A fugàssa

Mi raccomando, soprattutto per i foresti, la focaccia va gustata con la parte sapida e croccante rivolta verso la lingua.

Se volete poi confondervi fra gli indigeni inzuppatela nel cappuccino, non ve ne pentirete.

Buona in qualsiasi momento della giornata, soprattutto se appena sfornata, io la preferisco accompagnata al tradizionale gotto (bicchiere) de gianco (vino bianco), familiarmente chiamato “gianchetto”.

Ma quando si parla di Genova a Vito Elio Petrucci meglio di chiunque altro padroneggia l'argomento!

Concordo con il maestro anche a me piace in qualunque forma ma quella che prediligo è senza dubbio quella al formaggio di Recco.

A fugàssa

Mi són sentimentâle fìnn-a in fóndo
e fàsso l'êuio cómme o papê de stràssa;
són inamoòu de Zêna, ciù do móndo,
ma ò ‘n balìn inta tésta: o l'é a fugàssa.

“È più forte di me”, mi me-o confèsso!
â, co-o cròcco e co-a sâ a màn bàssa …
l'oexìn ben vónto, o mêzo bèllo spésso.
O mæ Michê a l'é lê: Sànta Fugàssa.

O mâ o m'incànta, o ségge bolezùmme,
fæto de mòuxi o ciàtto pe-a bonàssa;
ànche se a vòtte o sa de refrescùmme
(a spùssa de l'erzìlio), ma a fugàssa!

Il grattacielo? è bello da vedere;
e De Ferrari? ‘Na gràn bèlla ciàssa;
Scuâia, Canétto, Rìghi, Belvedêre …
cöse pe-i éuggi! Ma pensæ: a fugàssa!

Me l'aséunno de néutte e pöi m'adéscio
che pèrdo e bâve cómme ‘na lumàssa.
Chi à coràggio me dìgghe che són néscio,
mi ghe dìggo de sci … e tétto fugàssa.

E vi dirò di più, fo paragoni
con l'amîgo do tàcco ch'o stronbàssa,
quello che fa la pizza e i cannelloni.
Duxénto pìsse no fàn ‘na fugàssa.

E se dìggo fugàssa e-e dìggo tùtte,
no fàsso distinçión tra màgra e gràssa,
co-o formàggio, co-a çiòula: Bócche mùtte!
Pe mì va tùtto bén, s'a l'é fugàssa.

Dòmmo a Milàn, Venésia con Sàn Màrco,
Lantèrna a Zêna, Savónn-a a Canpanàssa,
Sàn Rémmo o zêugo, a Spézza l'Arsenâ
e mi ‘n sciô stémma véuggio ‘na fugàssa.

Mi són sentimentâle, me comêuvo
s'à l'é co-a çiòula, e brìndo con vinàssa
s'a l'à o formàggio, e me ghe pèrdo aprêuvo …
a l'amîga, a conpàgna, a ti: fugàssa!

Poesia di Vito Elio Petrucci (1923-2002). Poeta e commediografo genovese.

Io sono sentimentale fino in fondo
  e faccio l'olio come la carta di stracci,
 sono innamorato piu'di Genova che del mondo,
 ma ho un “pallino” in testa:

e' la focaccia!     

  È più forte di me, me lo confesso!
 soffice, col bordo croccante, col sale, a volontà,
 l'orlo ben oleato, al centro bella spessa !
  o mio Michele, e' lei:

santa focaccia!     

 Il mare mi incanta, che sia increspato,
 fatto di ondate o piatto per la bonaccia,
 anche se a volte sa di salsedine
 (la puzza delle alghe)

ma la focaccia!     

  Il grattacielo? è bello da vedere,
  e De Ferrari? una gran bella piazza;
  Scuaja? Cannetto? ? Belvedere ?
  cose per gli occhi! Ma pensate,

alla focaccia!     

  Me la sogno di notte e poi mi sveglio
  che perdo le bave come una lumaca.
  Chi ha coraggio mi dica che sono scemo,
  io gli dico di sì,

e mangio focaccia!     

  E vi dirò di più, faccio paragoni
  con l'amico meridionale che strombazza,
  quello che fa le pizze con i calzoni.
  Duecento pizze non fanno

una focaccia!     

  E se dico focaccia le dico tutte,
  non faccio distinzione tra magra, grassa,i
  con il formaggio con la cipolla: bocche mute
  per me va tutto bene

se è focaccia!     

  Duomo a Milano, con San Marco,
  la Lanterna a Genova, la Campanassa a Savona,
  San Remo il gioco, a Spezia l',
  e io sullo stemma voglio

una focaccia!     

  Io sono sentimentale e mi commuovo
  se è con la cipolla e brindo con il vino
  se ha il formaggio.Ma è il momento di tacere.
  Chiedo vegna.

Sono quello della focaccia!     

e ancora a proposito di quella della Marinetta tipica di Voltri scrive:

A Fugàssa da Marinetta

A coa d'eujo a fugassa da Marinetta 
e a scrosce allegra sott'a-i denti 
feuggia a-a primma canson. 
Gh'è Utri, Zena, 
a Liguria e o mondo; 
e a coae de voeine ancon. 
In ta goga mollann-a 
a grann-a da sa 
a l'é na perla da collann-a.

La

Cola d'olio

la focaccia da Marinetta

e scrocchia allegra sotto i denti

come foglia (autunnale) alla prima canzone (del vento).

C'è Voltri, Genova,la Liguria

 e il mondo;

e la voglia di volerne ancora.

Nel buchetto soffice

il grano di sale

è una perla della collana.

In Copertina: La focaccia sul mare. Foto tratta da Liguria 2020.

di Vito Elio Petrucci. (1923-2002). Poeta, commediografo, giornalista, cultore delle tradizioni .

Pane e pancogoli genovesi

A partire da fine ‘500 fino al ‘800 la Repubblica di aveva riservato per sé il compito di produrre in esclusiva il pane.

Nel ‘300 i fornai chiedevano per ogni quarto di mina (mina, unità di peso equivalente a circa 100 kg) quattro denari e mezzo in inverno e cinque in estate e due soldi e mezzo per una mina intera.
Curioso il metodo di lavorazione: l'impasto veniva depositato a terra su sacchi lungo una trave che si trovava in alto e sopra la quale si facevano passare delle corde, da uno degli estremi fissate, dall'altro pendenti.

Ad esse si tenevano con forza i lavoranti che con i piedi ricoperti da apposite calze impastavano la farina a sua volta ricoperta da sacchi come quelli sottostanti.

Più che la lievitazione del pane al Comune premeva invece, per non fomentare il malcontento interno, quella dei prezzi.

Persino Colombo in una delle due lettere indirizzate nel 1504 al Banco di San Giorgio se ne preoccupava dando precise indicazioni al figlio Diego di versare annualmente a Genova la decima parte della rendita che avrebbe ricavato dai suoi redditi e privilegi, in sconto delle gabella sul grano, sul vino e su altre provviste che gravavano sul popolo.

Interno dell'atrio di palazzo San Giorgio con l'elenco delle per le singole merci. Sotto cinque cassette per il mugugno ai del 1444, ai Magistrati del Sale, ai Revisori, ai Procuratori e ai Protettori.

Nel 1531, causa una grave carestia, si innescò una forte speculazione sul commercio delle granaglie e così i collegi, per garantire il pane a prezzi calmierati, istituirono dei forni pubblici.

Nel 1590, conseguenza di un'ulteriore pesante siccità che distrusse i raccolti dalla Spagna al Levante, il costo dei grani subì un nuovo forte aumento. Il Banco di San Giorgio, per far fronte alla crisi, concesse allora prestiti quasi gratuiti e si accollò le perdite dei forni.

A causa della penuria di grano si stabilì con un decreto che le navi che portavano grano a Genova godessero del privilegio del portus immuni, ovvero del porto franco“. (G. Giacchero 1984).

Gli uffici del Comune e il magistrato dell'Abbondanza ricevettero in seguito continue lamentele per la pessima cottura e la bassa qualità delle farine utilizzate.

Questa tipologia di pane, venduto a prezzo politico, proprio per la sua scadente qualità, fu chiamato pane da cavallotto, ovvero da quattro soldi.

I forni quindi erano in origine attigui al Portofranco ma vennero spostati per permettere di ingrandire lo stesso ed anche per allontanare il fuoco, pericoloso per le altre mercanzie.

Per questo con decreto del 18 agosto 1722 venne data la possibilità di costruire nuovi forni a Castelletto.

Contribuì alla spesa di nuovo il Banco di San Giorgio, elargendo lire centoventimila di “numerata valuta” e lire duecentomila di “moneta corrente”. La nuova fabbrica, ricca di acqua, fu installata e terminata in periodo di dominazione francese.

I fornai, detti pancogoli, applicavano con un ferro rovente un marchio per contrastare le frodi.

Ad esempio si ha traccia di un curioso documento in cui un fornaio tal Simone annota fra le spese sostenute l'acquisto di un marchio “Pro signandis fugaciis”. La focaccia già a quel tempo era dunque tutelata.

Nel 1839 il Comune, considerato l'elevato costo di produzione, rinunciò al suo monopolio e concesse in appalto ai fornai la fabbricazione del pane. Si stabilì che il prezzo del pane venisse fissato secondo il valore del frumento.

Ancora oggi nei pressi della Maddalena, alle pendici del monte Albano, restano i toponimi di Vico dei Fornai (oggi soppresso), Piazza dietro i Forni e Salita dei Molini a testimoniare l'antica vocazione della zona.

A chi ha famme, o pan o ghe pá lazagne“. genovese. Traduz. “A chi ha fame, il pane sembra lasagne”.

In Copertina: La Preparazione del pane. Dal Theatrum sanitatis. Codice miniato del XIV secolo.

Le Sciamadde

Le , dal termine genovese sciamadda ovvero “fiammata”, costituiscono caratteristico patrimonio della gastronomia genovese.

Difficile raccontarle perché, un po' friggitorie, un po' rivendite di torte, un po' , un po' rosticcerie, vanno frequentate, vissute e annusate.

Eppure questi spartani locali con le pareti rivestite con le classiche piastrelle bianche, il bancone di marmo e i tavoli di legno tipo osteria, custodiscono i sapori più autentici della tradizione.

Interno dell'Antica Sciamadda di Via San Giorgio. 14r Foto di Maurizio Romeo.

La loro origine risale intorno al tardo ‘600 quando Genova aveva il monopolio del sale. Le sciamadde, fornite di forni dove si potevano anche cuocere torte e focacce, venivano infatti utilizzate come vendita al dettaglio del prezioso minerale.

La principale caratteristica della sciamadda è proprio la proposta delle: torta di bietole, di cipolla, di riso, di carciofi e Pasqualina non possono mancare.

Le torte sul bancone dell'Antica Sciamadda di Via San Giorgio 14r. Foto di Maurizio Romeo.

Così come non possono mancare il polpettone e le verdure ripiene, la farinata, la panissa sia fritta che condita con olio e aceto o limone, i friscioeu e i cuculli.

I friscioeu sono frittelle aromatizzate con salvia tritata e/o rosmarino, maggiorana ed erba cipollina. I cuculli sono identici ma preparati con la farina di ceci al posto di quella zero.

Antica Sciamadda di Via San Giorgio 14r.

Questi luoghi del gusto povero, popolare ma sincero, veri antesignani del moderno street food, vanno purtroppo scomparendo.

Le sciamadde raggiunsero infatti la massima diffusione a cavallo tra ‘800 e ‘900 quando nei caruggi si potevano trovare un po' ovunque. Oggi, a presidiare il territorio e a preservare la tradizione -spero di non averne dimenticato qualcuna- ne rimangono circa una decina: Trattoria Sciamadda di Ravecca 19r, Antica Friggitoria Carega in Sottoripa 113r, Le Delizie dell'amico in Canneto il Lungo 31r, Antica Sciamadda in Via San Giorgio 14r, Sa Pesta in Via dei Giustiniani 16r, dei Teatri in Piazza Marsala 5r, Ostaja San Vincenzo nell'omonima via al 64r, da Domenico in Piazza Giusti 56r, Franz & Co in Via Struppa 81r e Ristorante Vexima a Voltri in Via Cerusa 1r.

Buon appetito!

In copertina: La Sciamadda di Ravecca. Foto di Stefano Eloggi.

Storia di un monopolio…

… di un Vescovo pignolo… di … insomma di fugassa…
La viene citata per la prima volta intorno all'anno mille anche se, probabilmente, già da tempo era un alimento diffuso della genovese.
“A pestun cua sa”, così si chiamava il composto farinaceo mischiato con il “sa pesta”, nel corso dei secoli sempre più divenne il cibo dei genovesi, al punto che persino i matrimoni venivano scanditi in chiesa dal crocchiare della focaccia, offerta dagli sposi.
Nel ‘500 fu il Vescovo Matteo Rivarola, indispettito dal fatto che distraesse l'attenzione dei fedeli, a proibirla, pena la scomunica.
Nel frattempo prima e il Banco di San Giorgio poi, avevano acquisito il del .

"Antica Sciamadda".
“Antica Sciamadda in ”.

I grandi magazzini del franco non bastavano più a contenere l'indispensabile minerale così iniziarono a proliferare le Sciamadde (“fiammate”) dove, appunto, oltre a preparare farinate e torte salate, si poteva cuocere e vendere anche la fugassa (sale sul fuoco).