi ma non per le macchine, bensì per i gozzi  dei pescatori della Foce…

quando il traffico era costituito da tranvai e tombarelli e la strada era poco più che uno sterrato.

Dall’alto dell’omonimo palazzo di fattura razionalista l’angelo della Vittoria, oggi come allora, vegliava autorevole sull’incrocio.

La statua, di fatto una “Nike” scolpita da Guido Galletti, reggeva in pugno una ghirlanda, credo andata perduta durante la guerra.