“A Cimma”…

Così comincia la canzone di Fabrizio De André dedicata a questo tipico piatto genovese:

Ti t'adesciâe ‘nsce l'éndegu du matinCh'á luxe a l'à ‘n pé ‘n tèra e l'átrù i màTi t'ammiâe a ou spégiu de ‘n tianinOu çé ou s'amnià a ou spegiu dâ ruzà
Ti mettiâe ou brûggu réddenu'nte ‘n cantùnChe se d'â cappa a sgûggia ‘n cuxin-a á striaA xeûa de cuntà ‘e págge che ghe sun‘A çimma a l'è za pinn-a a l'è za cûxia

Traduzione: “Ti sveglierai sull'indaco del mattino quando la luce ha un piede in terra e l'altro in mare ti guarderai allo specchio di un tegamino il cielo si guarderà allo specchio della rugiada metterai la scopa dritta in un angolo che se dalla cappa scivola in la strega a forza di contare le paglie che ci sono la è già piena e già cucita…

Una pancia di vitello che cucirai (come si faceva per i materassi) .

Attenzione la sacca non deve avere venature o tagli, dopo cucita riempila d'acqua e vedi che non ci siano perdite è importantissimo. Se la pancia di vitello è integra e le cuciture valide, il problema non esiste, mi raccomando è meglio un uovo in meno che uno in più.

La pancia di vitello che cucirai (come si faceva per i materassi) lasciando un'apertura di dieci cm. dev'essere un rettangolo all'incirca di 26 x 18cm (per 5/6 uova) a volte i macellai la cuciono loro.

Preparazione: tagliare la carne a pezzetti e farla rosolare nel burro.

In una terrina mettere le uova, sbatterle (non troppo) aggiungere: la carne, la cervella ridotta a pezzetti, il formaggio grana, i pinoli, la carota a pezzetti, la lattuga, i piselli, la maggiorana (la pèrsa lègia) e l'aglio, il il pepe, amalgamare il tutto (se sei solito farlo assaggia).

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“A Cimma”. Foto e preparazione dell'autore.

Importante riempire la cima sino a tre quarti non di più, anzi qualcosa in meno, sennò scoppia.

Cucire la parte aperta, lavarla sotto il rubinetto e metterla in un piatto.

Mettere la cima a cuocere in una pentola (molto capiente) con acqua e sapori, (carota, sedano, cipolla) a freddo, ogni tanto girarla, appena prende il bollore spegnere e lasciare riposare cinque minuti poi riaccendere e falla cuocere a fuoco lento, (dev'esserci sempre il bollore) per almeno un'ora e mezzo o due, controllala spesso e girala, attenzione a non romperla, se vedessi che esce dalle cuciture del ripieno, niente panico, toglila dall'acqua prendi un canovaccio avvolgila e legala, poi la rimetti a cuocere.

Quando è cotta dopo almeno un'ora e tre quarti la punzecchi con un ago.

La togli dall'acqua con cautela, (vedrai sarà un pallone oblungo) la adagi su di un tagliere sul lavandino metti sopra un altro tagliere o un piatto piano (meglio un tagliere) e sopra metti dei pesi.

Io metto una pentola con acqua, oppure una pentola con dentro un mortaio di marmo, la cima si deve compattare, dentro non deve esserci più aria in modo da poterla tagliare a fette senza che si sbricioli), devi “caricare” la cima in modo che si riduca di molto e praticamente butti fuori i liquidi (pochi) e si appiattisca, per poterla poi tagliare.

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“La caratteristica forma schiacciata”. Foto ed elaborazione dell'autore.

Falla il giorno prima, magari alla mattina, la lasci in carico due o tre ore, il tempo necessario, poi la avvolgi in un tovagliolo bianco bagnato e strizzato e la riponi in frigo.

Ecco fatto la cima è pronta da gustare. Spero di esser stata chiara, questo è il metodo che faccio io e che fa mia madre e poi mia nonna.

Se la fai così per filo e per segno, vedrai che ti verrà bene…

Ricetta e procedimenti di un'anziana cuoca genovese che non c'è più.

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Tortino di acciughe alla maniera di Vernazza

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U Tuccu

U Tuccu

Così in una lettera spedita all'amico Luigi Germi nel 1839 e conservata presso la Library del Congresso ...

Storia di un assedio…

…. di un pasticcere geniale e… di un dolce speciale.
Nel 1800 Genova, entrata da qualche anno nell'orbita napoleonica, è obiettivo strategico degli Austriaci.
Da Aprile a Giugno la Superba, posta sotto un estenuante assedio è difesa coraggiosamente dal generale nizzardo André Massena.
I generi alimentari vengono così razionati e si dà fondo alle ragguardevoli scorte di riso per, mischiandole con farina di grano, ricavarne del pane.
A Parigi intanto, in Rue Saint Honoré, il celebre pasticcere Chiboust, inventore della torta che dalla Via prende il nome, impressionato dall'eroica del connazionale, decide di omaggiarne l'impresa.

Crea un dolce simile al Pan di Spagna, chiamandolo Pan genoise.
Da questa base, con l'aggiunta di creme e farciture liquorose, sarebbe nata, a nel laboratorio di , brevettata poi nel 1875, la Sacripantina della Pasticceria Preti.
All'origine dell'impegnativo nome invece, sarebbe la vicenda amorosa del re circasso Sacripante, innamorato della bella Angelica, personaggio, prima dell' del Boiardo e poi di quello Furioso, dell'Ariosto.

sacripante
“Marionetta di Sacripante”.

Storia del pandolce…

… dall'Egitto, alla Grecia… fino alla Persia… dalla tavola dell'ammiraglio… fino a quella di San Biagio…
Non se ne abbiano a male gli amici milanesi, ma il pandolce genovese ha una storia molto più antica rispetto al panettone, che si perde nella notte dei secoli… una vera e propria genesi rituale.
Dati gli ingredienti comuni, molti ne fanno risalire l'origine addirittura ai tempi dell'antico Egitto e della Grecia dove era diffuso un dolce simile a base di miele.


Sicuramente, visti i rapporti commerciali con quel Paese, i potrebbero aver tratto ispirazione dalla Persia (basti pensare a maggiorana, “persa” in genovese) dove il suddito più giovane (in grado di camminare), all'alba di Capodanno, porgeva al Sovrano un grande dolce a base di canditi, miele e mele da dividere fra i suoi commensali.
In effetti anche a Genova il pandolce, chiamato anche Pan co-o zebibbo veniva portato in tavola dal più giovane della famiglia e, con gesto beneaugurante, privato del sovrastante ramoscello di alloro.
Fu l'ammiraglio Andrea Doria che, nel ‘500, indisse concorso fra i pasticceri locali, per creare un dolce degno del matrimonio del nipote con Zanobia del Carretto e del prestigio della Repubblica.
Così venne codificato il pandolce genovese nella versione alta, affiancato poi, qualche secolo più tardi, dalla moderna versione bassa.
Molti sorrideranno di questa affermazione ma, a quel tempo, tolto forse e Bisanzio odierna , non erano molte le città in Europa sulle cui tavole si potevano gustare canditi, uvetta e frutta secca.
Secondo la tradizione il Capofamiglia affettava il panduce canticchiando una :
“Vitta lunga con sto' pan!
Prego a tutti tanta salute,
comme ancheu, anche duman,
affettalu chi assettae,
da mangialu in santa paxe,
co- i figgeu grandi e piccin,
co- i parenti e co- i vexin,
tutti i anni che vegnia',
cumme spero Dio vurria'.”
Alla moglie spettava l'assaggio e poi veniva distribuita una porzione per ciascun invitato, dopo di ché, visionate le letterine dei pargoli, gli stessi, in piedi sulla sedia, recitavano la loro poesia.
Due fette però venivano accuratamente conservate a parte da offrire una, al primo viandante di passaggio, da consumarsi l'altra, il 3 febbraio festa di San Biagio, protettore della gola.
Il Pandolce genovese, a seconda del Paese in cui è consumato, ha assunto altri nomi:
dal nostrano “Pan do bambin” sanremese, al “Londra cake” o “Genoa cake” britannici, fino al “Selkirk bannock”, una versione scozzese molto apprezzata dalla Regina Vittoria.
Quanta cultura in un semplice…. Panduce..

In Copertina: il Pandolce di una super bis nonna Lorenza che non c'è più.

Storia di una tempesta, di un naufragio…

… di una rivalità secolare… la leggenda della genesi di un piatto semplice e gustoso della nostra tradizione.
Nel 1284 di ritorno dalla Meloria alcune navi genovesi, a causa di un'improvvisa tempesta, naufragarono al largo delle isole toscane.
I barili d'olio stipati nella stiva rovesciandosi inzupparono, mischiandosi con l'acqua salmastra, alcuni sacchi di farina di ceci.
L'equipaggio, in attesa dei soccorsi, per recuperare il carico mise l'anomala poltiglia ad asciugare al sole ma, affamato, decise di mangiare le strane “frittelle”.
Così è nata, cuocendola poi ovviamente al forno e non al sole, la che, per schernire gli odiati rivali, i , veniva chiamata “l'oro di ” dato che aveva salvato loro la vita.
Da allora, secondo questa suggestiva quanto fantasiosa leggenda, la gustosa preparazione è entrata di diritto a far parte dei profumati ed essenziali piatti della tradizione culinaria popolare genovese.
In realtà preparazioni a base di farina ceci simili alla farinata sono patrimonio comune da tempo immemore di gran parte delle culture che hanno popolato il mediterraneo: dai greci ai latini fino alle versioni toscane della torta di ceci e Cecìna, nizzarda della Soca, piemontese della bella càuda, francese di Tolona della Cade e nella variante bianca di .
Quest'ultima realizzata con farina di grano per sopperire alla carenza di quella di ceci sulla quale, al tempo di Andrea D'Oria, la aveva applicato un cospicuo aumento dei dazi.
Al di là delle e delle relative dispute di campanile sulla paternità la farinata appartiene – è un dato di fatto – alla ed alle zone ad essa confinanti.
Foto di Fabrizio Perelli.

Storia di un monopolio…

… di un Vescovo pignolo… di … insomma di fugassa…
La viene citata per la prima volta intorno all'anno mille anche se, probabilmente, già da tempo era un alimento diffuso della genovese.
“A pestun cua sa”, così si chiamava il composto farinaceo mischiato con il “sa pesta”, nel corso dei secoli sempre più divenne il cibo dei genovesi, al punto che persino i matrimoni venivano scanditi in chiesa dal crocchiare della focaccia, offerta dagli sposi.
Nel ‘500 fu il Vescovo Matteo Rivarola, indispettito dal fatto che distraesse l'attenzione dei fedeli, a proibirla, pena la scomunica.
Nel frattempo prima e il Banco di San Giorgio poi, avevano acquisito il del .
"Antica Sciamadda".
“Antica Sciamadda in ”.

I grandi magazzini del franco non bastavano più a contenere l'indispensabile minerale così iniziarono a proliferare le Sciamadde (“fiammate”) dove, appunto, oltre a preparare farinate e torte salate, si poteva cuocere e vendere anche la fugassa (sale sul fuoco).

Storia della “Gattafura” (la torta pasqualina) …

Con questo curioso titolo erano note secoli fa, le torte miste di verdure e formaggio.
Fra queste anche la celeberrima così identificata solo a partire dalla seconda metà del ‘800 con il diffondersi delle Cuciniere.
Il primo che ne fece menzione fu nel Quattrocento nel suo “Libro de coquinaria” il famoso Maestro Martino de Rubeis, padre della rinascimentale.
Con la parola gattafure infatti, citata poi nel ‘500 sia da , cuoco di Papa Pio V, nel suo trattato, che da Ortensio Lando nel suo catalogo si indicavano e raggruppavano tutte le torte di verdure di origine ligure già nel XV sec.
Annotava così il Lando nel suo “Catalogo delli inventori delle cose che si mangiano et si bevano” del 1550:
“a si fanno certe torte dette gattafure perché le gatte volentieri le furano e vaghe ne sono, ma chi è sì svogliato che non le furasse volentieri? A me piacquero più che all'orso il miele”.
Evidentemente ai gatti doveva essere piaciuta molto questa torta erbacea a base di bietole, formaggio, uova e… prescinseua, ma anche l'umanista doveva esserne rimasto assai soddisfatto per immedesimarsi nella golosità dell'urside.

Questa torta salata veniva preparata per la festa pasquale rivestita, secondo la tradizione, di ben trentatré strati (pieghe) di sfoglia, in omaggio agli anni di Cristo.


Ne esistevano almeno un paio di varianti ma l'originale, anche se in molti pensano il contrario, non prevedeva i carciofi, bensì le bietole perché più economiche e facilmente reperibili presso le besagnine, rispetto alle più costose, perché fuori stagione, articiocche (carciofi).
Ancora oggi, nelle ormai rare Sciamadde, cosi come sulle tavole della festa, non può mancare, per resuscitare gli appetiti, la Regina delle torte salate.

Storia del “rovigliolo” (raviolo)…

 … del Paese della Cuccagna… di un poeta goliardico e… di un nostalgico musicista…

Già nel 1100 una che conteneva un “roviglio” (ripieno) era patrimonio comune sulle tavole dei . Notizie certe sulla sua genesi, basate su fonti storiche, non ne risultano; molte località del Genovesato, di conseguenza, ne rivendicano la paternità.

Una delle versioni più diffuse è quella che ne farebbe risalire l'origine alla famiglia “Ravioli” di Ligure che, per prima, avrebbe proposto il succulento piatto. Nel ‘200, complice le fiere e i mercati del Piacentino e dell'Astigiano, il si sarebbe poi diffuso oltre l'Appennino, nel parmense con il nome di “tortello” e in con quello di “agnolotto”.

Le prime tracce in ambito letterario risalgono al ‘300  quando  nel suo celeberrimo “Decamerone” il lo cita fra le leccornie nella novella sul Paese della Cuccagna in cui il protagonista Calandrino racconta: “… stava genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di Capponi e rotolano da una montagna di formaggio grattuggiato”. Raviolo in brodo certo, o cotto nel vino ma per me, come per il “Signore del violino”, la versione più appetitosa risulta essere quella condita con il “tuccu” (ragù alla genovese). In una lettera del 1839 di risposta ad un amico, infatti, Paganini ormai prossimo alla morte lontano dalla sua , descrive minuziosamente la ricetta per preparare i ravioli e del “tuccu” con il quale si raccomanda di condirli.

Ecco perché il Raviolo è musica inarrivabile per il nostro palato!

In copertina: ravioli di una nonna di Murta.

Storia di una piantina regale…

… di una salsa… panacea di tutti i mali … di un
condimento ineguagliabile…
Alcune fonti storiche fanno risalire al “Moretum”, descritto da Virgilio, come composto antenato del pesto genovese.
Altre invece, più plausibili, raccontano di parentele con “l'agliata”, salsa prodotta un po' in tutta la regione, utilizzata dai naviganti in gran quantità per le proprietà taumaturgiche contro infezioni e malattie, frequenti nei lunghi viaggi via mare.
Addirittura, secondo alcuni storici, il basilico (trad: dal greco erba del re), sarebbe giunto a solo nel 1362 importato dal mercante, Leonardo Montaldo.
Il futuro Doge infatti lo avrebbe preso in prestito, intuendone le proprietà organolettiche, dai greci di Bisanzio che lo utilizzavano, proprio come i genovesi con i gerani, come pianta ornamentale sui balconi.
Il pesto, come lo gustiamo noi oggi, ha invece una storia inaspettatamente recente;
il primo che ne fa menzione scritta è Giambattista Ratto che, ad inizio ‘800 nella sua “Cuciniera genovese” snocciola la ricetta includendo, incredibile a dirsi, come formaggio, al posto di pecorino e parmigiano, il Gouda olandese!
Fu Emanuele Rossi nella “Vera Cuciniera genovese”, qualche anno più tardi a presentarne altre varianti e introducendo grana generico e pecorino italiano.
Nel 1910 Emerico Romano Calvetti propone una sintesi delle due precedenti ricette in cui, comunque, aglio e formaggio prevalgono sul e, per fortuna, sparisce il formaggio dei tulipani.
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“Il mortaio e gli ingredienti per il pesto”.


Il pesto è poi diventato patrimonio dei primi piatti genovesi, ognuno con i propri segreti e varianti, spesso aggiustato con fagiolini, patate e fiori di zucca.
In tempo di magra si condivano paste “avvantaggiate”, cioè ottenute mischiando farina bianca e integrale, nelle zone montane, anche di castagne.
Gli ingredienti come tutti sanno sono: basilico di Prà, olio e v della Riviera di Levante 0 comunque ligure, grosso di Cervia, pinoli di Pisa, aglio di Vessalico, parmigiano reggiano e pecorino sardo del Gavoi.
Questa è la formula rigidamente codificata dall'omonimo Consorzio.
Il pesto condisce e valorizza qualsiasi prodotto a cui venga abbinato ma, secondo il mio modesto parere, nulla soddisfa di più che l'accoppiamento con i “Mandilli de saea” (fazzoletti di seta), delle sottilissime , ottenute con un semplice impasto di acqua, farina e un goccio di vino bianco, prive di uova…
Dalla Regina Elisabetta, a Carlo d'Inghilterra, a Frank Sinatra solo per citare i primi nomi che mi sovvengono… nutrito è l'elenco dei suoi devoti estimatori…
Ecco perché il pesto è il condimento dei Re….