Storia di un re… di una regina…

Il 1311 è un anno importante nella storia della Repubblica poiché, per la prima volta, Genova dilaniata dalle lotte intestine, si dà in signoria ad un sovrano straniero.

“Quel che resta del corpo principale del monumento a Margherita di Brabante di Giovanni Pisano”.

Nel gennaio di quell’anno infatti, Enrico VII di Lussemburgo (nome volgare Arrigo VII) viene incoronato in Sant’Ambrogio a Milano re d’Italia. Due sole città Genova (come in occasione del celebre “Abbiamo già dato” sbattuto in faccia a Federico Barbarossa) e Venezia rifiutano di pronunciare il giuramento di fedeltà fino a che non vengano garantiti loro gli antichi privilegi.

Re Enrico VII nomina suo Vicario a Genova Amedeo di Savoia, conferma le concessioni ai genovesi e mantiene inalterata la struttura governativa della città. Genova deve però contribuire al faraonico compenso del suo nuovo reggente corrispondendogli la cospicua cifra di quarantamila fiorini annui.

In ottobre, durante il suo viaggio a Roma, per la cerimonia d’incoronazione imperiale, il re passa per Genova dove, davanti a S. Salvatore, nella piazza di Sarzano viene accolto con tutti gli onori. Oltre al numeroso esercito ed al ricco seguito ad accompagnarlo c’è la sua sposa, la regina Margherita di Brabante. Ai due sovrani i genovesi, sotto forma di dono, regalano ottantamila fiorini d’oro.

Le due fazioni che, in quel periodo, si contendevano il governo della Dominante erano capeggiate da Opizzino Spinola e Guglielmo Fieschi i quali, in cambio dell’appoggio reale, avrebbero garantito al sovrano il completo dominio della città per 20 anni. Enrico VII, da accorto politico, chiede che sia l’assemblea popolare a ratificargli tale proposta. In questo modo podestà, abate del popolo e senato forniscono mandato al nobile Rolando di Castiglione per il conferimento per 20 anni della potestà di Genova.

Le lotte di parte, soprattutto fra Doria e Spinola, non cessarono ma in questo modo la Repubblica aveva manlevato parte delle proprie responsabilità, riversando su altri le proprie inettitudini e il sovrano, senza colpo ferire, aveva acquisito un importante territorio, una flotta invincibile ed un sacco di palanche.

Ma il prezzo che Enrico VII dovette pagare fu comunque più alto di quanto avesse potuto immaginare poiché, a causa della peste portata in città dalle sue truppe, il 13 dicembre di quell’anno in S. Domenico pianse l’amata sposa, morta a causa del morbo.

Quanto riferito da alcuni tardi cronisti, ovvero che Margherita fosse morta nel convento di S. Domenico assistita amorevolmente dai frati, risulta poco credibile, soprattutto se messo a confronto con la testimonianza di Albertino Mussato suo contemporaneo (che conobbe la coppia reale), secondo il quale la morte della regina sarebbe invece avvenuta fuori città «in palatio eredum Benedicti Zachariae».

La notizia è del resto compatibile con la possibilità che l’imperatrice, a causa della sua malattia, si trovasse al di fuori della mura urbane, che il sarcofago fosse privo di murature e di lapidi e che, secondo il volere di Enrico, esso dovesse essere trasferito in Germania. Ma era trascorsa appena una settimana dalla morte, che a Margherita già veniva attribuito il primo miracolo e le sue spoglie cominciarono a essere oggetto di un’intensa devozione popolare. La fama della sua santità si diffuse spontaneamente; voci di altre opere miracolose si propagarono finché, nel 1313, ella fu dichiarata beata.

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“A sinistra la Madonna priva di Bambinello del museo di S. Agostino, al centro la Giustizia di Palazzo Spinola, in basso a destra la Prudenza della collezione svizzera, in alto a destra la Temperanza di proprietà dei Doria”.
“Testa della Fortezza a Palazzo Spinola”.

Fu il culto rapidamente cresciuto intorno alla figura della consorte che indusse Enrico, presumibilmente, ad abbandonare l’idea di trasferirne i resti in patria. Anzi, nella primavera del 1312, quando egli era a Pisa, commissionò allo scultore Giovanni Pisano un monumento che celebrasse nel modo più splendido Margherita e le sue virtù. Ne è testimonianza un documento che stabilisce il pagamento di 80 fiorini d’oro all’artista pisano, come compenso per l’esecuzione della pregevole opera.

Margherita di Brabante venne dunque sepolta nel convento di San Francesco di Castelletto e il re incaricò il più grande artista del suo tempo, Giovanni Pisano perché scolpisse un monumento funebre che rendesse giustizia alla sua bellezza e bontà. L’imperatore era profondamente innamorato della sua compagna a cui rimase, vedovo inconsolabile, fedele fino alla fine dei suoi giorni avvenuta, causa malaria, nell’agosto del 1313 a soli 38 anni.

“La statua senza testa e Bambinello del museo di S. Agostino”.

Dopo i cinquecenteschi smembramenti del convento, con relativi trasferimenti e vicissitudini (grazie a Santo Varni, grande scultore genovese, nel 1874 il gruppo con Margherita venne ritrovato in un’anonima nicchia del giardino di Villa Brignole-Sale a Voltri) dal 1984 il monumento è esposto nel Museo di S. Agostino.

Scolpita in marmo apuano, la statua purtroppo non è integra, ma è mutila capo e mani, nell’ angelo di sinistra, braccio destro Margherita, testa, in quello di destra. L’artista la rappresentò splendida, più di quanto non fosse in realtà, immaginandola nel momento in cui appena rinata dopo la dipartita, per le sue virtù terrene, poté accedere direttamente al cospetto di Dio in tutta la sua radiosa bellezza e purezza.

“La Giustizia custodita nella galleria nazionale di Palazzo Spinola in Pellicceria”.

Oltre alla figura principale della regina sorretta dagli angeli, facevano parte del gruppo originario una piccola statuetta di Madonna, oggi priva di testa e senza Bambino visibile sempre nel museo di S. Agostino, una statua della “Giustizia” in buono stato e un altra della “Fortezza” con solo la testa, conservate a palazzo Spinola in Pellicceria. La testa della “Prudenza” fa parte di una collezione privata svizzera, quella della “Temperanza” appartiene alla famiglia Doria.

“Monumento funebre di Enrico VII, nella cattedrale di S. Maria Assunta di Pisa, eseguito dal maestro pisano Tino Camaino”.

”La regina Margherita di Brabante sollevata al cielo da due angeli” questo il titolo completo del mausoleo di Giovanni Pisano, oltre ad essere  l’ultima opera, il capolavoro dell’artista toscano, probabilmente è la più importante scultura funebre di tutto il Medioevo.

“La Passio di S. Lorenzo”…

Posto sull’architrave del portale principale della cattedrale di Genova si trova un bassorilievo datato alla prima metà del XII sec.

La scultura rappresenta San Lorenzo disteso orizzontalmente su una graticola, ai lati due addetti che attizzano le braci con i mantici, sovrano e popolo che assistono al martirio.

In questa splendida immagine viene mirabilmente condensata la “Passio di San Lorenzo”:

“Cattedrale di S.Lorenzo in notturna”. Foto di Leti Gagge.

Lorenzo era un giovane diacono che, stretto collaboratore di Papa Sisto II, venne insieme al Pontefice perseguitato sotto il regno di Valeriano. Per volere dell’imperatore infatti era stata emanata un’ordinanza che disponeva l’esecuzione immediata per decapitazione di tutti i  membri del clero che non avessero abiurato. Le terribili sentenze vennero eseguite per il Papa, il 6 agosto (S. Sisto tanto caro ai genovesi vincitori in quel giorno alla Meloria) lungo la Via Appia, il 10 agosto per il suo diacono, presso la Tiburtina. Secondo la tradizione Costantino onorerà quel luogo con l’erezione della maestosa basilica di San Lorenzo al Verano fuori le mura.

E’ intorno al IV sec. che iniziò a diffondersi la leggenda che Lorenzo fosse morto non per decapitazione ma arso vivo. Numerosi agiografi si occuparono della vicenda che, per quanto riguarda Genova, iniziò nel momento in cui Jacopo da Varagine ce ne tramandò il passaggio, durante il trasferimento dalla Spagna a Roma, in città.

I due futuri santi sostarono in preghiera in una piccola cappella sul Broglio, proprio nel luogo dove oggi sorge la superba cattedrale.

Scrive Jacopo: al prefetto Decio (futuro successore di Valeriano) che gli  intimò: ”Sacrifica agli dei o passerai questa notte fra i tormenti, Lorenzo rispose: ”La mia notte non è oscura, ma tutta raggiante di splendore”. L’imperatore furibondo ordinò che fosse portato qua un letto perché “vi riposi l’empio Lorenzo”. Il Santo venne disteso sulla graticola sotto la quale venne acceso il fuoco. Ma Lorenzo, proprio come molti secoli dopo farà Giordano Bruno con i suoi inquisitori, sfidò Valeriano: ”Sappi miserabile, che questi carboni ardenti mi sono di refrigerio: ma per te sono pegno di pena eterna” poi, rivolto a Decio, proseguì: ”Mi hai abbastanza abbrustolito da una parte, ora rigirami dall’altra parte e mangiami”. Lorenzo rese grazie al Signore dicendo: ”Ti ringrazio Gesù, perché ti sei degnato di aprirmi le porte del tuo regno!” e morì.

San Lorenzo insieme a San Giovanni Battista, S. Giorgio, San Bernardo e S. Siro è uno dei cinque santi patroni e protettori della Superba.

“Le spade nel pugno, gli allori alle chiome…”

… recita uno dei versi dell’Inno di guerra di Garibaldi “All’armi! all’armi!” scritto da L. Mercantini. Chi più di Gerolamo “Nino” Bixio personifica quest’immagine?

Nel cuore del quartiere di Carignano, in Piazza R. Piaggio, si trova il monumento innalzato al generale garibaldino. Occultato alla vista, lato Via Corsica ricoperto da frasche, come oggi costume diffuso, custodito nel più completo abbandono, fra panchine e ringhiere divelte, fu inaugurato nel 1952, opera della maestria di Guido Galletti.

La statua marmorea gli venne commissionata per sostituire quella primitiva in bronzo, eseguita nel tardo ‘800, dallo scultore Enrico Pazzi, andata distrutta durante il bombardamento del 1940.

Il braccio destro di Garibaldi, avventuroso marinaio e coraggioso soldato, venne immortalato nel fiero atto di sguainare la spada.

Lo scultore londinese di nascita, ma genovese d’adozione lasciò altre preziose testimonianze della sua arte in città e in Liguria quali, ad esempio, “Il Cristo degli Abissi di Camogli”, la statua del “Padre Santo” delle Grazie, quelle rappresentanti “L’Ardire” sopra la galleria Bixio del Portello e il monumento funebre del Cardinale Pietro Boetto nella Cappella di S. Giovanni in cattedrale.

“Cartolina del 1907 che illustra la statua scolpita da Enrico Pazzi”.

I figli di Genova meriterebbero maggior rispetto e considerazione, per lo meno dai loro concittadini!

Foto di Bruno Evrinetti.

“Il Vecchio e il Mare”…

Il celebre cronista americano capitò varie volte in Liguria, a Genova, in Val Trebbia e a Rapallo in particolare. Da Genova infatti nel 1918, al termine della prima guerra mondiale, si era imbarcato per tornare in patria. Interessante, anche se non propriamente edificante, è la descrizione che ne fece lo scrittore americano nel  1922 in “Che cosa ti dice la patria”: ”Pioveva a dirotto quando passammo per i sobborghi di Genova e anche andammo molto piano dietro ai tram e ai camion, il fango schizzava sul marciapiede così che la gente si affrettava a rifugiarsi nelle porte delle case quando ci vedeva arrivare. A San Pier D’Arena, il sobborgo industriale di Genova, c’era una larga strada con delle rotaie da una parte e dall’altra, e ci tenemmo nel mezzo per evitare d’infangare gli uomini che tornavano a casa dal lavoro. Alla nostra sinistra avevamo il Mediterraneo. C’era mare grosso, le onde si rompevano e il vento ne portava gli spruzzi fino all’automobile. Il letto di un fiume che quando eravamo passati venendo in Italia era largo, asciutto e pieno di pietre, adesso scorreva in piena e l’acqua arrivava fino agli argini. Quest’acqua fangosa scolorava in quella del mare e quando le onde rompendosi si assottigliavano e diventavano bianche, anche l’acqua gialla si schiariva e fiocchi di spuma, portati dal vento, volavano attraverso la strada.

“Lo sguardo sornione e beffardo di Ernest Hemingway”.

Una grossa automobile ci sorpassò ad alta velocità e una cortina d’acqua fangosa ricoperse il parabrezza e il radiatore. Il tergicristalli automatico si muoveva avanti e indietro appannando il vetro. Ci fermammo a mangiare a Sestri (Ponente). Non c’era riscaldamento nella trattoria e tenemmo addosso pastrano e cappello. Potevamo vedere la macchina fuori, attraverso la finestra. Era coperta di fango e stava accanto a barche tirate a secco lontano dalle onde. Nella trattoria il nostro fiato faceva nuvolette.

La pasta asciutta era buona; il vino sapeva d’aceto (qui concorda con Magone) e lo allungammo con l’acqua. Dopo il cameriere portò una bistecca con patate fritte. Un uomo e una donna sedevano all’estremità più lontana della sala. Lui era un uomo di mezza età e lei giovane e vestita di nero. Durante tutto il pasto si vide il suo respiro nell’aria fredda e umida. L’uomo la guardava e scuoteva la testa. Mangiavano senza parlare  e lui le stringeva la mano sotto la tavola. La donna era bella ed entrambi sembravano tristi. Avevano vicino una valigia.

Avevamo i giornali e lessi forte a Guido (l’autista) il resoconto dei combattimenti a Shangay. Dopo mangiato, Guido uscì col cameriere in cerca di un posto che nella trattoria non esisteva e io pulii con uno straccio il parabrezza, i fanali e la targa posteriore. Quando Guido tornò voltammo la macchina e partimmo. Il cameriere lo aveva portato dall’altra parte della strada in una vecchia casa. Le persone che l’abitavano erano molto sospettose e il cameriere era rimasto con lui per vedere che non rubasse niente”.

Nel febbraio del 1923, Hemingway, giunto nel Tigullio in compagnia della prima moglie Hadley, per una fugace vacanza, descrisse una piovosa giornata invernale trascorsa nell’hotel Riviera di Rapallo in un breve racconto intitolato “Il Gatto sotto la pioggia”.

C’erano solo due americani alloggiati in quell’albergo… La loro camera era al primo piano e dava sul mare. Dava anche sul giardino pubblico e sul monumento ai caduti.

«La loro stanza era al primo piano – dicevamo – e dava sul mare. Dava anche sul giardino pubblico e sul monumento ai caduti. Nel giardino pubblico c’erano grandi palme e panchine verdi. Col tempo bello c’era sempre un pittore col suo cavalletto. Ai pittori piaceva come crescevano le palme, e i vivaci colori degli alberghi affacciati sul giardino pubblico e sul mare. Gli italiani venivano da lontano a vedere il monumento ai caduti, che era di bronzo e luccicava sotto la pioggia. Pioveva. La pioggia gocciolava dai palmizi. L’acqua stagnava nelle pozzanghere sulla ghiaia dei sentieri. Il mare si rompeva in una lunga riga sotto la pioggia e scivolava sul piano inclinato della spiaggia per tornare su a rompersi di nuovo in una lunga riga sotto la pioggia. Le macchine erano sparite dalla piazza vicino ai monumento. Oltre la piazza, sulla soglia del caffè, un cameriere stava guardando fuori verso la piazza deserta».

 Ernest era innamorato del clima e della bellezza dell’Italia e amava la Liguria.  Con la moglie lo scrittore si fermò a Rapallo, in quegli anni uno tra i più vivaci centri della cultura mondiale, per trascorrere qualche giorno in compagnia di Ezra Pound.

Anche Jan Sibelius, Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud, Butler Yeats ed Hermann Hesse erano assidui  frequentatori  del  Tigullio.

“Spencer Tracy protagonista della versione cinematografica nel 1958 del Vecchio e il Mare”.

 Nel 1945 ancora al seguito dell’esercito americano, nelle vesti di corrispondente di guerra americano nei giorni successivi alla liberazione, attraversò la Val Trebbia e la Val D’Aveto, luoghi dove era già stato in uno dei suoi viaggi nel 1927. Partito da Chiavari e diretto a Piacenza, fu anzi costretto a fermarsi una ventina di giorni in zona Vicosoprano.  Fu in quell’occasione che scrisse una frase destinata restare storica e a rendere legittimamente orgogliosi i valligiani: «Oggi ho attraversato la valle più bella del mondo» – con riferimento a entrambe le vallate che (Aveto e Trebbia) dal punto di vista di un americano erano la continuazione l’una dell’altra.

Nel 1948 tornò ancora a Genova dove, all’apice del successo, ormai venerato intellettuale, non passò di certo inosservato, vedendolo scorrazzare su e giù per la Riviera a bordo di una vistosa Buick azzurra decapottabile. L’anno successivo Hemingway soggiornò per l’ultima volta a Genova. Ormai era giunto il tempo per lo scrittore di tornare a Cuba e comporre il suo romanzo capolavoro, chissà, magari anche in piccola parte ispirato dalle nostre atmosfere, “Il Vecchio e il Mare”.

 

“Il lupo della steppa… o di mare?”…

Hermann Hesse spesso, in attesa d’imbarcarsi per i suoi frequenti viaggi in oriente, sostò nella nostra città. 

Il grande poeta tedesco, sublime pittore non solo con le parole ma anche con il pennello dei  suoi natii panorami montanari, scoprì la Superba e, lo dice lui, se ne innamorò. Comprese la differenza fra la limitatezza delle prospettive lacustri, a cui era intimamente legato, e l’infinita, smisurata apertura dell’orizzonte marino, inteso come metafora di nuovi spazi da scrutare e sogni da rincorrere.

La Liguria diviene allegoria del viaggio interiore. Nel suo primo romanzo di un certo successo del 1904, intitolato “Peter Camenzind”, il futuro premio Nobel per la letteratura del 1946, scrive:

“Acquerello di paesaggio alpino di H. Hesse”.
“Il poeta amava scrivere, verseggiare, dipingere, prendere appunti all’aria aperta”.

 “A Genova mi arricchii di un altro grande amore. Era una limpida giornata ventosa, appena dopo mezzogiorno. Avevo appoggiato le braccia ad un largo parapetto: Genova ricca di colori si stendeva alle mie spalle, mentre sotto di me vivevano e si ingrossavano i grandi flutti azzurri del mare. Il mare. Con il suo cupo mugghiare e i suoi desideri  incompresi  l’eterno ed immutabile mi si avventava contro, ed io avvertii in me stringere eterna amicizia, per la vita e per la morte, con quei flutti azzurri e schiumosi. Altrettanto fortemente mi commosse l’ampio orizzonte marino. Nuovamente rividi, come  già nella mia  fanciullezza, l’odorosa azzurra lontananza che mi aspettava invitante simile ad una porta aperta… Per uno oscuro impulso crebbe dentro di me l’antico e doloroso desiderio di gettarmi fra le braccia di Dio ed affratellare la mia povera esistenza all’infinito ed all’eterno”.

Ed eccolo l’incontro concreto con il mare:” A Rapallo lottai per la prima volta contro le onde del mare, e nuotando assaggiai l’acre sapore dell’acqua salata, e provai la potenza dei flutti. Tutto attorno onde azzurre e chiare, scogli color avana, un cielo profondo e tranquillo, e l’eterno, incessante rumoreggiare delle acque.

“Copertina del romanzo Peter Camenzind”.

La vista delle barche che scivolavano al largo sull’acqua, con  la loro nera alberatura e le vele bianche, o il piccolo pennacchio di fumo di un piroscafo che passava lontano mi colpiva ogni volta… Oltre alle mie predilette, le irrequiete nuvole, non conosco simbolo dell’ardente brama di errare per il  mondo più bello e più pregnante di quello di una nave, che passa a grande distanza, diventando sempre più piccola sino a scomparire nell’orizzonte aperto”.

“Per chi suona la campana”…

“Genova a metà del XV sec.”.
Da notare oltre alla Torre dei Greci, sorella minore della Lanterna a destra dell’ingresso del porto, sul Molo Vecchio, le due torri della Darsena, il Castelletto, e la particolare copertura piramidale di S. Lorenzo.
Incisione in legno realizzata nel 1493 dalla bottega di Michael Wolgemut e successivamente colorata a mano.
Per il “Liber Chronicarum” (Cronache di Norimberga) di Hartmann Schedel, stampato a Norimberga il 12 luglio 1493 da Anton Krobergerl.
“La torre campanaria di destra, terminata nel 1522 da Pietro Carlone da Osteno”. Foto di Leti Gagge.

Nel progetto di ampliamento trecentesco della cattedrale di S. Lorenzo le torri campanarie avrebbero dovuto essere due. Causa la morte di colui che le aveva progettate solo una, quella di destra che ancora oggi, con i suoi 60 metri domina il centro storico, venne portata  a termine nei primi decenni del ‘500. Dell’altra, quella di sinistra, non rimane altro che, nella configurazione tuttora visibile, il basamento sormontato dall’elegante loggiato quattrocentesco. Come testimoniato dalla xilografia datata 1493 di Michael Wolgemut, la più antica rappresentazione della città, a quel tempo non esisteva nemmeno la cupola, progettata poi nel ‘500 dall’Alessi, ma solo, al suo posto, una curiosa copertura piramidale. Poco distante nei paraggi della Cattedrale si diramano un Vico ed una Piazza intitolati alla famiglia dei Valauri, o Valori, Piazza e Vico Valoria.

Costoro, che erano i campanari della chiesa di S. Lorenzo, vi si stabilirono e tramandarono il mestiere per oltre due secoli, probabilmente aggregandosi alle numerose maestranze normanne ed antelamiche che operarono alla cinquecentesca ricostruzione del Duomo. Sette, di epoche e provenienze diverse, le campane che i Valauri suonavano con perizia, scandendo il tempo, gli avvenimenti e le cerimonie della città.

“La copertina di Le Campane, il secondo dei cinque racconti scritti ed ispirati a Genova a partire dal 1844. Gli altri quattro sono il celeberrimo Racconto di Natale, il Grillo del focolare, la battaglia della vita e il patto con il fantasma”.
“Piazza Valoria, la dimora dei campanari di San Lorenzo”.

Sull’abilità dei campanari genovesi, a dire il vero, Charles Dickens la pensava diversamente. Durante uno dei suoi soggiorni genovesi, infatti, rimase infastidito dal fracasso dei campanari delle chiese di Albaro. Nel momento in cui si era seduto al tavolo con la ferma intenzione di lavorare, era salito dalla città un tale frastuono di campane da farlo impazzire. Il vento gli aveva portato tutti i rintocchi dei campanili di Genova e le sue idee si erano messe a vorticare fino a perdersi in un turbinio di irritazione e stordimento. Scrive: «…specialmente nei giorni festivi, le campane delle chiese suonano incessantemente; non in armonia, o in qualche conosciuta forma sonora, ma in un orribile, irregolare, spasmodico den den den, con una brusca pausa ogni quindici den o giù di lì; una cosa da impazzire.»., «…avere trovato il titolo e sapere come sfruttare lo spunto delle campane è una gran cosa. Che mi assordino pure da tutte le chiese e conventi di Genova, ormai: non vedo altro che la cella campanaria di Londra in cui le ho collocate…».

Lo scrittore anglosassone ne trasse dunque ispirazione per comporre uno dei suoi celebri cinque racconti di Natale intitolato, appunto, “Campane” in cui il protagonista vede dipanarsi i principali eventi della propria esistenza, ritmati dai rintocchi, in un’atmosfera onirica, dei bronzei batacchi.

“I Mille all’imbarco a Quarto dei Mille>”.

Ultima curiosità, al civico n. 4 della piazza aveva sede lo studio fotografico di Alessandro Pavia, colui che riuscì ad immortalare i ritratti di tutti i 1092 garibaldini facenti parte della spedizione dei Mille.

In Copertina: Piazza dei Valoria. Foto di Leti Gagge.

La Madonna del Galeotto…

Le edicole votive nel centro storico costituiscono una preziosa istantanea non solo architettonica e religiosa del loro tempo ma rappresentano anche un originale pretesto per raccontare storie, fatti, leggende di cui sono state silenti testimoni:

Narra, ad esempio, un’antica leggenda che due guardie stavano conducendo in catene verso il Palazzetto Criminale un prigioniero che continuava a professarsi a squarciagola innocente.

Una volta giunti in Campopisano il detenuto si gettò ai piedi davanti ad un’edicola dichiarando la propria estraneità in relazione ai reati per i quali era imputato.

Alzò le mani al cielo e, quando in un fragore assordante, le catene si ruppero di colpo, i militi gridarono spaventati al miracolo.

Di fronte a tale manifestazione divina infatti decisero di lasciare subito libero il mal capitato ma il galeotto non ne volle sapere.

Questi pretese di essere regolarmente processato e prosciolto da ogni accusa direttamente dal tribunale.

L’immagine della Vergine protagonista di questo portentoso accadimento, tramandato nei secoli, assunse il nome di “Madonna del Galeotto”.

“La cinquecentesca edicola della Madonna del Rosario, sostituita con un calco di Madonna con Bambino del sec. XVIII, oggi vuota”..

Quale sia l’edicola in questione rimane ancora d’incerta attribuzione: secondo alcuni sarebbe quella vuota presente sotto l’arcata del ponte di Carignano, secondo altri invece sarebbe quella posta in Vico Superiore di Campopisano al n. 3.

La prima, in muratura, conteneva una statuetta cinquecentesca della Madonna del Rosario, sostituita con un calco di Madonna con Bambino del sec. XVIII. La statuetta oggi è custodita presso la vicina ex chiesa di San Salvatore.

La seconda, collocata in una nicchia semicircolare, accoglie la statua marmorea, purtroppo mutila in alcune sue parti, della Madonna con Bambino e San Giovannino.

Quale che sia la vera Madonna del Galeotto, ogni edicola ha la sua suggestiva storia da raccontare.

“Quattro amici al bar”…

Il Bombardino, una delle più diffuse bevande montanare, nacque al rifugio “Mottolino” di Livigno in provincia di Sondrio.

Fin qui nulla di strano se non fosse che ad ideare il cocktail più apprezzato in tutte le mescite dell’arco alpino sia stato un giovane genovese che, dopo aver prestato servizio presso gli alpini, prese in gestione una baita della zona.

Seduto con quattro amici al bar, in una gelida sera come tante, proprio come nella canzone di Gino Paoli, non cambiò il mondo ma inventò un miscuglio di latte, zabaione e whisky bollente con l’auspicio che riscaldasse dal rigido inverno. Il genovese ed i suoi amici fecero assaggiare la calda pozione ad un cliente che esclamò soddisfatto:” Accidenti! è una Bombarda”. Fu così che venne battezzato il nuovo preparato.

Dopo qualche tempo un lavorante del rifugio rivelò a terzi la ricetta del Bombardino contribuendo così alla sua rapida diffusione su tutte le piste da sci del circondario, fino a superare i confini regionali . Al latte venne sostituita la panna montata e al Whisky il Brandy o il Rhum.

Nacquero così le tre varianti con cui ancora oggi è possibile gustarlo:

Calimero con zabaione e caffè espresso; Pirata con zabaione e rhum, Scozzese con Zabaione e Whisky.

Esistono tuttavia delle versioni “free style” in cui i liquori vengono mischiati a piacimento purché collante comune rimanga l’uovo dello zabaione.

Anche sulla neve ci si scalda il cuore con un sorso di Genova!

“Sostiene Pereira…”

Antonio Tabucchi è stato uno dei pochi pisani apprezzati dai genovesi. Un rapporto che lo scrittore amante del Portogallo, di Pessoa e della sua cultura, ha avuto modo di consolidare quando nel 1978 venne chiamato ad insegnare nell’ateneo genovese. Genova e Lisbona due città molto simili, con parecchie cose in comune: entrambe affacciate sul mare, inebriate da aromi e profumi portuali, dove il vento regna sovrano; caruggi stretti dove luce ed ombra giocano a nascondino, strade arrampicate in salita alla ricerca di uno scorcio di cielo, di un raggio di sole, sempre appese ad un filo dell’orizzonte. Proprio in quel punto dove cielo e mare si fondono nell’infinito. Genova e Tabucchi, come Lisbona e Pessoa; l’autore di “Sostiene Pereira” ne “Il filo dell’orizzonte”, edito da Feltrinelli nel 1986, aveva così descritto la nostra città:

«Ci sono giorni in cui la bellezza gelosa di questa città sembra svelarsi: nelle giornate terse, per esempio, di vento, quando una brezza che precede il libeccio spazza le strade schioccando come una vela tesa. Allora le case e i campanili acquistano un nitore troppo reale, dai contorni troppo netti, come una fotografia contrastata, la luce e l’ombra si scontrano con prepotenza, senza coniugarsi, disegnando scacchiere nere e bianche di chiazze d’ombra e di barbagli, di vicoli e di piazzette».

“La copertina del filo dell’orizzonte”.

Storia di un cavaliere, di un santo…

… di un miracolo… di una sorgente… di chiese…

Appartenente alla nobile schiatta della famiglia alessandrina dei Canefri, il giovane Ugo s’imbarcò da Genova alla volta di Gerusalemme dove, in veste di cavaliere gerosolimitano, prese parte alla terza Crociata (1189-1192).

Di ritorno da quella formativa esperienza si arruolò nei Cavalieri di S. Giovanni, gli antesignani del Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta.

Ugo compì la sua metamorfosi, da combattente sul campo, ad infermiere nelle retrovie. Gli venne affidata la prestigiosa gestione dell’Ospitale (l’appellativo Commenda risale al XIV sec.) di San Giovanni dove, per circa 50 anni, si dedicò al soccorso e all’assistenza dei pellegrini in partenza o al rientro dalla Terrasanta.

Uomo pio e timorato di Dio, terminate le sue attività quotidiane, amava ritirarsi in solitaria preghiera in una piccola grotta lungo la collina sovrastante l’ospizio, vicino ad un torrentello che sgorgava tra Oregina e San Barnaba. Il rivo scorreva a cielo aperto e sfociava nel mare nei pressi dell’antico approdo di Capo d’Arena, intitolato poi, a Santa Limbania.

“S. Ugo, nelle vesti di cavaliere di S. Giovanni, accoglie i pellegrini”.

Numerosi i miracoli di cui è stato protagonista: aver salvato una nave da un naufragio e trasformato acqua in vino, questi ed altri prodigi, raccontati da un ciclo di piccoli affreschi dipinti sulla navata di sinistra della chiesa Inferiore, nei resti della cappella a lui intitolata.

Ma il più celebre di questi episodi fantastici è noto come “Il Miracolo di S. Ugo”:

leggenda narra che, desideroso di accontentare le lavandaie del nosocomio che per pulire i loro panni erano costrette a percorrere in salita un tragitto lungo e faticoso, fece scaturire da un masso del fossato una fresca e zampillante sorgente.

Le inservienti infatti lamentavano la scarsità d’acqua che si accumulava nel fossato solo dopo lunghi giorni di pioggia. Fu così che il Santo, dopo ripetute preghiere, fece sgorgare dal sasso una polla perenne, utile non solo alle domestiche, bensì a tutta la popolazione dei paraggi.

“Archi e colonne della chiesa Inferiore di S. Giovanni”.

Di fatto la Piazza davanti alla stazione di Porta Principe, chiamata “Acquaverde”, prende il nome dallo stagno formato da quel rivo.

 Nella seconda metà dell’800, in seguito ai lavori di costruzione ed ingrandimento dello scalo ferroviario, questi luoghi della memoria sono stati sepolti e distrutti ma la sorgente, in un primo momento scomparsa, non si è arresa all’oblio dei tempi ed ha ripreso a sgorgare rigogliosa.

La polla esiste tuttora e rifornisce la fontanella posta in Via Prè, vicino all’ingresso della chiesa Superiore di S. Giovanni e, all’interno della stazione, i bagni e le utenze della stessa.

“Interni in pietra di Promontorio della chiesa Superiore di S. Giovanni”.

La fonte, per secoli, è stata ritenuta possedere virtù taumaturgiche e i luoghi del Santo venerati e onorati dalla cittadinanza con l’erezione di una cappella a questi dedicata.

Il miracolo di S. Ugo è egregiamente rappresentato da un settecentesco quadro di Lorenzo De Ferrari custodito, sopra un altare laterale, nella chiesa Superiore di S. Giovanni. Se l’edificio Inferiore merita assolutamente menzione per la magica (cappelle di S. Brigida e S. Margherita) atmosfera in cui è avvolto, non da meno è il tempio Superiore, l’ultima splendida testimonianza di una chiesa interamente costruita in pietra nera di Promontorio, la pietra indigena proveniente dalla cava di S. Benigno, luoghi dell’anima dove, con un po’di fantasia, si possono ancora ascoltare il metallico scalpitio dei cavalieri, i lamenti dei malati, le urla di Cardinali assassinati, lo sferragliare dei Crociati, le arringhe dell’Embriaco e… le preghiere di S. Ugo.

“Fossato di S. Ugo”. Dipinto di James Holland (1799-1870).